Tutte le maschere della mia vita

 

Nascondi chi sono, e aiutami a trovare la maschera più adatta alle mie intenzioni.           William Shakespeare

Nuda davanti allo specchio mi guardo e mi risuonano ancora nella mente le sue parole. “Mi sembra di non conoscerti, Rachele. Io non so chi sei, non lo capisco. Non capisco cosa ti faccia felice e cosa ti faccia incazzare! Sembra che tutto ti vada bene, ma lo sai cosa ti piace? Chi sei veramente Rachele? Io non posso andare avanti così.”

Chi sei veramente, Rachele?

Allora inizio a spogliarmi. Tolgo i jeans e il maglione attillati che mi fanno risaltare le forme. Tolgo i tacchi che mi fanno sembrare le gambe più lunghe. Tolgo il reggiseno che mi regala un seno alto e pieno. Tolgo le calze che mi appiattiscono la pancia. Tolgo le extension che mi rendono i capelli più voluminosi. Tolgo il rossetto che fa sembrare le mie labbra più grosse. Tolgo il rimmel che mi dona uno sguardo da cerbiatta. Tolgo tutto quello che non sono io e guardo negli occhi l’involucro di me stessa. Guardo il mio corpo in tutte le sue imperfezioni che quotidianamente mi costringo a correggere e a voce alta mi domando:

Chi sei veramente, Rachele?

Chi sono non lo so più. O forse non l’ho mai saputo.

Mi ricordo la prima volta che salii sul palco da bambina. Per tutta la durata della recita mi sentii bene, come mai prima. E da allora forse iniziai a recitare in tutto il resto della mia vita nella convinzione che, se mi fossi comportata come gli atri volevano, sarei stata accettata, sarei stata amata.  E da allora a casa sono stata una bambina ubbidiente e rispettosa. Un’adolescente studiosa e sorridente. Una giovane donna forte e proiettata alla carriera. Con gli amici sono stata estroversa e spavalda, sempre pronta a provare cose nuove, senza mostrare mai paura; un’amica premurosa ma mai turbata dagli sgarbi. Con gli uomini mi sono sempre mostrata forte ma al tempo stesso accomodante, mai un segno di risentimento, di dolore. Nel lavoro mi sono mostrata passionaria e competente.

Ho passato una vita a essere quello che pensavo gli altri volessero. Mai un cedimento. Mai niente che rivelasse che quella non ero io. Sono apparsa ma non sono mai stata. Mi sono vista vivere senza vivere mai. Ferma in uno stato di gelo senza che niente mi potesse toccare. Con la testa svuotata, sorridente per sembrare spensierata. Un manichino tra tanti. I giorni sono passati, senza colori né sapori. Ho vissuto nel carnevale del mondo, indossando una, cento, mille maschere. Me ne sono stata in bilico fino a quando la vita mi ha travolto. E la risata mi si è smorzata.

Mi sono sentita infelice e stanca, senza mostrarlo mai, neanche a me stessa. Piuttosto che piangere mi sono impegnata, ho dedicato me stessa a costruire il mio personaggio. Mi sono sentita vuota e infelice e allora ho lavorato di più, ottenendo traguardi sempre più importanti. Mi sono dedicata alla scalata del successo per non sentire niente, lottando e servendomi della logica del potere e della competizione per prevalere, per arrivare prima. E ogni volta che ho raggiunto un nuovo obiettivo, il vortice di euforia e soddisfazione è sempre durato lo spazio di un momento, un uragano che poi mi lasciava vuota, come prima.

Ho passato la mia vita lasciando spazio solo alla razionalità, senza mai permettermi di provare niente. Sono stata sottovuoto. Ma la domanda “chi sei veramente Rachele?” ha creato il cedimento che non c’era mai stato. E sono caduta tutta d’un pezzo. Le mie maschere sono state scoperte e si sono lasciate cadere, frantumandosi, senza darmi il tempo di capire chi io fossi, senza darmi alcun preavviso. E mi ha sorpresa che nella strada di ritorno a casa mi sia sentita nuda. E mi ha sorpresa scoprire che la cosa mi fa paura, che provo timore e vergogna al pensiero di scoprire chi sono, di scoprirmi e mostrarmi nelle mie luci e nelle mie ombre.

E ho passato un’intera nottata nuda davanti allo specchio, sgomenta, a piangere tutte le lacrime che non avevo versato, lasciando andare tutte le maschere della mia vita, per morire e intraprendere il viaggio della mia rinascita, il viaggio per conoscere me stessa. Ci saranno momenti, forse anni, bui in cui dovrò affrontare senza cercare di fuggire tutto il dolore che emergerà. Volevo solo essere amata, questa è la ferita che ho cercato di coprire con un cerotto: le mie maschere.

È in questi giorni finito il Carnevale, la festa delle mille follie, del mondo al contrario e del divertimento mascherato. Ci siamo divertiti a travestirci e interpretare un ruolo a noi obsoleto. Semel in anno licet insanire, dicevano i latini; ma, se il Carnevale è finito, quella che ci è rimasta addosso è la maschera che ancora portiamo, quello strato sottile che mettiamo tra noi e gli altri, come scudo, in modo che nessuno possa vedere le nostre debolezze, le nostre insicurezze, quel velo invisibile che portiamo per cercare l’approvazione degli altri facendo finta di non averne bisogno. Se indossare delle maschere, talvolta, può essere utile a proteggere la nostra intimità, il rischio è di dimenticarcene, di scordarci di averla ancora addosso e di non riuscire più a toglierla senza che venga via anche la pelle. Le maschere prendono a prestito i nostri corpi e a volte ce ne privano, proponendo un personaggio, con modi di pensare, di parlare, di proporre il corpo, di camminare, di respirare, facendoci perdere noi stessi. Gli indiani proverbialmente dicono: “Se tieni troppo a lungo la maschera finisci per farla diventare la tua faccia”.

Giordana De Anna

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Dalia

Il suo nome è Dalia. E se fosse nata fiore avrebbe voluto essere proprio così. Con quei petali colorati e ricchi di complesse sfumature. Elegante e femminile. Scenografica. Colorata come il sole, come i campi d’estate. Viva.

E quel nome le ha sempre calzato a pennello, pensava.

Questa è la sua storia. La storia di una donna che emanava vita, nelle sue contraddizioni, nel suo vortice di avventure, nel suo non arrendersi mai. E questa storia vuole essere ascoltata, perché potrebbe essere la vostra. E non vuole compassione, né pietà: non le servono, non le sono mai servite.

Dalia era la seconda di tre sorelle. Era la mediana: non era mai quella grande, né quella piccola. Una posizione scomoda per la verità perché alla sorella grande davano sempre delle responsabilità, e per questo era tenuta sempre in considerazione, e la più piccola era la regina di casa, quella a cui la nonna intrecciava i capelli biondi in una corona sulla testa. Lei, per quanto si mostrasse matura o si pizzicasse le guance per farle diventare rosse come quelle delle bambole, restava sempre “quella di mezzo”. In realtà ben presto aveva tratto da questa posizione scomoda i migliori vantaggi che poteva offrire e aveva smesso di tentare in tutti i modi di occupare il ruolo che già occupavano le sue sorelle.

Incostante nelle sue passioni, sempre brevi, se ne andava in giro a esplorare il mondo, affamata. Si godeva la sua indipendenza e la apprezzava sempre di più. Questa era Dalia.

E Dalia era cresciuta, ma era rimasta sempre così. Si era sposata, aveva avuto un figlio e aveva divorziato. Poi si era risposata, un matrimonio lampo. Dopo sei mesi arrivò il secondo divorzio. Così Dalia aveva capito che il matrimonio non era adatto alla sua sete di indipendenza. Era partita col circo, un giorno, perché le andava; le sembrava la sua strada, una delle tante. Presto era tornata, come sempre, già annoiata dal mondo parallelo in cui aveva vissuto e pronta a ricercarne un altro.

Cercava continuamente qualcosa senza forse riuscire a trovarla mai. Dalia era così. Colorata, eccentrica, impegnata a vivere. Viveva fuori dalle righe. E questi erano anche i suoi peggiori difetti perché Dalia era solo capace di pensare a se stessa e di vivere per se stessa. Cambiava continuamente amici, lavoro, passioni e poi gettava via.

Dalia ha vissuto impegnata a far bruciare la sua vita. Baricco ha scritto

perché dove la vita brucia davvero la morte è un niente.

E lei ci credeva e credeva di farlo. Ma poi la morte si è avvicinata anche a lei e si è domandata se la sua vita alla continua ricerca di qualcosa senza trovarla mai fosse stata bruciata davvero. Cosa voleva dire bruciare la vita? Cosa voleva dire vivere davvero, fino in fondo, godendosi e assaporando ogni istante? E nel rispondersi qualcosa si era incrinato. Non era più sicura che volesse dire eliminare gli aspetti più ordinari e ridurla ad un continuo inseguimento del piacere e ad una continua fuga da quello che reca, o che si teme possa recare, noia o dolore. Per lei il presente aveva sempre escluso il ricordo del passato e l’attesa del futuro. Il presente per lei è sempre stato una tessera strappata via da un mosaico. Si era resa cieca e sorda davanti al mondo, davanti agli affetti per vivere il presente. Si era resa cieca e sorda davanti ai bisogni dell’anima. E si era insinuato in lei il dubbio che la vita da bruciare non fosse fatta solo di grandi imprese, grandi viaggi e di esperienze fuori dalle righe ma di piccole cose, ordinarie, rese degne di essere vissute perché colorate di emozioni, sentimenti e volte anche dolore. Si era insinuato in lei il dubbio che la vita vissuta, quella davanti a cui la morte è un niente, è quella in cui non ci si è risparmiati nel viverla col cuore.

Dalia era stata come un fiore appassito, morto dentro ma ancora in piedi fuori. L’amore era la sua acqua. E di acqua ne aveva avuta troppo poca.

E fu così che una sera d’inverno Dalia perse tutti i suoi colori.

Giordana De Anna

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Anno nuovo, vita nuova: lista buoni propositi 2015

Si sta avvicinando il Capodanno e insieme alla fatidica domanda “cosa facciamo a Capodanno?”, la ricerca del vestito adatto e l’acquisto dell’intimo rosso, iniziamo anche a pensare a tutte le buone intenzioni da realizzare.

Perché il cambio d’anno diventa ogni volta quel momento catartico in cui si deve dare una svolta alla propria vita. E ogni primo gennaio ci sembra sempre un nuovo inizio, ci fa credere che non saranno altri 365 giorni uguali ai precedenti.

Quello di cambiare è un desiderio comune. È difficile che di noi e della nostra vita ci vada bene tutto. C’è chi vorrebbe essere più ottimista, chi più deciso e determinato, chi meno pigro. Ottimismo, entusiasmo e speranza ci invadono nel passaggio da un anno all’altro.

Io ogni anno ce la metto tutta. E anche quest’anno non sono stata da meno. Ho già stilato la mia “Lista buoni propositi 2015”– così da poterla ignorare il prima possibile.

  1. Smettere di fumare. Forse uno dei buoni propositi più gettonati – sono poco originale, ahimè. E sarò poco originale anche quando non lo riuscirò a portare a termine e penserò di riciclarlo per l’anno dopo.
  2. Leggere di più. Voglio riuscire a passare qualche ora al mese in libreria, per respirarne l’atmosfera, per perdermi nell’inconfondibile odore di libro nuovo.
  3. Dormire. Questo proposito mi piace. Dormire nel modo giusto fa bene. Fa bene alla pelle ( e quindi mi rallenta la formazione delle rughe), dona un aspetto sano (con la mia carnagione olivastra è difficile a volte apparire sani in inverno, ho sempre quell’aspetto grigio/verde…), regola il buon umore e migliora il metabolismo (Grazie!!). Forse sarà l’unico proposito che riuscirò a mantenere, non ho mai avuto problemi di insonnia…
  4. Risparmiare. Ecco, mi viene già da ridere.
  5. Viaggiare. Anche solo per un giorno. Con poco bagaglio ma tante speranze e aspettative. Un pacchetto regalo confezionato con cura. Lasciando a casa pregiudizi e preoccupazioni, ma riempiendo il bagaglio di curiosità e di immaginazione. Partire, volare, sognare, sperare.
  6. Mettermi a dieta dopo le feste e Andare più spesso in palestra. Ma poi chi l’ha detto che l’anno nuovo debba iniziare all’insegna della tristezza della dieta e del proposito di uccidersi in palestra? Mangiare sano mi suona meglio…
  7. Trovare un lavoro. Questo mi crea ansia. Lo cancello. Vivere con coraggio il presente mi piace di più.
  8. Assaporare ogni momento della mia vita. Ci si può provare… in fondo è un’opportunità, non una condanna.

È una bella lista, ma, molto probabilmente, non farà una fine diversa dalle altre. Ogni anno sull’agendina nuova attacco sempre in prima pagina i miei propositi, che poi diciamocelo in fondo rimangono più o meno sempre drammaticamente gli stessi. Ecco, appunto, sempre gli stessi. È mai possibile che, arrivata a fine gennaio, prendo il foglio dei buoni propositi, lo butto nel cestino e fingo di non averlo mai scritto?

Il fatto è che la vita prende il sopravvento, accadono cose che non ci aspettiamo e che ci distraggono dalla nuova rigida disciplina che ci siamo imposti. A volte poi cerchiamo a tutti i costi di essere completamente diversi da quello che siamo e nel lungo periodo non funziona. Riguardare i propositi che avevamo scritto ci fa sentire sopraffatti o intimiditi dalla difficoltà dell’impegno che ci siamo presi e poi i nostri propositi sono piuttosto vaghi e non contengono un vero e proprio piano d’azione concreto. L’entusiasmo del 1 gennaio ci fa spendere tutte le nostre energie e il 31 (sempre dello stesso mese) ci ritroviamo senza volontà e determinazione. Insomma, ci sono veramente tanti, troppi motivi che ci rendono incapaci di rispettare la nostra lista.

È qui che mi viene in aiuto il libro The Power of Less di Leo Babuta che ha creato il cosiddetto “metodo delle 6 modifiche”. Secondo questo metodo bisognerebbe concentrarsi solo un cambiamento di abitudine per volta, lesinando così la nostra attenzione. Il libro parla di identificare l’essenziale, collocarvi il nostro obiettivo ed eliminare il resto. Un solo compito importante alla volta, mi piace! Facciamo spazio per l’essenziale e creiamoci la vita che vogliamo. Creiamo le abitudini necessarie per renderla realtà. Vedere i primi risultati non farà altro che rinvigorire le nostre energie e il nostro entusiasmo per la soddisfazione.

Quindi… ho sbagliato tutto. Straccio la lista precedente. Ne rifaccio una nuova.

Lista Buoni propositi 2015:

  1. comprare il libro “The Power of Less”

 può bastare, no?

Mi sa che quest’anno ce la faccio.

Giordana De Anna

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La solitudine del riccio

 

La solitudine è indipendenza: l’avevo desiderata e me l’ero conquistata in tanti anni. Era fredda, questo sì, ma era anche silenziosa, meravigliosamente silenziosa e grande come lo spazio freddo e silente nel quale girano gli astri. Hermann Hesse

Mi succedeva così. Di sentirmi sola in una stanza piena di gente. Di sentirmi sola in un abbraccio. Di sentirmi sola in una serata tra amici. Di sentirmi ancora una volta estranea alla Vita. Mi succedeva così. Di guardare il mondo attraverso un televisore e di sentirlo freddo o distante. E mi sentivo sbagliata. Perché c’è qualcosa di stonato nel sentirsi soli quando, almeno in apparenza, non lo si è. Come se, durante un film drammatico, qualcuno si mettesse a ridere. E c’è qualcosa di terribilmente ironico nella solitudine quando ti trovi a viverla, pensando che siano gli altri a non accettarti, mentre vivi nella speranza di trovare il calore dell’intimità.

In realtà ero come un riccio, lasciavo tutti a una certa distanza di sicurezza, perché se avessi lasciato avvicinare qualcuno sicuramente avrei dato amore. Perché se avessi iniziato a fidarmi di qualcuno, sicuramente avrei finito per star male. La mia solitudine era una scelta forzata di cui non ero consapevole. La mia solitudine era un ritiro rispetto alla Vita, rispetto all’idea che non ero capace di sostenere l’Altro. La mia solitudine era Paura. Paura di sentire. Paura d’amare e di lasciarmi amare. Di trovarmi nell’impossibilità di prevedere se, o meglio quando, sarei stata ferita, delusa o abbandonata. Paura d’essere felice. Paura che la felicità si presentasse con la sua luce dirompente e poi mi lasciasse al buio. Ho sempre pensato che Amare, nel senso più ampio della parola, vuol dire donare chi siamo all’altro. Sapevo come amare ma non volevo amare. Il rischio era troppo. La sfiducia nel mondo che provavo ha creato la mia difesa: la solitudine. Ed era una nemica tanto familiare da essere quasi amica. Ho affamato il mio cuore con esercizi di resistenza, costringendolo ad una guerra fredda. Una guerra che sempre più mi lasciava cicatrici profonde. Una guerra in cui stavo perdendo me stessa.

Ed era buffo, tutto sommato. Drizzavo i miei aculei per tenere il mondo alla lontana, senza capire che erano quelli a farmi così male. E così, a uno a uno, ho tolto tutti gli aculei. Rimanendo un po’ bruttina, un po’ spaurita. Ma guardandomi allo specchio mi sono scoperta viva.

Si può essere isolati e non sentirsi soli e sentirsi soli anche in mezzo a una folla. Ci si può sentire incompleti senza sapere quello di cui si ha bisogno. Ci si può chiudere alla vita e alla felicità che può riservare per paura. Aprirsi alla vita è accettare di non poterla controllare. Aprirsi alla vita è accettare che sia semplicemente assurda. Aprirsi alla vita è accettare di poter essere punti e pungere a propria volta. Aprirsi alla vita è una scelta consapevole e rischiosa ma è il solo modo perché sia davvero Vita, per riempire quel vuoto interiore in cui la solitudine ha affondato le sue radici.

 Giordana De Anna

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La musica che guarisce

La musica aiuta a non sentire dentro il silenzio che c’è fuori. Johann Sebastian Bach

Succede che quando qualcosa ti viene imposto finisci per odiarlo. Succede anche che quando qualcosa ti viene imposto non ti accorgi di amarlo e di quanto questo amore ti faccia sentire bene. È successo questo a Margherita e al suo pianoforte.

Undici mesi fa la vita di Margherita è cambiata. Undici mesi fa a sua sorella è stato diagnosticato un tumore al polmone con metastasi ossee. Margherita si è ritrovata a guardare sua sorella fare cicli di chemioterapia e radioterapia, trasfusioni, tac e risonanze magnetiche di controllo. Margherita si è ritrovata a guardare i suoi genitori disperarsi, pregare e sperare, mentre lei rimaneva in un angolo, quasi invisibile. Margherita undici mesi fa è stata travolta dal buio, un vuoto totale in cui non riusciva a capire più chi era. Undici mesi fa si è ritrovata a camminare sempre in punta di piedi per non disturbare, a non mostrarsi mai triste e, in un certo qual modo, a non provare più niente. Undici mesi fa suonare il pianoforte e la musica erano solo un qualcosa che le toglievano il tempo di stare con gli amici. Ora, il pianoforte, è diventato il suo migliore amico, il suo confidente. Ora, la musica, è diventata la sua voce.

Margherita suona per non ascoltare il silenzio assordante che la circonda. Margherita suona perché suonare le ha insegnato a non pensare. Margherita suona perché lasciare le dita andare su quegli ottantotto tasti le permette di lasciare libero il suo dolore. Lasciare le dita andare su quegli ottantotto tasti permette al gelo che prova, e a cui si costringe, di diventare lentamente primavera. Margherita suonando riesce a dare sfogo alla tormenta che cova dentro di lei senza che questa la frantumi. E in questi undici mesi Margherita ha suonato, suonato, suonato… per raccontare a se stessa quello che le parole non riuscivano a spiegare. Parlava attraverso la musica di Chopin, il “poeta del pianoforte”. Margherita ha trovato nella sua musica uno specchio fedele dell’animo, una confessione intima dedicata a coloro a cui non è necessario dire tutto, ma si può anche solo suggerire. Il suo pezzo preferito era diventato lo Studio Op. 25 No.11. Una composizione emotivamente intensa che le faceva pensare a una bufera, con il turbine di vento che trascina tutto con sé. La rabbia. Il dolore. I sensi di colpa. La confusione. Tutti i suoi sentimenti più nascosti in un unico brano. Lo suonava e si scopriva, una volta eseguito, le guance bagnate dalle lacrime. Quando invece suonava il suo Notturno op. 48 No.1 le sembrava di raccontare di lei, di quello che era diventata: una persona introversa e piena di paure che ha voglia di scoppiare e dire tutto ciò che pensa, vomitando la rabbia e la tristezza che si è ritrovata nel cuore. Intimo e grandioso al tempo stesso, un notturno unico. Un ampio respiro iniziale che porta a un crescendo di angoscia, passione e tormento interiore fino a svanire, consumato, proprio come lei. Suonare il Preludio Op.28 No. 4, malinconico e dolce al tempo stesso, la lasciava vagare, la faceva entrare in un mondo magico per trovare un attimo di sollievo. La solitudine. La delicatezza. L’anima melanconica.

Margherita in questi ultimi undici mesi ha trovato nel pianoforte e nella musica il suo modo di sopravvivere, perché anche se non era lei quella malata e a rischio di vita, una parte di lei è morta undici mesi fa. Margherita in questi ultimi undici mesi ha trovato nel pianoforte e nella musica uno strumento per esprimersi e trasmettere tutto quello che aveva dentro, sotto l’involucro di ghiaccio che si era costruita. Lasciare che tutti i suoi sentimenti avessero luogo, nella possibilità di non venirne travolta ma di poterli controllare nelle sue dita pur vivendoli l’ha aiutata a sopportare il peso di tutti quei sentimenti per poter continuare a vivere, trasformando il suo dolore in musica, raccontando il suo dolore attraverso le note.

L’uso della musica come terapia è vecchio quanto la musica stessa. La musica, ascoltata o messa in atto, o più in generale il suono può essere veicolo di autoterapia o essere usato come terapia da parte di uno specialista. La musica è uno strumento per esprimere le proprie emozioni, i propri sentimenti e i propri pensieri. La musica produce effetti sul nostro corpo, coinvolge la mente e origina un’esperienza emozionale. L’ascolto o la messa in atto di un brano non è mai identico a se stesso, ma è un continuo divenire e rispecchiarsi nel proprio sentire, è la manifestazione della complessità della persona stessa. La musica ha la chiave per aprire le nostre porte più intime quando le nostre emozioni ricercano la strada per emergere. Usando le parole di Tolstoj

“La musica è la stenografia dell’emozione. Emozioni che si lasciano descrivere a parole con tante difficoltà e invece sono direttamente trasmesse nella musica ed in questo sta il suo potere e il suo significato”.

Questo articolo è anche una mia dichiarazione d’amore. Amore per la musica, per il pianoforte, per Chopin. Amore per la scrittura. Amore per le ali che riusciamo a costruirci sulle nostre debolezze. Non so spiegare come mi sento quando suono, scrivo o ho a che fare con tutto ciò che riguarda la psiche. Posso solo dire che è quel genere d’amore che ti fa sentire perfettamente imperfetta e di cui non ne hai mai abbastanza. Un articolo pieno d’amore per suggerire di ricercare quell’Amore, quella Passione che fa stare bene, nonostante la vita, nonostante tutto. Perché, anche se a volte manco di senso pratico, non manco mai di cuore.

 Giordana De Anna

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Il nostro piccolo segreto

 

2014 – New York – ore 02.45

“Preferirei se ora tornassi a casa tua… non mi piace dormire in compagnia.” Si gira su un fianco per non far vedere il volto rigato di lacrime, si copre il corpo ancora nudo e chiude gli occhi. Vittoria se ne sta così, nel buio della stanza, trattenendo quasi il respiro, mentre ascolta paziente i movimenti dell’uomo che si riveste. Lo ascolta andare in bagno. Lo ascolta mettersi le scarpe. Lo ascolta mentre beve un sorso d’acqua dalla bottiglia lasciata sul comodino accanto al letto. Lo ascolta anche mentre le dà un bacio delicato sulla guancia sussurrandole un saluto. Lo ascolta chiudersi la porta alle spalle. Non resiste un solo minuto in più su quel letto, Vittoria. Rimasta finalmente sola va in bagno e lascia scorrere l’acqua della doccia, aspettando che il vapore inondi la stanza. Si ferma per un momento, lì, appoggiata sullo stipite della porta, tra la camera da letto e il bagno, ancora nuda, con lo sguardo perso. Il pensiero torna a Lui, come ogni volta. La camera ancora calda, umida, odora ancora dei loro corpi mischiati. Il suono di una sirena giù in strada la distoglie dai suoi pensieri. Si passa veloce una mano tra i suoi corti capelli corvini e, svelta, inizia a togliere le lenzuola. Quando il letto rimane spoglio, finalmente, si lascia andare in una lunga, depurante, doccia bollente.

Era sempre stato così, per Vittoria.

Sarebbe sempre stato così, per lei.

Anche dall’altra parte del mondo.

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