Il pensiero di destra e di sinistra oggi

«Sia che si rivolga al cielo per trovare valori assoluti capaci di sconfiggere il mondo laico e liberale, sia che invochi un capo in grado in grado di far vivere le ebbrezze della acclamazione priva di regole certe, la nuova destra sembra ancora troppo sensibile ai richiami di antichi miti e attratta dai sentieri già da tempo interrotti».

Così Michele Prospero chiudeva il suo saggio intitolato Il pensiero politico della destra (1996). In queste parole risuona una tendenza speculativa tipicamente moderna (e modernista) secondo la quale vi sarebbero dei movimenti del pensiero che sono stati sconfitti dalla Storia e dai Fatti. Aiutati dal cosiddetto politicamente corretto, il Tempo e gli Eventi avrebbero sancito la disfatta – per esempio – del pensiero reazionario e conservatore di destra, ma anche di quello rivoluzionario di sinistra. La tipicità di questa tendenza – che ha attratto a sé anche il pensiero comune – è quella di additare come ormai impensabile l’opposizione a ciò che il movimento storico ha imposto come egemone. Si pensi a come il senso comune voglia il marxismo per sempre battuto dal capitalismo di matrice tecnocratica instauratosi come ordine mondiale.

La status quo non ha alternative, se non quella sciocca e impossibile di riavvolgere le lancette del tempo e di ritornare a ciò che era: questa la prospettiva dello pseudopensiero modernista. Sia il pensiero di destra che quello di sinistra che abbiano la velleità di porre in discussione le conquiste del mondo contemporaneo vengono infatti sistematicamente respinti e bollati come reietti. Gli obiettivi raggiunti dal liberalismo e dalla democrazia generalizzata sono quindi dei dati, immuni da qualsiasi toglimento. L’autoproclamatosi pensiero liberale (e liberista) cavalca quello che è divenuto un destino: la società odierna. Come si evince dalle parole di Prospero, l’antichità del mito e l’esser-sorpassato di alcuni indirizzi di pensiero già bastano ad emarginarli dalla verità. La metamorfosi è compiuta: ciò che la Storia decreta come vincitore si qualifica come il Fato. Questa dinamica è più che mai evidente oggi, in un mondo in cui tutto il pianeta abbraccia il modus agendi occidentale.

La disamina del pensiero dominante ci porta ad elencarne alcuni capisaldi. In primis, indichiamo come punto focale del modernismo una certa tipologia di fatalismo materialista: “i meccanismi del sistema non sono modificabili, possono senz’altro essere riformati, ma non certo rivoluzionati” recita il credo liberal. Un messaggio minimalista che anche tutti i partiti tradizionalmente avversi al capitalismo, alla democrazia parlamentare e alla modernità hanno – forse inconsapevolmente – adottato. All’indirizzo sempre più riformista degli schieramenti politici rivoluzionari ha contribuito anche l’uso, ineluttabile, di strumenti intrinsecamente legati al liberalismo capitalistico (uno su tutti, la pubblicità).

A ciò si accompagna la tendenza a guardare con sospetto ogni tipo di personalismo o di decisionismo politico, preferendo le lungaggini burocratiche e gli infiniti pronunciamenti di partiti, enti e organizzazioni senza identità.

Altro elemento fondamentale del dominio culturale odierno riguarda la ‘conquista’ della laicità: una civiltà che si è liberata di Dio è considerata più evoluta e più libera rispetto alle retrograde aree del pianeta che ancora conservano, dal punto di vista confessionale, radicamento e tradizione. A ciò si aggiunge una singolare concezione del tempo: il futuro non può che rappresentare una liberazione rispetto al passato oscurantista e illiberale, e garantirà alla dignità umana maggiori – se non totali – garanzie. Tutto questo però a patto che lo sviluppo rispetti e aderisca al dogma dell’uguaglianza assoluta, in una sorta di superdemocrazia.

Tutto ciò si traduce nella più concreta impossibilità di pensare un’alternativa: mezzi e fini offerti dal capitalismo e dalla democrazia parlamentare sono gli unici ammessi. È possibile vivere e comportarsi solo rispettando le regole del gioco, che paiono calate da un’altezza non più raggiungibile dallo sguardo. Il mezzo televisivo, ad esempio, con i suoi tempi dettati dalla pubblicità e dal linguaggio-slogan, non può che far aderire qualsiasi messaggio alla causa neoliberale.

Risuona con tono di profezia, anche se completamente trasfigurata rispetto al suo senso originario, la settima proposizione del Tractatus di Wittgenstein: «su ciò, di cui non si parlare, si deve tacere». Un silenzio che fa ricadere nell’ombra la possibilità di una fuoriuscita dalla situazione attuale.

Forse il ‘salto’ e il ‘passo indietro’, di cui Heidegger parla in quelle due sue conferenze raccolte in Identità e differenza, possono costituire un’indicazione sull’atteggiamento per un possibile superamento dello stato di cose attuale, stagnante sia per le ‘destre’ che per le ‘sinistre’ di tutto il mondo.

Roberto Silvestrin

[Illustrazione in copertina realizzata da Wren McDonald, www.newyorker.com]

ITALIA; 69-80

I numeri 69-80 indicano capitolo e versetto di una parabola contenuta in quel vangelo di piombo custodito nei turbolenti anfratti della nostra italianità.

E’ un vangelo laico scritto da mani profane, racconta di persone mute con occhi che hanno visto troppo, orecchie che hanno udito troppo poco… e la parabola racconta di un treno che giunge nei posti più impensabili: parte da Piazza Fontana a Milano e arriva puntuale a Bologna.

Non ha capolinea, non torna mai indietro.
Attraversa la Storia in date precise e cadenzate.

Nel nostro Paese i treni hanno un nome, il treno di questa parabola si chiama Italicus e ferma a Brescia, ferma a Gioia Tauro, alla Questura di Milano, il campo base è a San Benedetto Val di Sambro.

Ai lati della strada ferrata vi sono eversioni armate, rosse e nere, c’è lo stragismo, si sussurrano complotti segreti e deviati, compaiono eminenze grigie negli affari di Stato.

Poi c’è la massa, c’è sempre la massa nelle parabole e questa è nazional-popolare, con le sue tensioni sociali e intestine che gridano frantumando il silenzio sovrano.

Gridano di dolore a Piazza della Loggia così come a Bologna, gridano di rabbia contro la polizia, contro i tanti Luigi Calabresi nei processi irregolari presieduti da giudici senza toga.

Vi sono anche grida di protesta contro l’ingombrante Vietnam e il fresco ricordo di una Primavera a Praga.

La massa si spacca quasi a metà, si alzano barricate, si occupano atenei.
Strade come trincee e tanti manganelli.

In trentacinque anni sono sicuramente cambiate molte cose, ma mi domando quale insegnamento abbia portato quella violenza che muoveva i fili di ideologie ponderatamente spicce ritagliate in slogan, in P38, vestite di eskimo o in giacche di pelle nera.

Occhiali scuri, visi sempre più pallidi e concentrati attorno alla Renault 4 rossa di via Caetani.

C’è Giuseppe Memeo con il suo passamontagna, chino e con le braccia protese in avanti e prende la mira, è la foto che racchiude dieci anni d’Italia.

Sono gli anni delle bombe figlie di guerre mai dichiarate.

E si combatteva anche con i libri, con i fantasmi del passato, si giocava con la strategia della tensione, un risiko dal sapore fin troppo reale dei due blocchi mondiali.

La nostra generazione vive diversamente, imbottigliata nei social network; per gridare dimentica il “caps lock” inserito, e come ideologia non porta nulla di concreto se non ripetizioni di concetti triti e ritriti minacciando tritolo oppure atti di eroismo degne delle migliori chiacchierate da bar.

Fortunatamente non affiorano più, nelle strade, nelle piazze e negli incubi, gli ordigni creati dall’occhialuto uomo sveviano, ma sono spariti i libri, le riunioni, i confronti, è sparito il sale dell’educazione.

Sparisce quella briciola di buono che la parabola ha insegnato a chi è stato capace di coglierla.
Pace ai morti, pietà per i vivi.

Cadono le ideologie della nostra società e ci si arrocca nell’immobilismo cocciuto che non vuol sentir ragione perché ne vuole avere troppa.

Si professa l’anticambiamento, si teme di un domani anche troppo tumultuoso.

Ci si lega sempre più al singolo uomo, al leader di turno, paralizzando quel pensiero che dovrebbe camminare sulle gambe di altri uomini.
Si raccolgono le misere disinformazioni e ci si lascia cullare dalla più completa ignoranza ingiustificabile del XXI secolo.

Tanti pulpiti e tanti profeti di un pubblico annoiato che si guarda allo specchio.

Fanno le prove misurando i decibel di voce.

Vincerà chi spara più in alto il proprio balenante turpiloquio, meglio se dietro lo schermo o dietro alla tastiera.

Vige la regola del sentito dire, e i pochi pensieri indipendenti se ne vanno errando lungo lo Stivale domandandosi se l’errore è stato dare ascolto al piombo, oppure al nulla degli odierni.

L’eterno dilemma dell’unità di misura basata sul meno peggio.

Il 2 Agosto scorso era il giorno dei ricordi.

Era l’anniversario di troppe cose lasciate senza un nome.

Ore 10 e 25.

Nel mare di persone rimane solo un silenzio in cui non grida più nessuno.

Alessandro Basso

[Immagine tratta da “Linkiesta.it”]