60 anni fa L’Avventura di Michelangelo Antonioni

Nel 1960 vedono la luce tre capolavori cinematografici, punti di riferimento del cinema della modernità, La dolce vita di Fellini, Rocco e i suoi fratelli di Visconti e L’avventura di Antonioni: opere diverse e sintomatiche perché da diversi punti di vista offrono un ritratto della crisi, crisi dei singoli e della società italiana, i personaggi sono infatti espressioni emergenti di un disagio dovuto allo sfaldamento dei rapporti individuali e a un contrasto con l’ambiente e con la storia. Se Visconti è fiducioso nel racconto legato alla grande tradizione tragico-melodrammatica, Fellini e Antonioni avvertono invece l’insufficienza del cinema di cui sono eredi a rappresentare il nuovo e sentono la necessità di aggiornare gli strumenti espressivi. Antonioni, convinto che un cinema della crisi dovesse ancor prima mettere in crisi il cinema, è il più radicale: si pensi a quattro aspetti tecnici peculiari della pellicola, ovvero la sospensione contemplativa, lo straniamento, le inquadrature soggettive senza soggetto, gli attori come «corpi stanchi» ‒ secondo la definizione di Deleuze – e appositi errori di grammatica filmica. Travagliato (mesi di interruzione, estenuante lavoro di realizzazione e di montaggio, ritiro del produttore, mancanza di fondi) e presentato al Festival di Cannes con un’accoglienza contrastata, L’avventura, primo film della trilogia dell’incomunicabilità comprendente La notte e L’eclisse, indaga, con frequenti panoramiche e la macchina da presa esterna all’azione, il vuoto, la corrosione degli affetti, la contingenza e la provvisorietà delle relazioni. Opera aperta, che lascia fluttuare gli eventi nelle smagliature del montaggio ora accumulandoli ora dilatandoli con una tipica tecnica barocca – riflesso dell’architettura della cittadina di Noto, capitale del Barocco siciliano dove il film è in parte girato – L’avventura è un film alla Cézanne dove, così come nella tela La montagna Sainte-Victoire, gli sguardi e i punti di fuga si moltiplicano, gli occhi diventano tanti, l’unicità del soggetto lascia il posto a una serie indefinita di possibilità, lo sguardo autoriale si dissolve (e questo spiega l’uso non ortodosso del campo/controcampo, le prospettive distorte, i falsi raccordi), le linee del racconto si scardinano portando a cogliere l’eco dei fatti, la composizione non è unitaria ma frammentata, riflesso della crisi d’identità della cultura novecentesca. E si pensi a tal proposito alle scene d’amore tra Claudia e Sandro – interpretati da Monica Vitti e Gabriele Ferzetti, attori modellati come corpi plastici ‒ montate per immagini alternate a mo’ di quadro cubista, come la fragilità dei sentimenti. 

L’erotismo è un possibile fil rouge della pellicola, precario e provvisorio come i luoghi cui è associato (un interno geometrizzato alla Mondrian, un prato, un divano d’albergo), altro leitmotiv il paesaggio, violento, sacro, dionisiaco, magmatico, figura della scomparsa di Anna – si pensi al vento fortissimo che scompagina il montaggio del film evocando l’esistenza di una forza superiore invisibile, o ai resti preistorici di Panarea, esaminati da Corrado come se fossero correlati alla mancanza di Anna, o ancora nel prologo al dialogo tra Anna e il padre sull’avanzare della città che prefigura la perdita della giovane donna così come quella del paesaggio. Paesaggio protagonista della bellissima inquadratura finale: da un lato l’Etna bianco innevato e dall’altro un muro. Un paesaggio che ha la potenza arcaica del simbolo che unisce gli opposti in una coesistenza non superata ma consapevole: il rapporto irrisolto uomo-donna, metafora della differenza uomo-mondo è riflesso nell’orizzonte aperto e chiuso, l’io e l’altro sono una persona solo rimanendo diversi e mediante uno slancio, di cui è portatrice Claudia collocata nella metà dell’Etna e che con esitazione, dopo la scoperta del tradimento, appoggia una mano sulla spalla di Sandro, seduto su una panchina, sullo sfondo il muro. Affido la spiegazione alle parole di Antonioni: «i personaggi si salvano quando tra loro può stabilirsi un legame fondato sulla pietà reciproca e la rassegnazione che non è debolezza ma la sola forza che permette loro di restare assieme e opporsi alla catastrofe». 

 

Rossella Farnese

 

[Immagine tratta da Google Immagini]

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Incomunicabilità e precarietà dei sentimenti: l’esistenza in La Notte di Antonioni

Some of these days / You’ll miss your honey / Some of these days/ You’ll feel so lonely… una voce femminile calda e avvolgente risuona in un bistrot di Bouville. Le note di questa canzone, che verrà reinterpretata nel corso del tempo da voci leggendarie del jazz, da Louis Armstrong a Ella Fitzgerald, sono l’unico specchio su cui si riflette Antoine Rouquetine, il protagonista del romanzo sartriano La Nausea. Solo lasciandosi trasportare da questa melodia il sentimento di nausea che lo attanaglia sembra lasciarlo libero, anche se solo momentaneamente: la musica riesce a condurlo per un attimo dalla contingenza dell’esistente alla necessità dell’essere.

Anelito all’essere, davanti a un’esistenza che si mostra nella sua frammentarietà e nel suo carattere assurdo, irrazionale. È proprio questo ciò che accomuna Rouquetine ai personaggi dei film di Antonioni, da La Notte a L’Eclisse, passando attraverso L’avventura.

È facile che la noia quotidiana di una vita costruita con impegno ti trascini in un vortice dove le domande non trovano più posto e dove tutto viene travolto da una meccanicità disumanizzante. Qui le relazioni umane diventano precarie e tu resti lì e vedi scorrere la tua vita dall’esterno, come una cassa di risonanza per un ego ormai troppo ingombrante.

È proprio attraverso il concetto di noia che passano le interpretazioni cinematografiche e letterarie di autori che nel secondo dopoguerra si sono scontrati con un “malessere interiore”, di cui hanno cercato di indagare l’origine, dandone ciascuno una personalissima chiave di lettura.

Un male che si origina da una struttura socio-economica, quella borghese neocapitalista, che sul trionfo di un progresso solo apparente ha costruito i propri idoli e, inevitabilmente, i propri fantasmi.

«Quante cose si finiscono per sapere se si resta un po’ soli. E quante cose restano da fare… Mi viene il sospetto di essere rimasto un po’ ai margini di un’impresa che invece mi riguardava. Non ho avuto la forza di andare in fondo». La Notte di Antonioni si apre con le parole di Tommaso, l’amico di famiglia, sul letto di un ospedale prima di morire. È proprio quella consapevolezza a scatenare in Lidia, donna colta dell’alta borghesia milanese, una profonda crisi interiore. Quest’ultima infatti, percepisce la precarietà di una relazione sentimentale ormai finita, che la lega solo apparentemente al marito.

È proprio la fredda indifferenza di Giovanni Pontano, marito di Lidia, scrittore e intellettuale pienamente integrato nel sistema, a incarnare la precarietà del sentimento. Giovanni barcolla sulla superficie della vita, senza viverla mai fino in fondo e, in questo suo incedere incerto e silenzioso, guarda con occhi spenti e stanchi la donna con cui ha trascorso buona parte della propria vita.

I personaggi dei film di Antonioni sembrano vivere un sonno senza fine; inerti rimangono sospesi in una compostezza che non ha più nulla di umano. Simile a fantocci, agiscono, ma sembrano non percepire il peso delle azioni e del proprio essere, come se a muoverli fosse un burattinaio che magistralmente tiene le fila di quelle vite, alle loro spalle. Il vagare di Lidia è l’emblema dell’angoscia esistenziale: assalita da un senso di inquietudine, la donna si allontana dalla libreria dove il marito sta presentando il suo ultimo libro, ritrovandosi a vagare in una Milano distrutta e desolata. In queste scene, il regista lascia spazio a un’acuta analisi psicologica e introspettiva della donna, ormai consapevole della propria infelicità di fronte a una relazione senza senso.

Uomini e donne separati dalla noia, in una solitudine esasperata da una vita che sembra non appartenere ad essi veramente. Questi i ritratti costruiti da Antonioni. Qui, i sentimenti rivelano la fragilità umana, ciò che marca il labile confine tra essere ed esistere. Lidia, così come Vittoria, giovane protagonista di L’Eclisse, sperimentano quel senso di estraneità rispetto al compagno di una vita ed è proprio da questo nulla tormentato che cercano di fuggire, trovando però solo angoscia e solitudine. “Ci sono dei giorni in cui avere in mano una stoffa, un ago, un libro, un uomo è la stessa cosa” – con queste parole Vittoria confida all’amica tutta la sua disperazione.

Sembra che così come Rouquetine, anche i personaggi immortalati da Antonioni desiderino “essere”, ma si scontrano con un esistere che non possono che accettare e vivere passivamente.

Un’angoscia che rivela tutta la reversibilità delle emozioni e dei legami, ratio anche del film L’Avventura, come lo stesso regista dichiara nel 1976 durante un’intervista al Corriere della Sera: “il dolore dei sentimenti che finiscono o dei quali si intravede la fine nel momento in cui nascono”.

Non resta allora che continuare a far suonare la propria melodia, seguire quel ritornello capace anche solo per un attimo di condurci al di là del silenzio assordante di un’esistenza per sua natura incomprensibile alla razionalità umana.

 

Greta Esposito

 

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