Confusione e Anarchia: due nazioni difficili da governare

<p>immagine tratta da google</p>

Dicevano di vederle sempre assieme: «Si accompagnavano non meno di tre lune fa, lo posso giurare», proprio così dicevano; «Sono amanti nascoste, abitano nella stessa casa – affermava la vecchia acquaiola – certe cose le so per esperienza!». E così il fabbro del borgo, il mastro birraio, la lavandaia, il perdigiorno di professione, persino il cieco ed il frate irriverente; anche le pecore se il buon Dio avesse dato loro la parola avrebbero cantilenato: «Non una volta, nemmeno per errore, che abbiano imboccato due diverse direzioni, ci possiamo giocare all’azzardo tutta la nostra lana».
Così erano Confusione e Anarchia, amiche, sorelle, parenti alla lontana… nessuno in cuor suo lo sapeva con certezza. Se fossero state gemelle forse un’impercettibile differenza nell’ultima ciglia dell’occhio sinistro, un passo breve come tra un carminio e un pompeiano. Il re di tanto in tanto diceva ai suoi uomini migliori: «Sarebbero nazioni dai confini indefiniti, un disastro doverle governare!».
Pochi, pochissimi sapevano andare oltre le semplici apparenze ed erano anche gli unici a non cadere nel tranello delle banalità: è vero, abitavano nella stessa casa, ma ognuna aveva le proprie stanze, ed un muro spesso un braccio tracciava confini ben definiti tagliando persino l’aria; non sempre andavano d’accordo, forse una sottile cortesia di circostanza tra un “buongiorno” e un “buonasera”, ma mai un più dolce “buonanotte”.
E le origini? Anche quelle erano diverse. Confusione nacque da Caos e Disordine, mentre Anarchia era figlia di uomini che un giorno si alzarono in piedi e decisero di non avere padroni o capi a cui rendere per obbligo parte del frutto del loro lavoro, uomini capaci di vivere assieme ad altri uomini in un tacito rispetto di confini molto più netti di quel che si possa immaginare.
È gente che sogna quella che ama Anarchia… un amore di vetro, facile da incrinare se degenerasse in oblio; ecco allora che subitamente si vedrebbe Confusione, regina senza re, bella e di facili costumi.
Ed ecco servito il rovello più cocente, quello che nessuno è riuscito a districare: vivrebbero Anarchia e Confusione l’una senza l’altra? Nel mondo degli astratti, dove tutto è fine a se stesso probabilmente ognuna basterebbe a se stessa… ma noi abitiamo solo il mondo dei normali, dove hanno ragione un po’ tutti e dove tutto è tessuto pazientemente all’insegna di un’infinita ballata di imperfezioni.

Alessandro Basso

Articolo scritto in occasione del secondo incontro ‘Confusione/anarchia’ della rassegna ‘Tra realtà e illusione’ promosso dall’Associazione Zona Franca

James Dean: attore, icona, mito

A 24 anni si è ancora forse troppo giovani per capire cosa fare della propria vita. Si è da poco entrati in un mondo nuovo, fatto di grandi sfide e decisioni da prendere. Ci si guarda intorno spaesati.
Il 30 settembre 1955, sulla Route 466, James Dean moriva in un incidente stradale, al volante della sua Porsche 550 Spyder, “Little Bastard” come l’aveva lui stesso soprannominata.
A soli 24 anni se ne andava un ragazzo già uomo, un talento purissimo del grande cinema americano, un timido ribelle.
Tanto è stato scritto negli anni di Dean, fiumi di inchiostro. Il suo viso è ritratto ovunque: fotografato con cappello da cowboy e sigaretta stretta tra i denti, con un sorriso sornione e furbo, immortalato con il suo sguardo di ghiaccio, un’aria da ribelle senza tempo e una bellezza immortale.

È stato e continua ad essere lo specchio di un’epoca: figlio di una generazione che aveva versato sangue sui campi d’Europa e del Pacifico durante la Seconda Guerra Mondiale e che stava costruendo l’America di oggi, rappresenta l’inadeguatezza e la ribellione di un giovane uomo che cerca il suo posto. “Rebel without a cause”, come il titolo originale di Gioventù bruciata, è l’espressione che più si avvicina a ciò che Dean rappresenta.

Nei soli tre film in cui ha recitato si percepisce tutta la sua anima, la sua potenza; non si limitava solo a recitare, portava tutto sé stesso all’interno del suo personaggio, si fondeva in un tutt’uno. Che si chiamassero Cal Trask, Jim Stark o Jett Rink poco importava, esisteva solo uno, James Dean.

Celebri sono le sue improvvisazioni, come quella incredibile e commovente ne La valle dell’Eden, in cui interpretando Cal porta al padre 5000 dollari per risarcirlo di una perdita economica. Il suo viso è carico di gioia. Il padre però lo respinge e nella sceneggiatura originale Dean avrebbe dovuto andarsene. Invece rimase sulla scena, mutando gradualmente espressione, disperandosi, piangendo, aggrappandosi abbracciato al padre.
Se lo si vede recitare si ha subito l’impressione di trovarsi di fronte ad un attore diverso dagli altri: ci si immedesima subito nella sua irrequietezza, un’angoscia che sembra non trovare quiete. Si viene catturati dalla sua bellezza portata in maniera timida, con quel senso di ribellione e imbarazzo di un ventenne che è già uomo, che se ne frega, che vuole vivere a 100 all’ora.

Fu proprio la sua passione per la velocità a portarlo via così presto; correva regolarmente in moto e in auto e quando morì stava andando a Salinas, in California, per partecipare ad una corsa.

È stato definito in molti modi: sfacciato, ipersensibile, insicuro, sofferente, un ribelle che usava la provocazione come maschera del proprio disagio. Ma forse più semplicemente Dean era «troppo veloce per vivere, troppo giovane per morire», uno di quei ragazzi destinati a diventare un mito che trascende il tempo, un simbolo di ribellione emotiva e interiore, diversa dalle grandi correnti giovanili che avrebbero investito il decennio successivo alla sua morte. Il suo fascino e la sua bravura rimangono limpidi ancora oggi. La sua stella ha brillato per pochi anni, ma la sua immagine di timido ribelle in jeans, maglia bianca e giubbotto rosso rimarrà immortale.

Lorenzo Gardellin

[Immagine tratta da Google Immagini]

AC/DC on the highway to hell?

La riflessione appartiene ad ogni ambito della vita umana. La dimensione temporale è la caratteristica che meglio definisce l’uomo nel suo rapporto con il mondo: la storia può essere guardata da infinite prospettive. È sulla scia di questo ragionamento che abbiamo scelto di affrontare un passato particolare, forse poco accademico, ma non per questo meno degno di essere preso in considerazione, anzi. Il passato che abbiamo scelto di leggere è quello di un gruppo musicale; è quello di una band che con la sua produzione, di pagine di storia della musica ne ha scritte indubbiamente più di una. Abbiamo scelto di leggere gli AC/DC!

Iniziamo con il proporre, come consuetudine della rubrica, un testo che possa avvicinare appassionati e curiosi a questa leggenda della musica. AC/DC, scritto da Murray Engleheart e Arnaud Durieux (Arcana Edizioni, 2009) non è una semplice biografia, ma è un vero e proprio manuale sulla storia della band, ricco di curiosità, aneddoti e foto. Lo stile rockeggiante dei due autori farà assaporare tutta d’un fiato la vicenda del gruppo australiano, dagli albori a Sydney nel lontano 1973 fino al penultimo disco del 2008.

Per molti potrebbero essere un gruppo qualunque, una band come tante altre, ma i maggiori critici musicali li hanno collocati nell’Olimpo dei mostri sacri del rock’n’roll. Cos’hanno di tanto speciale? Innanzitutto, quasi mezzo secolo fa, o come dice il libro «150 milioni di dischi fa» sono stati tra i primi a sfidare le convenzioni musicali dell’epoca, proponendo uno stile e uno spettacolo fuori dagli schemi. Tra petti nudi, tatuaggi in vista, apparizioni in tv al limite del buon costume, sono stati in grado di costruirsi un’immagine inconfondibile, sempre accompagnata da melodie di qualità.

Recentemente il gruppo ha annunciato la fuoriuscita, per motivi di salute, dello storico cantante Brian Johnson. Le sue capacità uditive, infatti, dopo anni di tour in tutto il mondo e dopo miglia spese in corse automobilistiche, risultano alquanto compromesse: palco e pista avranno per lui d’ora in poi l’amaro sapore di un desiderio purtroppo proibito.

Risale a questi ultimi giorni la conferma ufficiale della voce che girava da tempo attorno alla sostituzione del cantante. Ebbene sì, le rimanenti date del tour dell’ultimo disco vedranno al microfono nientemeno che Axl Rose, frontman dei Guns N’ Roses.

Da qui ha inizio l’aspra polemica nei social. L’opinione comune di tutti i fan, da qualsiasi parte del mondo? Anziché continuare l’avventura con Axl, il gruppo avrebbe dovuto chiudere baracca; avrebbe dovuto alzare le mani in segno di resa ed annunciare consapevolmente la propria fine; avrebbe dovuto dichiarare la propria appartenenza al passato.

Ma com’è possibile accettare una tale sconfitta? Com’è possibile rinunciare all’ebbrezza del palco? Com’è possibile arrendersi all’età che avanza? Com’è possibile dirsi sorpassati se si è una delle migliori rock band di tutti i tempi?

Con più di 40 anni di carriera e 18 album, gli AC/DC hanno piazzato il loro Back in Black del 1980 al secondo posto della classifica dei dischi più venduti di sempre (dopo Thriller di Michael Jackson). No, decisamente non potevano chiuderla qui! E dunque porteranno avanti il loro tour con questa nuova formazione, sfidando le critiche dei fan che non riconoscendo più il loro stile vecchia scuola avrebbero preferito un addio al palcoscenico. Alcuni il loro tramonto l’hanno proprio dichiarato, chiudendo siti web a loro dedicati (vedi acdc-italia.com) o mettendo in vendita sui social i biglietti del tour già acquistati. Ma com’è possibile, da veri fan, voler relegare al passato i propri idoli musicali? Perché non accettare la sostituzione per amore delle canzoni con cui si è cresciuti o invecchiati? Il cambio d’immagine ha generato prese di posizione piuttosto decise: in effetti nel corso degli anni gli AC/DC non hanno mai cambiato i loro caratteri distintivi, così come hanno sempre mantenuto elevati livello ed originalità dei loro brani.

Forse è proprio per questo motivo che per i fan sarebbe più facile sopportare un loro addio. Un gruppo che ha sempre conservato invariati il proprio stile e la propria immagine, mal si presta a presentarsi in scena con un cantante che per modi di fare e carattere non risulta in linea con i canoni della band e con le aspettative dei fedelissimi. Ciò è significativo di quanto la musica non sia un semplice sottofondo delle nostre giornate, ma sia un elemento determinante del nostro stesso vivere. A questo proposito si può leggere nel libro, e con questo chiudiamo:

«La band ha segnato le avventure sessuali, le peripezie alcoliche, le battaglie, i matrimoni, le nascite, i funerali, le macchine e i tatuaggi di milioni di vite da Bruxelles a Brisbane, da Montreal a Manchester, da Tokyo a Milano, diventando molto più di un semplice gruppo rock… diventando un’istituzione».

For those about to rock we salute you!

Federica Bonisiol & Dario Zanetti