Compatibilità tra diritti umani e Islam. Possibile?

I diritti sono affermazioni vincolate entro un quadro (pre)costituito. Nel panorama attuale, l’Islam rappresenta un ricco dipinto nelle cui diverse sezioni si registrano posizioni tra loro piuttosto diverse. Un colpo di sonda su di loro ci può spingere a riflettervi in rapporto a ciò che viene visto come “l’altro”: un “diverso” con cui condividiamo spazio e tempo, cioè quegli elementi che ci permettono di situarci nel mondo.

«In un tempo come l’attuale, caratterizzato dalla lotta internazionale contro il terrorismo, è tornato alla ribalta il problema dell’Islam, soprattutto per quanto riguarda la scarsa conoscenza reciproca: sia dell’Islam da parte degli occidentali, sia del cristianesimo da parte degli islamici1».

Sono almeno tre le tendenze di fondo, le “correnti” che sembrano scorrere, solcandolo, questo universo: l’ultima, la più recente, sarà quella su cui spenderò più parole, anche per le sue implicazioni nel contesto contemporaneo.

Un primo approccio, più ‘conservatore’, ripropone una visione tradizionale dell’islam per cui la Shari’a si erge a torre d’avorio ove il buon musulmano deve avere dimora. Si tratta di una posizione fatta propria da alcuni stati i quali, in antagonismo rispetto ai diritti dell’uomo universalmente condivisi, insistono sulla dipendenza assoluta della dimensione statale alla sfera religiosa.

Una tendenza più ‘pragmatica’ è invece adottata da quegli stati in cui, soprattutto in seguito al conseguimento dell’indipendenza, sono stati elaborati nuovi codici di diritto, per le varie sfere della vita quotidiana, spesso di matrice europea. Qui, l’ambito che più rimane soggetto alla Shari’a è quello del diritto familiare. In questa seconda prospettiva, gli adattamenti pragmatici più forti hanno riguardato le esigenze dei diritti dell’uomo e della vita moderna.

Infine, la terza corrente è quella “dei riformisti contemporanei” − l’Islam dei lumi −, cui aderiscono coloro i quali cercano di applicare nuovi criteri interpretativi a una lettura più generale, “finalista” del Corano, quindi non strettamente letterale. Questo è l’approccio cui anche i non-musulmani possono rapportarsi e confrontarsi in virtù di una possibilità di comunicazione fertile per tutte le parti coinvolte.

Nell’Islam a partire dall’anno mille si è sviluppato solo un approccio letterale delle fonti, e questo in quanto la libera interpretazione dei testi tramite l’applicazione del ragionamento razionale era inconcepibile. Per i riformisti, al contrario, è necessario promuovere una rilettura attualizzata e attualizzante del Corano rispetto alle esigenze di oggi, anche in forza del progresso culturale, morale generale sviluppato e raggiunto fino ai giorni nostri.

Questo può portare anche ad una “diversa” rilettura del Mondo, della sua perenne metamorfosi la quale richiede, come sua naturale conseguenza, un adattamento alle modifiche ed evoluzioni del sistema socio-politico e economico-culturale globale. Si tratta infatti di una Terra in cui ciascuno di noi, pur nella sua individualità, è incessantemente interconnesso all’Altro, poco importa se si tratta del vicino di casa o di un abitante di un continente distante migliaia di chilometri.

La lettura finalista mira a comprendere, nella situazione descritta dal Corano, quale era, appunto, la finalità della prescrizione o dell’atto di Maometto, cioè estrapolare l’intenzione dal dato storico letterale. Quest’ultimo esige oggi di essere applicato cercando di evadere da quel concetto per cui l’Islam si identifica con la religione naturale: è necessario scegliere di essere musulmani, cioè “sentirsi” tali. Questa libertà primigenia viene così posta sempre come base dell’umanità nella sua eterna complessità, con cui anche l’Islam deve rapportarsi.

Una rivalutazione della dimensione della libertà originaria dell’uomo può, così, costituire una base solida per sviluppare l’accettazione dei diritti dell’uomo, a tutto tondo. In virtù di una lettura finalista del Corano, sarebbe così possibile accettare, in maniera costruttiva e creativa, i diritti fondamentali dell’uomo enunciati nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo.

L’Islam è così in grado di percorrere questo sentiero di condivisione di un nucleo di valori fondamentali i quali possono fornire un nucleo di valori condivisi nelle società contemporanee. Questa terza tendenza moderna è attestata in innovazioni legislative e istituzionali introdotte in alcuni Stati che, tuttavia, si muovono sempre in un quadro non pluralista, ma tutt’oggi ancorato alla tradizione.

La sua importanza è comunque indiscussa in quanto apre prospettive innovative di carattere dottrinale, in grado di riverberarsi sui rapporti internazionali, e in grado offrire alle altre correnti più tradizionaliste la possibilità di aprirsi, dialogando, alla contemporaneità internazionale.

Seguendo questa terza corrente è possibile affrontare e scogliere nodi, tanto problematici quanto basilari, che avviluppano i diritti umani, con notevole apertura alla luce di una riflessione critica dei fondamenti della religione. È appunto definita Islam dei lumi per il rilievo riconosciuto alla ragione, in particolare nell’interpretazione del Corano. Questa opzione metodologica consente una revisione della Legge Santa ricettiva dei diritti dell’uomo così come formulati nei documenti internazionali.
In questa prospettiva si garantisce, per iniziare, la libertà religiosa e un’equa distribuzione di responsabilità e doveri, cui, di riflesso, fa capo un riconoscimento di pari diritti.

In ambito islamico, poi, molte donne e minoranze religiose nutrono quella fiamma di innovazione, promotori interni a livello intellettuale e sociale di una lotta politica e sociale affinché i loro diritti siano garantiti. In questo modo, la loro azione funziona anche da spinta evolutiva interna dell’Islam.

Le minoranze religiose, i cui membri sono tradizionalmente ridotti a cittadini di seconda classe, e a cui generalmente è stata riconosciuta dagli stati moderni una parità di cittadinanza formale, continuano tuttavia a subire molte discriminazioni sul piano delle normative concrete. La lotta che anche loro conducono, apertamente, per una parità di cittadinanza reale in nome dei diritti dell’uomo è comunque un importante propulsore di meccanismi di cambiamento all’interno delle società musulmane.

 

Riccardo Liguori

 

NOTE
1. M. Simone, L’islam e i diritti umani, in “La Civiltà cattolica”, Quaderno 3634, Volume IV, 2001, p. 396

[Photo credits: Junhan Foong on Unsplash]

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Sikh fiat

Nel 2015 un cittadino mantovano di origini indiane era stato multato perché fermato, due anni prima, mentre girava per strada armato di coltello. La lama in questione era in realtà un kirpan, il pugnale sacro che nella tradizione Sikh simboleggia l’essere sempre pronti a intervenire in difesa dei deboli, e portarlo nella cintura è un obbligo religioso: in nome della libertà di culto, l’uomo si era appellato alla Corte di Cassazione, ma la sentenza dello scorso 16 maggio dà ragione alle autorità mantovane, riconoscendo la tutela della sicurezza come valore superiore.

Impedire a privati cittadini di girare armati, in conformità con le leggi vigenti, non suscita in sé nessuno scandalo: «Se l’integrazione non impone l’abbandono della cultura di origine […] il limite invalicabile è costituito dal rispetto dei diritti umani e della civiltà giuridica della società ospitante», conclusione con cui è difficile essere in disaccordo. Quello che stupisce, della sentenza, è la posizione politica che ne emerge, e che dà direttive ben più generali del caso specifico. La Suprema Corte, infatti, arriva ad affermare che «è essenziale l’obbligo per l’immigrato di conformare i propri valori a quelli del mondo occidentale, in cui ha liberamente scelto di inserirsi, e di verificare preventivamente la compatibilità dei propri comportamenti con i principi che la regolano e quindi della liceità di essi in relazione all’ordinamento giuridico che la disciplina».

Il rischio di strumentalizzazione di una sentenza di questo tipo è evidente, specie in un periodo di paranoia generalizzata. Oltre a questo, però, rimane una preoccupante ambiguità di fondo: se si sollevano pochi dubbi parlando di leggi e norme, quando si tocca l’ambito dei valori la questione si fa più problematica. Non solo diventa molto più complesso, in termini strettamente giuridici, valutare una situazione di “valori confliggenti”, ma la battaglia in questione sarà comunque persa in partenza.

In una logica di pensiero religioso, il valore morale ha e avrà sempre la priorità su qualsiasi legge o norma “mondana”, indipendentemente dalla religione di appartenenza e dallo Stato di provenienza e/o accoglienza. Anche qualora la prospettiva per l’infrazione di una legge dovesse essere il carcere o, in casi estremi, la pena capitale, sull’altro piatto della bilancia rimane una dimensione di eternità infinitamente superiore.

Precedenti storici, filosofici e culturali abbondano, in questo senso: si pensi ad esempio all’Antigone di Sofocle, in cui l’eroica protagonista accetta di buon grado di morire di fame e di stenti per non contravvenire alla norma (sacra) della pietà verso un consanguineo, pur infrangendo così le leggi di Tebe. In ambito biblico, nel Secondo libro dei Maccabei, i sette fratelli protagonisti si lasciano torturare e uccidere uno dopo l’altro pur di non cedere alle richieste del re seleucide Antioco e mangiare carne di maiale, proibita dalla religione ebraica. In tempi più recenti, numerosissimi sono stati quelli che, rispondendo principi religiosi o semplicemente morali, hanno scelto di trasgredire alle vigenti leggi razziali e di nascondere cittadini perseguitati, ebrei in primis, sotto il regime nazifascista.

Dare per scontato che la minaccia (anche legale e legittima) di una pena sia in sé sufficiente a fare abbandonare usanze e costumi ritenuti sacri, è un grave segno di miopia in una società laicizzata che non comprende più la dimensione del sacro. Quando ciò che si richiede in cambio di una simile rinuncia è l’assunzione di “valori” sempre più nebulosi e meno condivisi, e soprattutto considerati a volte “disvalori” da altri popoli e culture, il risultato si preannuncia fallimentare. Possiamo decretare che «non è tollerabile che l’attaccamento ai propri valori […] porti alla violazione cosciente di quelli della società ospitante», possiamo perfino trovare un punto di incontro se l’oggetto del contendere è un pugnale rituale che, per quanto ne sia proibito l’uso per fini aggressivi, è effettivamente minaccioso e potenzialmente pericoloso. Quello che non potremo mai fare, però, è influenzare o modificare principi etici e scale valoriali, specie se per i diretti interessati la posta in gioco è infinitamente più alta che la prigione o la vita stessa.

Giacomo Minnini

[Immagine tratta da Google Immagini]

 

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Walther ha sparato ancora

«Mi piace, lo confesso, fondamentalmente mi piace poter controllare ogni aspetto della mia vita, mi piace avere un disegno fisso del mondo che mi circonda nel quotidiano, mi piace sapere che questo è giusto e quello è sbagliato, mi piace usare due categorie: ciò che si fa, ciò che non si fa.
Sono affezionato alle mie convinzioni e molto difficilmente me ne separo: è troppo doloroso lasciarle andare, è un passo troppo arduo, troppo oscuro. Ho paura.
Può mostrarmi tutte le statistiche possibili e immaginabili, ma sono solo numeri, percentuali, grafici a torta, a colonna, a spirale, a parallelepipedo; non mi avranno mai, glielo ripeto commissario, non mi avranno mai.»

C. allentò la cravatta, erano trascorse quattro ore e quell’osso duro ancora non mollava, più che altro non aveva ancora capito il motivo del suo arresto.
Il respiro tornò regolare; ne aveva interrogati parecchi in vent’anni di carriera, dall’ultimo dei ladri di polli al mafioso, mai aveva avuto la sfortuna di imbattersi in tanta cocciutaggine.
T. se ne stava zitto, aspettava la sua contromossa muovendo impercettibilmente gli occhi acquosi.
Voleva passare per vittima, su questo C. ne era fermamente convinto. Furbo il tipo.

«Non prendiamoci in giro T., lei ha sparato ad una persona che non era nemmeno nella sua proprietà, ma per strada e soprattutto non stava minacciando nessuno, a meno che il semplice passeggiare alle 22.30 non sia diventato improvvisamente sovversivo.»
«Questione di punti di vista.»
«Prego?»
«Proprio così, punti di vista. Vede commissario, lei dice che quell’uomo stava passeggiando per la strada, che è legittimo ci mancherebbe, ma alle 22.30 le brave persone sono a casa, i padri di famiglia intendo, e poi le ripeto, lo sguardo, il colore della sua pelle…»
«Continui»
«Con i tempi che corrono… lei capisce commissario, mi ha inteso, del resto siamo nella stessa barca, quanti ne avrà fermati, quanti ne avrà incarcerati per poi vederli scagionati dopo nemmeno ventiquattro ore?»

Ora era T. a fare le domande, era successo all’improvviso, un banalissimo contropiede.
In effetti non aveva tutti i torti: uomini e mezzi per acciuffare uno spacciatore, uno di quelli particolarmente pericolosi di via Roma, il nuovo ghetto dell’illegalità; uomini, mezzi e indagini, un’operazione iniziata alle 3 del mattino per essere sicuri di trovarlo in casa.
“Tagliata la testa il corpo muore di conseguenza”, queste le parole del questore; già parole, perché la verità era diversa.
Eppure non era questo il punto.

«Non è questo il punto T.»
«E qual è?»
«Che le domande le faccio io, lei sta divagando e soprattutto sta cercando di giustificare un omicidio con il movente del sospetto. Non c’è flagranza, non c’è intenzione manifesta, così, su due piedi lei ha deciso che Y.W. 23 anni, senegalese con regolare permesso di soggiorno, residente in Italia da sette anni, incensurato, era in procinto di compiere un danno alla sua proprietà?»
«Vengono qui per rubare, io non potevo sapere che lui era l’unico a non farlo, vengono qui e fanno i terroristi.»

C. aprì il fascicolo di T., finse di leggerlo, in realtà gli era bastata la mattinata per impararlo a memoria: erano carte, documenti, prove, segni di un passato violento.
E poi l’arma del delitto, simbolo del piombo.

«L’arma non è in regola, lo sa?»
«In regola?»
«Una Walther P38 con matricola abrasa, dal fascicolo risulta in suo possesso dal 1975, così come risultano due arresti per resistenza a pubblico ufficiale, un processo poi caduto in prescrizione connesso indirettamente alla strage di Bologna del 1980, e qui ci sono le testimonianze dello stesso processo che la identificano come appartenente ad una organizzazione politica extraparlamentare, una a caso… probabilmente oggi non vuol dire nulla ma all’epoca si chiamava terrorismo.
Come mi giustifica la sua morale?»

Silenzio.
Cadde un silenzio che parve infinito, interrotto dal rumore di una lampada difettosa, interrotto dal respiro ormai stanco dei due contendenti.
Entrò il vice, C. capì immediatamente: era arrivato l’avvocato.
Si alzò, non aveva più voglia di rivolgere altre domande a quell’uomo, sarebbe stata un’ulteriore perdita di tempo. Raggiunse la finestra in fondo al corridoio, la aprì per respirare aria che non sapesse di chiuso, guardò in strada, ai cancelli del commissariato c’era un capannello di persone con uno striscione: “Noi siamo con T.” e “C. servo dei poteri forti”. 

Il caso di T. e del senegalese ucciso era rimbalzato sui principali notiziari, sulle prime pagine dei quotidiani più importanti, persino nei salotti televisivi, dove avevano già deciso che T. si era solo difeso; nessuna prova, nessun testimone ma il verdetto già definito.
I partiti politici fecero a turno per accaparrarsi una sua testimonianza ad una qualche assemblea popolare, interventi diretti per raggiungere anche l’ultimo dei circoli e l’ultimo dei tesserati.
Nuovi ingranaggi mossi dall’emozione della grande macchina sputa-voti.
Il mito dell’uomo forte, l’uomo con le palle incarnato da T.: novello eroe contemporaneo, farcito di luoghi comuni, memoria non pervenuta, laureato in superficialità.

Alessandro Basso

[Immagine tratta da Google Immagini]

 

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Evgeny Morozov: internet, la nostra privacy e i signori del silicio

Un guastafeste, un bastiancontrario. In quarta di copertina del suo nuovo libro Silicon Valley: i signori del silicio, Evgeny Morozov è descritto proprio come quello che arriva tardi a una serata e rovina il divertimento, e la festa è la Silicon Valley. Ha l’aria tranquilla di chi sa di sapere, rimane seduto con le gambe accavallate senza scomporsi mai, ma quando tocca a lui non le manda certo a dire, ai colossi californiani soprattutto. Il sociologo bielorusso, giornalista e saggista, 32 anni, già quattro libri pubblicati in Italia, è considerato come uno dei massimi tecnoscettici, parola con cui si vorrebbero comprendere molte cose e che non vuol dire niente. Quel che si può dire, specificando meglio, è che Morozov è un esperto e studioso dei nuovi media e di internet, è molto critico riguardo il nuovo tipo di capitalismo sdoganato dalle aziende della Silicon Valley e riguardo l’uso che fanno e che potranno fare dei nostri dati. Se questo è essere tecnoscettici, allora sì, lo è, e molto.

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Comunque sia, l’incontro e il dibattito che ha tenuto al Teatro Comunale di Ferrara il primo ottobre durante il Festival di Internazionale era gremitissimo, con molte persone in coda già un’ora prima dell’inizio. L’incontro si chiamava Fatti nostri con il sottotitolo Privacy, diritti e libertà ai tempi dei big data, ed era inserito non a caso nella categoria diritti. Morozov avrebbe dovuto dialogare con Stefano Rodotà, che ha rinunciato però all’ultimo. A rimpiazzarlo Paul Mason, giornalista del Guardian e autore di Postcapitalismo, da poco uscito in libreria. La discussione è stata così più tecnica e basata sulle implicazioni politiche ed economiche della tecnologia odierna. L’ora e mezza è stata densa di temi e il dialogo (in inglese) molto serrato, tanto che le traduttrici a fatica riuscivano a stare dietro al ritmo con cui le parole di Morozov uscivano dalla sua bocca. L’assunto da cui partono e concordano sia Mason che Morozov è la visione di internet come di uno spazio (cyberspazio) scollegato dalla realtà, un posto speciale e in quanto tale con regole proprie, invece che una semplice, ma nuova, infrastruttura. Di fatto, spiega il sociologo, questo permette alle nuove aziende che operano in questo scenario, vedi Uber e AirBnb, di sfruttare la deregolamentazione che esiste in materia, non sottostando alle leggi normali. E inoltre di rispondere alle accuse che vengono mosse nei loro confronti ergendosi a paladini di internet, gridando alla censura, come se pretendere delle regole mettesse in discussione la libertà stessa di queste aziende e della rete. Morozov infatti mette in guardia dalla retorica che ci fa credere che le innovazioni tecnologiche, tutte, siano sinonimo di progresso e che le critiche ai punti oscuri del nostro mondo digitale (e ce ne sono) siano invece ostacoli, tacciando chi le formula di essere antiprogressista. Quello che auspica Morozov e che trova d’accordo anche il suo compagno di palco è quindi innanzitutto una regolamentazione democratica dello spazio cibernetico, inteso sia come contenuto che come struttura di internet.

 

Internazionale_ferrara_2016_la Chiave di Sophia-01Altro snodo cruciale sono poi i big data e le intenzioni che hanno a riguardo i nuovi giganti del capitalismo. Tema di attualità poiché siamo veramente solo all’inizio della raccolta e dell’utilizzo dei dati, e caro a Morozov che ne parla per esteso anche nel suo ultimo libro. La sua tesi è che tutti i servizi gratuiti o quasi che ci offrono aziende come Facebook, Google, Amazon, ma anche Spotify (come anche tutte le iniziative umanitarie sempre opera di questi colossi nel terzo mondo), non ci sono dati perché abbiamo a che fare con un nuovo tipo di capitalismo felice e inclusivo, e con gente che fa filantropia, anzi. Abbiamo a che fare con un’altra faccia del vecchio capitalismo che, impreziosito dalla retorica dell’infallibilità e del bene comune, in cambio di servizi si prende i nostri dati, ovvero la nostra privacy. Fin qui nulla di trascendentale, se non che l’enorme massa di dati che vengono processati ogni giorno da Facebook e Google, tra gli altri, hanno lo scopo di essere monetizzati, spiega Morozov. Quindi il miglior offerente si accaparrerà le nostre informazioni per mostrarci la pubblicità più adatta a noi al momento giusto. O i dati finiranno in mano di banche e assicurazioni, che sapranno meglio di noi quanto valiamo e se siamo o meno affidabili. Il problema è quindi non solo digitale ma politico ed economico, e il dibattito secondo Morozov deve spostarsi su questi piani per poter vedere e contrastare le implicazioni di questo tipo di mercato. Se questo è l’inizio Morozov immagina come, grazie ai nostri dati, le aziende possano impadronirsi poco alla volta del settore pubblico: dalla sanità via app, ai trasporti appaltati ad Uber fino ai MOOC (corsi online) al posto delle università. E se non si fa qualcosa saranno proprio lo stato e le città ad affidare ai privati queste incombenze. Il potere politico si sposterà quindi dai parlamenti ai consigli di amministrazione. Per il sociologo la partita inizia dai dati ma può mettere in crisi il welfare e lo stato sociale per come lo conosciamo oggi. E allora la nostra privacy sarà diventata un servizio a pagamento e non un diritto; è questo il pericolo più grave. Di fronte a tutto ciò Morozov afferma che c’è bisogno di un’alternativa statale e pubblica al monopolio delle aziende di big data, solo in questo modo potremo essere sicuri che i nostri dati siano usati realmente per il bene della collettività e non solo per generare profitti. Rispondendo infine abbastanza accalorato all’ultima domanda dal pubblico, rivolge alla platea un’altra domanda: “Vogliamo davvero che tutti i minimi aspetti delle nostre vite siano gestiti da Google tramite i nostri dati? Io no.” A noi la parola.

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Tommaso Meo

[Immagini di proprietà de La chiave di Sophia]

Se mi imponi non ci sono più: chi sono?

«Facoltà di pensare, di operare, di scegliere a proprio talento, in modo autonomo; cioè, in termini filosofici, quella facoltà che è il presupposto trascendentale della possibilità e del volere, che a sua volta è fondamento di autonomia, responsabilità e imputabilità dell’agire umano nel campo religioso, morale, giuridico» (Treccani).

Questa è la definizione che il libro dei vocaboli mi concede.
Tuttavia è solo una parte dei miei poteri; se vengo associata al pensiero, al culto, all’espressione, alla stampa, persino all’essere felici, mi ritrovo in specifiche situazioni e opero senza ostacoli.
Nella mia natura non ho confini, e se non ci fossero le vostre leggi lavorerei a trecentosessanta gradi arrivando a distruggere le mie sorelle; non so chi sia stato il primo tra voi ad imbrigliarmi, quello che so è che da quel momento ho iniziato ad essere usata a vostro piacimento, anche solo per giustificare qualche vostra malsana idea di dominare il mondo.

C’ero quando mi avete posta in cima alla piramide dei vostri valori, era scritto in una carta firmata tanto tempo fa; c’ero quando mi avete vista sotto una certa luce e avete pensato che fosse la mia rappresentazione assoluta, per poi costringere tutti gli altri a guardarmi allo stesso modo.
Mi avete insegnata, spiegata, i più grandi tra coloro che chiamate filosofi mi hanno studiata, e ognuno ha detto la sua opinione.
Avete combattuto delle guerre solo per la convinzione di avermi come alleata o testimone.

No, non sono nulla di tutto quel che dite.
Nessuno mi possiede quindi tutti mi possiedono.
E’ inutile il vostro fomento, il vostro dito puntato contro qualcun altro che non è voi, vestito diversamente, che adora divinità diverse, che interpreta la vita in una delle sue innumerevoli declinazioni, loro come me: tutte giuste quindi tutte sbagliate.
Odio terribilmente quando mi chiamate, quando mi invocate, quando vi vantate, quando dite di avermi definito sotto ogni singolo aspetto.
Vi detesto soprattutto quando decidete cosa sono e per chi.

Ultimamente lo avete fatto con le donne.
Sì insomma, avete deciso come le donne di tutto il pianeta mi dovrebbero vivere, e non vi siete nemmeno resi conto che facendolo mi avete allontanata da loro.
Mi avete sbandierata a gennaio dello scorso anno, perché era giusto che dei fumettisti potessero disegnare ciò che volevano, oggi mi avete rinnegata perché quegli stessi fumettisti hanno disegnato ciò che volevano.

Vi piaccio solo quando vi fa comodo.
Solo quando non vi si tocca nel profondo, solo quando vivete di eterna superficialità, solo per fare bella figura con gli altri, voi e la vostra faccia pulita scevra da ogni ombra.
Mi legate a frasi sconnesse, a citazioni di altri come voi, mi legate a bandiere, a vessilli e mi portate in trionfo senza accorgervi del nulla che vi accompagna, mi legate a uomini che mi hanno negata per legge, senza rendervi conto delle amenità che pronunciate.
Dite di rispettarmi, ma non mi state nemmeno a sentire.
Siete pieni solo di voi stessi, non di me.

Allora, nel silenzio della vostra indifferenza quasi quasi me ne andrei.
Mi lascerei trasportare dalla tentazione di vedervi sbalorditi alla ricerca di qualcosa che avete perduto.
La straordinaria soddisfazione nel dirvi addio.
Nel prendere commiato e dare le dimissioni da questo mondo nel quale vengo imposta.
Basta, non ci sono più.
Parola di Libertà.

Alessandro Basso

[Immagine tratta da Google Immagini]