Il linguaggio delle lacrime

Cresciamo e maturiamo con un’educazione fondata sull’essenzialità del linguaggio.

Il significato che ciascuna parola porta con sé costituisce una guida per esprimere ciò che ciascuno di noi sente. Le parole, quindi, possono riuscire a rappresentarci, a descriverci, a definire un particolare stato d’animo oppure un sentimento.

Tuttavia, nel corso di questi ultimi anni, una domanda mi è sorta spontanea, dovendo fare i conti con l’espressione di quella che era la mia sofferenza: in che modo il linguaggio riesce a decifrare ciò che viviamo, seppelliamo e ci portiamo dentro, quando tratteniamo i ricordi in una cassaforte di cui abbiamo perso il codice? Come dare parola all’impronunciabile? Perché le parole non sono sufficienti?

L’uso di un codice linguistico preciso e di riferimento talvolta non permette di far emergere ciò che è rimasto sepolto tra le pieghe dell’anima. Questo perché, per riuscire a nominare e a definire ciò che sentiamo, è necessario affrontare ciò che si è vissuto e trascurato, sollevando quel velo che rassicura ma che al tempo stesso nasconde frammenti di un passato, non permettendoci di vedere e di ricordare chi siamo stati e che cosa, all’improvviso, è andato in frantumi.

Le lacrime, come le definisce Eugenio Borgna1, sono un’esperienza interiore e testimoniano la presenza di una vita interiore, e di una vita cicatrice, che non si spegneranno mai. Esse, tuttavia, sono dei segni, non delle espressioni; dei segni indicanti «delle esperienze psicologiche e umane radicate in orizzonti dialogici di senso», come le definisce bene lo stesso autore.

In Frammenti di un discorso amoroso, Roland Barthes parlando delle lacrime scrive che «piangendo si vuole impressionare qualcuno, fare pressione su di lui». Questo qualcuno, però, non è riferito unicamente a un possibile altro, quanto più a un Io autoreferenziale il quale, piangendo, dimostra a se stesso che il proprio dolore non è illusione, ma concreto, visibile.

A tale proposito, lo stesso Barthes si chiede: «Cosa sono mai le parole? Una lacrima sola dice assai di più».

Quando la parola si blocca, allora il corpo cerca di esprimersi altrimenti.

Le lacrime diventano così uno dei mezzi espressivi di un’emozione che deve essere detta in un linguaggio altro. Un linguaggio che è impastato di nostalgia e di assenza, di dolore e tristezza, ma anche di gioia e di luce.

La lacrima è dono, un dono che ci viene offerto. Molto belle sono le parole utilizzate da Jean Loup Cahrvet, e riprese da Borgna, a tale riguardo:

«Le lacrime si offrono al nostro viso, come al nostro intelletto o al nostro cuore, la loro evidenza ne rende inutile la definizione, dalla quale le protegge la loro inintelligibilità. La loro chiara trasparenza evita loro una descrizione. […] Esse parlano verso un altrove che è già oltre la loro esistenza»2.

Quell’indicibile che ci abita ha bisogno del corpo per non soffocare. Il silenzio, talvolta, inaridisce, facendo morire la vita interiore.

La lacrima, toccando nel profondo, sfiora, sussurra il non-detto. Essa rappresenta un segno di vita, di un qualcosa che vuole, in un modo o nell’altro, essere detto, pronunciato, sfiorato. Anche solo toccando la superficie di quello che poi è un malessere profondo e devastante.

Le lacrime, scrive lo psichiatra Eugenio Borgia, così come il sorriso, sono forme di vita, ovvero forme di espressione emozionale che costruiscono ponti capaci di annullare le distanze tra gli atteggiamenti normali e quelli psicopatologici. Questi “ponti” ci aiuterebbero così a ritrovare «isole di straziata normalità nella sofferenza psichica, e schegge di sofferenza psichica nella normalità»3.

Il pianto aiuterebbe così ad incanalare un’energia repressa e messa al bando dalla coscienza, attraverso una forma espressiva che, in fin dei conti, ci accomuna, costituendo una sorta  di nuovo linguaggio capace di nominare la sofferenza interiore di ciascuno.

 Sara Roggi

NOTE:
1. Borgna E., La dignità ferita, p. 194-95, Feltrinelli Editore, Milano, 2013.
2. Ibidem, p. 197.
3. Ibidem, p. 206.

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C’era una volta l’Amore

Ogni donna ha un segreto, ha un amore sciupato che affiora e divora il suo cuore malato. E’ sincero il segreto, è quella musica dolce che in passato l’ha fatta sognare e adesso non serve ad un bel niente. E se c’era una volta l’amore, ho dovuto ammazzarlo. Cesare Cremonini

Ogni donna, ogni uomo, ogni persona, vive l’amore ogni giorno. Non importa che sia San Valentino, Natale o il proprio compleanno. Tante cose – forse a volte troppe – nella vita, parlano d’amore.

Camminava a passo sostenuto, camminava senza contare i suoi respiri, camminava pensando a troppe cose, o – per meglio dire – cercando di non pensare a qualcosa in particolare. A qualcosa non era proprio la specificazione esatta, perché era qualcuno che cercava di non pensare, quel qualcuno che l’aveva ferita.
Era passato ormai qualche mese, e lei camminava per le strade di una grande città nel giorno di San Valentino. Aveva sempre detto “E’ un giorno come un altro”: in quei tre anni passati con lui non c’era stato bisogno di nessun giorno speciale, perché lo erano tutti. Era speciale guardarsi, trovarsi a dire le stesse cose inaspettatamente, pensare all’unisono, decidere insieme senza concordarlo. E poi c’erano quei giorni passati interamente a fare l’amore, quei giorni in cui avevano trovato il primo treno utile per partire verso una meta decisa all’ultimo. Quei giorni in cui avevano litigato fino a diventare assuefatti dall’odio. Quei giorni in cui un ultimo bacio pensavano che non ci sarebbe mai stato. Quei giorni in cui si ritrovavano a ridere, ridere e ancora ridere insieme. Quelle sere in cui avevano bevuto talmente tanto da non ricordarsi nemmeno dove avevano lasciato le paure. Quei giorni in cui non c’era stato bisogno di parlare, perché c’erano state soltanto lacrime. Lacrime che prontamente erano state spazzate via dai chiarimenti, dal volerci credere ancora, dal volersi vivere ancora. Perché lei aveva sempre creduto in quell’ancora. Aveva sempre creduto che avrebbero potuto affrontare qualsiasi battaglia, e anche qualunque guerra.
Eppure, da qualche mese, non avevano vinto. Avevano perso tutto. Si erano persi loro. Non sarebbe stata in grado di dire se ci fosse stato un giorno esatto in cui avevano smesso di capirsi e brillare insieme. Non se n’era accorta, non aveva fatto caso al loro spegnersi lento. Pur amandolo, non si era accorta di non essere più amata. Non si era data il tempo di capire se la vita da sola potesse fare per lei, non si era data attenuanti al dolore, non si era concessa respiri che fossero dedicati soltanto a se stessa.

E dopo quei mesi, passati a cercare il modo di ricostruirsi, pezzo dopo pezzo, si ritrovava a camminare per le strade di una delle loro tante città, il giorno di San Valentino. Le sembrava tutto amplificato ora; non aveva mai fatto caso a quanti palloncini rossi e rosa tappezzassero le strade. Non aveva mai fatto caso a quanti baci vengano dati il giorno di San Valentino, non aveva mai guardato gli occhi delle persone. Gli occhi che ora sembravano brillare.

Si accorse che anche i suoi brillavano, luccicavano, si riempivano di lacrime. Due lacrime rigavano le sue guance. Due lacrime colme di rimmel, sporche di dolore, malate d’amore. Si fermò per un attimo. Fermò la sua corsa contro il dolore, fermò i suoi passi veloci. Si fermò, fermò il suo cuore distrutto. E, per la prima volta da quando si erano lasciati, pianse. Pianse a dirotto. Pianse in mezzo ad una strada di una grande città. Pianse senza avere più lacrime. Pianse senza saper più contare i respiri. Pianse. Pianse. E ancora pianse.
Pensò a quel giorno in cui lui l’aveva lasciata, quel giorno in cui lei gli aveva detto soltanto che non era poi un grande problema, perché sarebbe riuscita benissimo a cavarsela da sola. Quel giorno che aveva fermato lacrime, vita e dolore. Quel giorno che aveva voluto evitare tutto questo. Quel giorno in cui le sue labbra si erano limitate a chiudersi in un sorriso di convenienza. Quel giorno in cui sapeva che non l’avrebbe mai più rivisto.

Quel giorno che – ormai – era così lontano. Quel giorno in cui le lacrime non erano uscite perché avevano aspettato il momento giusto. Il momento in cui l’amore si era trasformato in dolore. Il momento in cui aveva lasciato che il dolore la prendesse del tutto. Il momento in cui tutto il male era pronto a diventare bene. 

Quel San Valentino a cui non aveva mai pensato, era diventato il primo giorno in cui le era rinato il coraggio di amarsi. Amarsi e A(r)marsi. Smettere di sopravvivere e ricominciare a vivere. Quando il dolore lascia il posto alla vita, quello era stato il suo momento. Capendo che amare se stessa sarebbe sempre stato qualcosa su cui contare, capendo che l’amor proprio genera anche quello che ti regalano gli altri.

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Se c’era una volta l’amore – nel mondo di oggi – ogni persona almeno in un’occasione, ha cercato di ammazzarlo. Gli ha dato calci, pugni e schiaffi finché non l’ha rincontrato.
L’unico amore che rimane sempre, è quello per ciò che ci fa sentire vivi. Noi stessi. Noi con le nostre passioni e i nostri sogni da realizzare. Noi con i nostri difetti e i nostri momenti no. Noi con le nostre paure e troppi dubbi. Noi col nostro impegno e la nostra determinazione. Noi che prima di guardare indietro, dobbiamo guardare avanti. Noi che prima di guardarci dentro, dobbiamo guardare quello che vogliamo raggiungere. Noi che prima di dire “E’ impossibile”, dobbiamo essere in grado di provare cosa significhi.

Esattamente undici anni fa, circa a quest’ora, ho avuto un incidente in cui ho rischiato la vita. Non so per quale strano caso, da quel giorno credo all’impossibile. Credo alla vita un minuto alla volta. Credo perfino all’amore, nonostante io abbia dovuto ammazzarlo più di qualche volta.

Amare se stessi è l’inizio di una storia d’amore che dura una vita. Oscar Wilde

Cecilia Coletta

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