Spunti estetici de “La nascita della tragedia” di Nietzsche

La nascita della tragedia è un’opera densissima, seppur relativamente corta. Pubblicato nel 1872, «Nessun altro libro di Nietzsche ha alle spalle una preparazione così lunga e faticosa. Per dieci anni, il giovane studioso vive tra i suoi libri, e dalle sue parole non si annuncia nessuna minaccia per la scienza. […] poi viene questo libro, dove tutto è contraddetto, dove nessuno allora riconobbe l’autore»1.

Fin dalle prime righe è chiaro l’intento di Nietzsche, che guiderà il lettore per tutto lo svolgimento dell’opera:

«Avremo acquistato molto per la scienza estetica, quando saremo giunti non soltanto alla comprensione logica, ma anche alla sicurezza immediata dell’intuizione che lo sviluppo dell’arte è legato alla duplicità dell’apollineo e del dionisiaco […]»2.

Il primo principio è immediatamente avvicinato al sogno, accostato al dio Apollo che, «come dio di tutte le capacità figurative, è insieme il dio divinante» e plastico, caratterizzato da «calma piena di saggezza»3. Ma, proprio in forza della realtà sognata, è anche il dio dell’illusione, dell’apparenza. Il dionisiaco, invece, è accostato analogicamente all’ebbrezza, che sorge sull’orrore della perdita di fiducia nella ragione (come forma di conoscenza apparente) e quindi sulla violazione del principium individuationis:

«O per l’influsso delle bevande narcotiche, cantate da tutti gli uomini e dai popoli primitivi, o per il poderoso avvicinamento della primavera, che penetra gioiosamente tutta la natura, si destano quegli impulsi dionisiaci, nella cui esaltazione l’elemento soggettivo svanisce in un completo oblio di sé»4.

Gli uomini, nei confronti di questi due principi naturali, non sono che imitatori e, su questa scorta, Nietzsche analizza la tragedia greca, espressione di quell’artista insieme e del sogno e dell’ebbrezza. Egli si perde «nell’ebbrezza mistica e nell’alienazione mistica» e il suo stato – ovvero «la sua unità con l’intima essenza del mondo» – «attraverso l’influsso apollineo del sogno, […] si rivela in un’immagine di sogno simbolica»5.

La trattazione affronta molte tematiche fondamentali: il dolore, la determinatezza, la società, la contemporaneità (di Nietzsche ma per certi versi anche quella attuale), la teoria e la praxis e molte altre. Molto interessanti sono i riferimenti a Socrate – già anticipati in parte da Nietzsche in Socrate e la tragedia6 – colpevole di aver influenzato Euripide e portato così a compimento la fase della decadenza della tragedia stessa. Socrate, infatti, identificando sapienza e virtù con la conoscenza, avrebbe spinto all’annullamento dello stesso elemento tragico e a un totale squilibrio:

«[…] scorgiamo la brama di conoscenza insaziabile e ottimistica, che appariva in Socrate esemplare, convertita ora in rassegnazione tragica e in bisogno d’arte; mentre invero la stessa brama, nei suoi gradi inferiori, doveva manifestarsi in modo ostile all’arte e principalmente aborrire nell’intimo l’arte dionisiaco-tragica»7.

A questo proposito, di importanza fondamentale, come ricorda Chiara Piazzesi, è il fatto che «La trasformazione degli equilibri estetici non si ha, dunque, soltanto nell’economia interna dell’opera tragica, ma anche in quella creatività artistica che la genera, dunque nel rapporto tra artista e opera d’arte»8.

Nell’edizione Adelphi, prima del testo stesso, troviamo un Tentativo di autocritica, scritto da Nietzsche anni dopo la pubblicazione de La nascita della tragedia. Il pensatore tedesco si scaglia con forza contro il giovane se stesso e la sua opera: «oggi per me è un libro impossibile, – voglio dire scritto male, pesante, tormentoso, […] molto convinto e perciò dispensato dal dimostrare, diffidente verso la stessa convenienza del dimostrare»9. Eppure, riconosce che «Qualunque cosa possa esserci stata alla base di questo [suo] problematico libro, deve essere stata una questione di prim’ordine, piena di fascino, e inoltre una questione profondamente personale»10; per concludere che «il più grande interrogativo dionisiaco, come [nel libro] è posto, continua sempre a sussistere anche riguardo alla musica: come dovrebbe essere fatta una musica che non fosse più di origine romantica […] bensì dionisiaca?»11.

D’altronde, è proprio Giorgio Colli nella Nota introduttiva a mostrarci il quesito fondamentale di quest’opera:

«E se la via dello spettacolo fosse la via della conoscenza, della liberazione, della vita insomma?»12

 

Massimiliano Mattiuzzo

 

NOTE
1. G. Colli, Nota introduttiva, in F. Nietzsche, La nascita della tragedia, Milano, Adelphi, 1972 e 1977, p. XI.

2. F. Nietzsche, op. cit., p. 21.
3. Cfr. ivi, pp. 23-24.
4. Ivi pp. 24-25.
5. Cfr. ivi p. 27.
6. F. Nietzsche, La filosofia nell’epoca tragica dei greci e scritti 1870-1873, Milano, Adelphi, 1973 e 1991, pp. 25-45.
7. F. Nietzsche, La nascita della tragedia, cit., p. 104.
8. C. Piazzesi, Nietzsche, Roma, Carocci, 2015, p. 41.
9. F. Nietzsche, La nascita della tragedia, cit., p. 6.
10. Ivi, p. 3.
11. Ivi, p. 13.
12. G. Colli, op. cit., p. XV.

[Photo credit Una Scholl via Unsplash]

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Il senso e la sofferenza nel mondo moderno

<p>Blocking the sunset on a perfect afternoon</p>

Nietzsche, ne La genealogia della morale, ha posto le basi per una interpretazione del senso che l’uomo ha dato alla propria esistenza: nella terza dissertazione, precisamente il primo e l’ultimo paragrafo, viene ribadito come l’umanità attraverso l’affermazione, l’accettazione e la propagazione degli ideali ascetici, abbia voluto dare un senso, quello del nulla, piuttosto che il non volere.

Nel paragrafo sette della seconda, invece, spiega come l’uomo, attraverso la spettacolarizzazione delle proprie sofferenze, grazie all’invenzione degli dèi-spettatori, ha dato così un senso alle proprie pene: il soffrire che deriva dall’esistenza stessa, si ricordi il mito di Silone ne La nascita della tragedia, non sarebbe sopportabile per l’umanità, proprio perché la sofferenza stessa non ha alcun senso e proprio per questo si deve darne uno, fingendo che ci sia qualcuno a osservarci.
Inoltre, la religione greca, l’unica che per Nietzsche non colpevolizza l’uomo, cioè non indirizzando il dolore verso se stesso, ha il pregio di indirizzare la colpa del destino umano e delle sventure verso l’esterno, cioè verso gli dèi, invece che praticare quella interiorizzazione che diverrà propria del cristianesimo, sulla scia dell’ebraismo, il popolo del ressentiment.

Sulla stessa scia si pone un altro autore, un antropologo romeno: Mircea Eliade. Nel suo saggio degli anni ’40, Il mito dell’eterno ritorno, lo studioso descrive come la ciclicità delle azioni e del tempo sia stata presente nella nostra specie fin dai primordi, prolungandosi fino al cristianesimo e operando tuttora nella liturgia che si esegue ogni domenica. Questa ripetizione di archetipi, di gesti che sono stati compiuti da eroi illo tempore, non è altro che lo strumento di difesa, la barriera, che l’uomo ha innalzato di contro a una esistenza che, come abbiamo detto con Nietzsche, non ha alcun senso. La ripetizione, il continuo rinnovarsi nella cosmologia, l’eterno ritorno dell’anno non è altro che la realtà che si riempe di senso. La sofferenza, se sopportata dagli eroi illo tempore, diviene meno crudele e l’esistenza può sembrare meno dura agli occhi di chi la vive ogni giorno. Solo gli ebrei, la classe sacerdotale, secondo Eliade, ha posto fine alla ciclicità, immettendo nel tempo la divinità e fissando il senso dell’esistenza nel futuro, con l’avvento del Messia.

Oggi, qualcosa è cambiato? Come si esprime il senso? Come viene giustificata la sofferenza umana?

Gli eventi recenti non danno molto spazio per una risposta positiva ai quesiti: la sofferenza umana, semplicemente sembra non avere più nessuna giustificazione. Da cosa deriva questo assunto così netto?

Il terrorismo, la crisi economica, la caduta dei valori religiosi e politici, quindi la crisi delle istituzioni, hanno fatto sì che la diffidenza, il dubbio si insinui sempre più all’interno dell’agire umano.
L’ultimo esempio è la grave decrescita di vaccinazioni, con il relativo dissenso verso la scienza, la quale è stata finora uno dei capisaldi della società umana. A questa teoria anti-vax se ne collegano altre che mettono in scena una vera e propria presa di distanza dal Potere, in ogni sua forma, il cosiddetto “pensare altrimenti”, di cui ultimamente Fusaro ha scritto.

Cosa significano queste teorie “complottiste”, come sono viste da molti? Esse tracciano il profilo di un nuovo modo di pensare la realtà che pone il dubbio come principio primo, arrivando a identificare il colpevole della sofferenza umana una entità indistinta, denominata “Poteri forti”.

Così, quello che Nietzsche aveva descritto come un fenomeno di introiezione, cioè l’uomo è arrivato a dare all’uomo la colpa di ogni sofferenza, ora, vi è un processo inverso: il colpevole è un essere altro, una entità quasi sovramondana ma che agisce e opera nel mondo.
Si potrebbe pensare che questo assomigli quasi all’attribuire la colpa a un dio, ebbene non è così, infatti, mentre il dio è spettatore delle nostre sofferenze e non agisce perché confinato a una età mitica di cui ci restano solo le gesta e i racconti, questo tipo di entità nuovo è assolutamente neutro: non aspira a nessuna verità, non pone alcun obbligo, non interagisce con l’uomo. È assolutamente intangibile, invisibile e indescrivibile.
La tendenza dell’uomo di voler trovare un senso alla propria sofferenza sta lentamente cozzando contro la consapevolezza che non esiste alcuna giustificazione alle scelte umane, che non sono guidate da nessun fine se non affermare la propria esistenza, assicurandola all’idea di una momentanea sopravvivenza immortale, manifestata attraverso la ricchezza e lo status sociale.
La situazione della nostra civiltà, attraverso la perdita di qualsiasi senso, sembra quasi votata all’autodistruzione e all’implosione, nella mera ricerca di sopravvivere, come un Macbeth che sfida, stremato ma ostinato, il proprio destino che egli stesso ha contribuito a costruire.

 

Edoardo Poli

Nato a Velletri il 14 febbraio 1996, mi sono diplomato al Campus dei Licei “Massimiliano Ramadù”, ad indirizzo scientifico.
Vivo e studio a Pisa presso la Facoltà di Filosofia dell’Università di Pisa. Ho pubblicato un libro di poesie nel 2015, attualmente scrivo per altre riviste, tra cui “Artspecialday” e “Momus”; fortemente interessato ad argomenti sia scientifici che umanistici, secondo quella unificazione della cultura umanistica e scientifica, tipica dell’approccio complesso.

Spirito apollineo e dionisiaco nel processo penale: l’estetica del giudizio criminale

Il processo penale contemporaneo, per il vero come anche quello antico, medioevale e moderno, suscita interesse, pulsioni sociali, contesa emotiva; tende all’odio verso il colpevole e compassione verso la vittima. Basta pensare ai casi di cronaca più recenti per rendersi conto di quanta enfasi popolare accompagni la storia dei processi. Ne cito solamente alcuni: la strage di Erba, gli omicidi di Garlasco, Perugia e, da ultimo, il processo a Massimo Bossetti. Questo tuttavia accade anche per vicende giudiziarie meno cruente e sanguinose, ma ugualmente “sentite” dall’opinione pubblica, come i procedimenti contro l’ex premier Berlusconi, “mafia-capitale” o gli scandali per i conti esteri di questo o quel personaggio pubblico.

La tensione che si crea tra l’aula di giustizia e la società è palpabile e sostenere, come talvolta ha fatto la Corte di Cassazione, che tutto questo non possa incidere sul giudizio tecnico è un’illusione. Lo è per due motivi fondamentali: l’uno perché l’essere umano non è una macchina, il secondo perché è il diritto stesso che attribuisce al giudicante una funzione sociale attraverso lo scopo general-preventivo della pena che consiste nella portata educativa della pena stessa, non solamente nei confronti del reo, ma di tutta la società. Già l’antropologo e sociologo Émile Durkheim aveva categorizzato quest’esigenza laddove affermava che il delitto causa una frattura nel tessuto sociale che viene rimarginata proprio attraverso la sanzione penale e dunque il processo. La collettività ha bisogno del colpevole per emendarsi dal delitto e per essere sicura di poter vivere in pace, senza pericolo.

Persino l’avvocato cavalca questo istinto allorquando, sostenendo l’innocenza del proprio assistito, crea pressione emotiva sostenendo che “il colpevole è ancora in libertà”. Il caso di Bossetti è paradigmatico in questo senso: il rapimento e l’omicidio della giovane Yara ha sconquassato la quiete della ristretta e civilissima comunità della provincia bergamasca ed il bisogno di sapere “chi è stato” è un’esigenza di vita quotidiana. Nel caso oramai quasi dimenticato dell’omicidio di Milena Sutter (Genova, anni Settanta) accadde qualcosa di molto simile: una bellissima ragazzina fu “prelevata” all’uscita dalla scuola, tenuta non si sa dove per alcuni giorni e poi gettata in mare. A Genova la “terra di nessuno”, dove far ritrovare un corpo esanime, è il mare; a Bergamo un campo incolto. A quel tempo i genitori avevano paura a mandare i propri figli a scuola, oggi accade lo stesso. E’ il “pericolo dell’accettare le caramelle dagli sconosciuti”.

Il processo, chiamato a giudicare di vicende così emotivamente devastanti, è, al contrario, un laboratorio scientifico di regole, di eccezioni, di cavilli che non sono perversioni da Azzeccagarbugli ma garanzie contro gli abusi, regole che garantiscono la logicità delle decisioni, strumenti per evitare che i protagonisti del processo operino da vittime dell’impulso e dell’emozione invece che da algidi tecnici. La toga rappresenta, metaforicamente, proprio questo: la necessità di far trionfare il diritto, cioè dire la scienza giuridica. L’errore cognitivo che “stacca” il ragionamento giuridico, per offrirsi all’impulso della sola general-prevenzione e quindi la necessità di ristabilire l’ordine e soddisfare la collettività con la sua “sete di giustizia” è manifestazione della “pop justice” e dunque del prodotto giudiziario “per la collettività”, come le opere pop, rispetto a quelle della tradizione, sono nate per essere trasfuse nei manifesti e nei posters, alla portata di tutti e per tutti. Il diritto tenta di cautelarsi contro questo rischio attraverso la “rimessione del processo” che impone lo spostamento del luogo dell’udienza quando le condizioni ambientali non consentono un giudizio sereno. E’ del tutto evidente la difficoltà di capire quando il processo travalichi così tanto nel “pop” da incidere sulla terzietà del giudice.

Ancora una riflessione sul caso Bossetti: quanti possono comprendere l’anomalia di quella prova del DNA ritrovata sull’indumento intimo di Yara e quanto, proprio quella dislocazione della traccia sul suo indumento, diviene una rappresentazione estetica capace di portare ad errori di prospettiva rispetto al migliore giudizio (va ricordato che altre tracce genetiche di soggetti non identificati sono state trovate altrove ma ad esse non è stata data importanza). Com’è possibile che il Tribunale di Brescia abbia, durante l’indagine, dichiarato che è necessario fare chiarezza su quella prova e la Corte di Assise di Bergamo abbia potuto bypassare questa indicazione ritenendo quell’indizio “preciso”, oltre che “grave” e quindi pienamente capace di provare la colpevolezza di Bossetti? I giudici di Brescia si sono espressi in base ad una valutazione tecnica, che esigeva persino meno approfondito (perché la fase processuale era diversa) rispetto a quella del primo grado; eppure hanno stigmatizzato quella prova, dando le indicazioni, in diritto, di come rimediare al dubbio. Senza il rimedio suggerito quel dubbio resta come un macigno sul futuro del processo. In linguaggio giuridico il dubbio sulla prova si chiama “ragionevole dubbio” e porta all’assoluzione.

Io credo che il processo, anche quello contro Bossetti, viva e sia vissuto con questa doppia natura: una tecnica, complessa e scientifica, l’altra emotiva, passionale, general-preventiva e sociale. Tutta la vita vive di questa dicotomia, dunque anche il diritto. Lo ha spiegato al mondo il grande filosofo Nietzsche nella sua opera La nascita della tragedia, laddove ha raccontato dell’eterna lotta tra lo “spirito apollineo” e lo “spirito dionisiaco”: il primo rappresenta la perfezione delle forme, l’armonia, la logica, ed il secondo la passione, l’emotività, l’irrazionale. Il processo è come l’arte, deve trovare l’equilibrio tra il diritto apollineo e la società dionisiaca, tra il giudice apollineo e il coro (la pubblica opinione) dionisiaca. La vicenda di Bossetti è anche questo e forse, proprio per questo, appassiona la gente (il coro della tragedia greca).

Luca D’Auria

[Immagine tratta da Google Immagini]