Tutto, ovunque, nello stesso momento: il multiverso

Il fisico americano Hugh Everett III, nel 1957, azzardò un’interpretazione della meccanica quantistica che lui definiva “a molti mondi” (e che chiamiamo multiverso). Riassunta in modo il più possibile chiaro (e perciò impreciso), Everett pensava che l’unico modo per confermare la contemporaneità di stati diversi previsto dalla fisica quantistica fosse contemplare l’esistenza di più mondi paralleli, uno per ogni possibilità.
Considerata più che altro un esempio di fringe science (a metà con la fantascienza), la teoria ha ottenuto popolarità negli anni, sia in campo scientifico, dove una minoranza di fisici la postula come conseguenza della teoria delle stringhe e della teoria delle bolle, sia soprattutto in campo di cultura pop. Romanzi, fumetti, film, videogame e serie tv si sono buttati sul concetto di mondi paralleli come nuova miniera d’oro di idee e trovate narrative.

Quello che viene spesso trascurato, però, è la risultante filosofica della teoria del multiverso, che può rappresentare il colpo di grazia definitivo a un antropocentrismo agonizzante fin dalla rivoluzione copernicana. Col progresso scientifico, l’uomo al centro del mondo e signore della creazione si è scoperto una specie tra tante, abitante di un pianeta minuscolo e marginale che orbita intorno a una stella che è una su miliardi, galleggiante in un universo sterminato, vuoto, oscuro, minaccioso e indifferente. La fisica quantistica toglie anche l’ultimo supporto metafisico alla vita umana: la sua unicità, e quindi il suo senso. Se esiste un universo in cui si realizza ogni mia possibile scelta, che senso ha la mia decisione qui e ora? Se esistono miliardi di miliardi di “me”, che importanza posso avere io come individuo?

A sorpresa, questo è il punto centrale di Everything Everywhere All at Once, il film dei The Daniels (Daniel Kwan e Daniel Scheinert) che ha sbancato all’ultima edizione degli Oscar. Il nodo centrale è uno scontro generazionale, quello tra l’iperattiva, stressata e infelice Michelle Yeoh (Evelyn) e sua figlia in cerca di attenzione e affetto Stephanie Hsu (Joy).
Quest’ultima, o meglio una sua versione alternativa, ha una visione d’insieme sul multiverso che la porta a un disperato e assoluto nichilismo. Ogni cosa e ogni persona, ripetute quantisticamente all’infinito, non hanno valore, e il risultato è un panorama mortificante, un nulla pieno di tutto, un crudele gioco di insensatezza cosmica. In preda a una simile angoscia esistenziale, comprensibilmente, la ragazza cerca conforto dalla mamma.

A Evelyn è chiesto di trovare una risposta impossibile, un barlume di senso in un multiverso spaventoso, sempre più complesso, sempre più oscuro e terrificante… e in qualche modo la trova, complice la natura di fabbrica dei sogni che è il cinema. Tra esplosioni di puro dadaismo e psichedelie surreali, trovate piacevolmente folli che fanno apparire il film come un trip acido particolarmente strutturato, si scava disperatamente alla ricerca di qualcosa da salvare in un cosmo alla deriva. In orizzonti di senso svaniti che portano inevitabilmente all'(auto)annientamento, di fronte all’abisso del nulla, la risposta si trova, nascosta, umile e sofferta, in una quotidianità di affetti che si concretizza nelle relazioni. Di fronte all’abisso, l’amore eroico e ostinato che insiste a valorizzare contro ogni evidenza l’oggetto del proprio affetto è l’unico argine possibile alla disperazione.

Tra le pieghe di citazioni dei Wachowski, Satoshi Kon e Kubrick, parodie di Ratatouille e scene sentimentali tra sassi, dita di wurstel e improbabili inserzioni anali, Everything Everywhere All at Once dimostra un’inaspettata profondità, una consapevolezza acuta e dolorosa di una generazione che chiede alla precedente una sola cosa: di esserci, di condividere per quanto possibile tempo, esperienze, emozioni… e magari di trovare proprio in questo una singola scintilla di senso persa nella sterminata oscurità di un multiverso che non offre alcun punto di riferimento.

 

Giacomo Mininni

 

[Photo credit Greg Rakozy via Unsplash]

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Un’arte per Cutro

A giorni di distanza da quel 26 febbraio non si è ancora spenta la polemica attorno al naufragio di Cutro. Mentre scrivo viene recuperato il corpo della 76esima vittima (un’altra bambina) e ci si accapiglia sul karaoke (comprensibile o inopportuno) della premier con il ministro delle infrastrutture. Passerà ancora del tempo e la contingenza della nostra vita moderna sempre in affrettata metamorfosi metterà questa tragedia nel già ricco cassetto della memoria delle tragedie.

Ma se la cronaca scompare sotto tonnellate di notizie giornaliere, forse tocca di nuovo all’arte il compito di rendere immortale un fatto e il suo pesante bagaglio emotivo. Un’arte che fugga quella che Arendt definiva la «vuota ragione della bellezza» e che secondo le parole di un altro filosofo, Adorno, pronunciate già negli anni Sessanta, «si addentra nell’ignoto, assumendo quel che è orrido e negativo del presente, per trasfigurarlo. Fino a farsi sfida al disincanto, perenne tensione, rinuncia alla serenità, dissonanza proclamata con serietà e inquietudine»1.

Questo il compito dell’arte politica, ovvero dell’arte come «riflesso e tribunale del presente»2, e degli artivisti, che «si fanno interpreti soprattutto del volto più perturbante della cronaca»3, intendendo il perturbante nel senso freudiano di ciò che genera spavento, angoscia e terrore. Come quelle immagini regalateci dalla cronaca di quelle decine di corpi strappati con fatica e sudore dalle onde infrante sulla sabbia di Cutro. Il tema delle migrazioni è appunto uno dei soggetti più indagati dall’arte politica, uscendo però da una chiave d’interpretazione soggettiva per privilegiare una restituzione oggettivo-antropologica in cui lo scopo è quello di responsabilizzare lo sguardo, ovvero dire allo spettatore: se stai guardando, sentiti chiamato in causa in prima persona.

Si tratta di un’arte a 360 gradi che coinvolge istallazioni, cinema, poesia, pittura, suoni, ecc. e proviene anche da artisti molto noti del panorama artistico internazionale. Ci sono opere minute, piccole ferite inferte nelle tenebre come l’intervento di Banksy su una parete di Rio Ca’ Foscari a Venezia: un bambino naufrago avvolto da un giubbotto salvagente con in mano un fumogeno fluorescente (2019). Oppure monumentali come i (discussi) 22 gommoni di salvataggio incastonati nelle bifore di Palazzo Strozzi a Firenze da Ai Weiwei, che provocatoriamente, sempre nel 2016, ricrea con il proprio corpo la famosa foto del piccolo Aylan Kurdi sulla spiaggia di Lesbo. Oppure sono opere da vivere, come la performance VB65 messa in scena da Vanessa Beecroft nel 2009 al PAC di Milano dove a una lunga tavola trasparente non apparecchiata sedevano dodici migranti africani in smoking mentre consumavano con le mani pollo e pane strappati a mani nude.

Quella Cutro è l’ennesima tragedia umana da riporre nel cassetto dei ricordi dolorosi, già particolarmente pieno alla voce “Mediterraneo”, territorio di speranze infrante e promesse non mantenute, sepolcro di quelle che a tutti gli effetti sono «vite di scarto generate dalla globalizzazione»4. Come scriveva Mazzucco, «il mare non dimentica, restituisce e trasforma ciò che non gli appartiene. Quei corpi […] diventeranno ciabatte, monconi e stracci che le onde rumineranno mesi e anni, per poi deporle su qualche spiaggia, come immonde uova di un’umanità infeconda. La nostra»5. Questi “corpi trasformati dal mare” sono per esempio conservati al Museo Porto M di Lampedusa, dove dal 2008 Giacomo Sferlazzo e il collettivo Askavusa raccolgono la memoria collettiva della migrazione sull’isola, fatta di oggetti banali recuperati dai barconi e che racchiudono innumerevoli storie. Ci sono invece gli abiti al centro dell’istallazione di Kader Attia La mer mort del 2015: jeans, magliette, maglioni e vestiti sparsi a terra alla rinfusa con sfondo un’immagine delle onde del mare. Nel 2019 l’artista svizzero Christoph Büchel espone alla Biennale di Venezia Barca nostra, il relitto di un naufragio avvenuto al largo della Libia nel 2015 costato la vita a quasi mille persone: una gigantesca spina nel cuore di una delle principali manifestazioni artistiche mondiali. Gigantesca è anche Porta di Lampedusa – Porta d’Europa di Mimmo Paladino, una scultura che è anche monumento, in ceramica refrattaria e ferro zincato; si staglia per circa 5 metri in altezza e 3 in lunghezza, posizionato nel 2008 sull’ultimo promontorio dell’isola per ricordare chi si è salvato e chi invece è morto.

L’arte da sola non risolverà certo la crisi migratoria, né tantomeno darà un perché a quanto accaduto a Cutro, ma ha il dovere di pungolarci costantemente, anche dove non ce lo aspettiamo, per imporci di non cedere all’oblio: se è vero il motto “lontano dagli occhi, lontano dal cuore”, è il caso di tenere certi fallimenti del genere umano sempre bene in vista.

 

Giorgia Favero

 

1. T.W. Adorno, È serena l’arte?, Einaudi, Torino 1979, pp. 273-280
2, 3, 4. V. Trione, Artivismo. Arte, politica, impegno, Einaudi, Torino 2022, p. 13, p. 28, p. 50
5. M. Mazzucco, Il mare della pietà perduta, in “La Repubblica”, 15 giugno 2018

[Photo credit Zeno Striga, l’opera di Banksy a Venezia]

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Elogio della gentilezza

Viviamo nell’epoca dell’individualismo, in cui ciascuno di noi pone i propri bisogni e desideri in primo piano. Portato all’estremo, questo interesse limitato all’Io, porta a mettere fra parentesi l’Altro, rischiando di relegarlo a una posizione di ostacolo per i propri interessi. Il fenomeno che vede sempre più a rischio le relazioni, di qualsiasi tipo esse siano, a causa di questa tendenza sociale è stato molto studiato. Tra i contributi più influenti troviamo il discorso tenuto da George Saunders, scrittore e saggista statunitense, ai neolaureati della Syracuse University. Questo discorso è stato pubblicato in seguito e il suo titolo rende chiaramente l’idea che l’autore sostiene: L’egoismo è inutile – Elogio alla gentilezza. Superfluo dire quanto le sue parole costituiscano una lezione fondamentale per tutti noi, da ascoltare e condividere.

Seguiamo passo dopo passo l’intero discorso. Innanzitutto, in ognuno di noi c’è una tendenza – una malattia, per usare il termine che preferisce Saunders – che è l’egoismo. La stessa tradizione filosofica ci ha parlato di quest’ultimo: Hobbes, per esempio, afferma che gli interessi di ciascuno di noi sono diversi da quelli degli altri e, dunque, siamo portati a metterci in primo piano, attuando atti di egoismo. Tendiamo (se naturalmente o non e quanto frequente sono questioni molto discusse) all’egoismo, al bellum omnium contra omnes, per difendere i nostri interessi e farli prevalere. Per questa malattia esiste, però, una cura: la gentilezza.

Indipendentemente dalla nostra natura, che sia di homo homini lupus (“l’uomo è un lupo per l’uomo” hobbesiano) o zoon politikon (“animale politico” aristotelico) – ovvero: sia che la nostra natura tenda all’egoismo sia che tenda alle relazioni con gli altri – potrebbe ritenersi necessario attuare la cura, ovvero una gentilezza che consista di atti di aiuto e altruismo verso gli altri. Non si tratta di dover mettere tra parentesi il nostro io, autocausandoci danni o autoponendoci in difficoltà. Si tratta, piuttosto, di trovare un equilibrio e, pur tenendo in grande considerazione il nostro benessere, porre attenzione alle necessità altrui e mettere in atto una gentilezza che ci richiede di non rimanere neutrali di fronte alla sofferenza altrui, o alle esigenze altrui. Si tratta di rispondere all’appello a cui ci richiama il volto dell’Altro, usando un’espressione di Levinas. Questo giova anche alla nostra coscienza, poiché non reagire di fronte alla sofferenza altrui potrebbe portarci al pentimento causato dal non avere agito per l’Altro.

Vediamo l’esempio pragmatico di Saunders. L’autore si chiede: “Se guardi indietro, che cosa ti dispiace?” Ci racconta che, in seconda media, arrivò nella sua classe una nuova compagna, Ellen. Quando era nervosa, Ellen si metteva una ciocca di capelli in bocca e la masticava. I compagni molto spesso la prendevano in giro e Saunders, ora cresciuto, si pente di non essere mai intervenuto. La reazione di lei alle prese in giro era chiara: rimaneva a occhi bassi, rannicchiata, quasi volesse sparire dopo le offese ricevute. Era come se le parole negative altrui le ricordassero il posto che le apparteneva, un posto nascosto, non tra la gente, un posto in cui nessuno la potesse e dovesse guardare. Dopo poco, lei traslocò e Saunders non l’ha più vista. Dopo quarantadue anni, lui si pente non perché abbia compiuto del male, ma perché non è stato gentile. Si pente di tutte le volte in cui, e questa era una di quelle, la sofferenza altrui era davanti ai suoi occhi e lui ha reagito con neutralità.

Si interroga allora sul perché: perché siamo abituati a rimanere neutrali di fronte alla sofferenza? Perché proviamo difficoltà nell’agire con gentilezza? Perché l’egoismo è radicato in noi? Tre sono i paradigmi che, secondo Saunders, causano questa condizione odierna: ciascuno di noi si sente centro dell’universo, separato dall’universo, e dunque anche dagli altri, ed eterno. Qualcuno si sentirà innocente, altri si sentiranno presi in causa ma la verità è che tutti siamo protagonisti di questa visione egocentrica della realtà: a livello razionale sappiamo che i tre paradigmi non sono veri, ma a livello viscerale ci crediamo perché riteniamo che la nostra storia personale sia più importante, e ciò è, potremmo dire, naturale perché conta in modo diverso da quella degli altri, proprio in quanto nostra.

La lezione di Saunders è chiara: non dobbiamo aspettare per essere gentili. Non dobbiamo dirci che lo saremo domani, dalla prossima settimana, in un futuro non precisato. Iniziamo sin da subito a praticare la gentilezza. E basta poco, basta un sorriso, un grazie, una parola.

«Praticate gentilezza a casaccio e atti di bellezza privi di senso»1.

 

Andreea Elena Gabara

NOTE
1. Judy Foreman, frase scritta con vernice sul muro di un magazzino.

 

[Photo credit Matt Collamer via Unsplash]

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Esercizi di libertà con Jonathan Livingston

Nel nostro quotidiano affannarci cercando di compiere i nostri tanti doveri può capitare che non ci si interroghi affatto sulla libertà né sulla mancanza di essa. Non è affatto semplice, infatti, comprendere se un concetto così bello e, allo stesso tempo, inafferrabile faccia parte della nostra vita e se la libertà che crediamo di avere corrisponda alle nostre più profonde esigenze. In questo senso, forse, sarebbe utile riappropriarci del diritto di comprendere come e dove sentiamo che essa si eserciti affinando la capacità di guardare dentro noi stessi, attività spesso trascurata per mancanza del tempo necessario all’introspezione. Una persona, per esempio, potrebbe sentirsi libera se riesce a dedicarsi ad un’attività che ama senza alcuno scopo preciso oppure se può gestire il proprio tempo in autonomia. Queste e altre innumerevoli forme di libertà, spesso, provengono da una ricerca individuale durante la quale, probabilmente, sorgeranno spontanee alcune domande “preliminari”: io sento di essere libero? Ho un mio spazio libero? O, in una fase successiva, dove si è cacciata la mia libertà che sento di aver perduto?

Esattamente a questo genere di domande si trova a rispondere il famigerato gabbiano Jonathan Livingston nel romanzo di Richard Bach che, riletto oggi, appare davvero illuminante. il gabbiano, infatti, rivendica una libertà particolare: la libertà di chi desidera con tutto se stesso seguire una voce altra che non è quella del gruppo sociale al quale, comunque, appartiene ma è una voce interiore, alla quale sente di non poter resistere:

«A un miglio dalla costa un peschereccio arrancava verso il largo. E fu data voce allo Stormo. E in men che non si dica lo Stormo Buonappetito si adunò, si diedero a giostrare ed accanirsi per beccare qualcosa da mangiare. Cominciava così una nuova dura giornata.
Ma lontano di là solo soletto, lontano dalla costa e dalla barca, un gabbiano si stava allenando per suo conto: era il gabbiano Jonathan Livingston. […] La maggior parte dei gabbiani non si danno la pena di apprendere, del volo, altro che le nozioni elementari: gli basta arrivare dalla costa a dov’è il cibo e poi tornare a casa. […] A quel gabbiano lì, invece, non importava tanto procurarsi il cibo, quanto volare. Più di ogni altra cosa al mondo, a Jonathan Livingston piaceva librarsi nel cielo» (R. Bach, Il gabbiano Jonathan Livingston, 1977).

Potremmo dire, quindi, che la fase più delicata, importante ed emozionante nella ricerca della propria libertà sia proprio accorgersi della mancanza di essa, solo avendone la percezione, infatti, si può agire concretamente per riconquistarla nonostante non sia sempre semplice. Per conquistare l’agognata libertà potrebbe essere necessario operare delle scelte anche drastiche e, spessissimo, si rischia di non venir compresi dagli altri. Jonathan Livingston stesso prova l’esperienza dell’emarginazione dal gruppo sociale perché nessuno dei suoi simili riesce a comprendere la sua inquietudine e le sue idee che, di fatto, se fossero accolte romperebbero un equilibrio, un ordine costituito, una serie di riti già ben collaudati. Per questo motivo, al nostro gabbiano non resta che recidere, almeno temporaneamente, alcuni legami e andar via verso un mondo nuovo dove troverà altri simili a lui coi quali confrontare le proprie idee, perfezionare le tecniche di volo che ama tanto e tramandare la sua idea di libertà, ovvero trarre felicità e soddisfazione personale nel compiere un atto senza un fine concreto«In capo a sei mesi, Jonathan aveva sei allievi, tutti esuli e reietti, ma pieni di passione. E curiosi di quella novità: volare per la gioia di volare!» (ivi).

Ed ecco come, pur nella sua brevità, il romanzo di Bach ci invita a cercare con tutte le nostre forze quella libertà che fa parte di noi, anche quando ci sembra di averla smarrita. Nelle ultime pagine il cerchio va a chiudersi per non finire mai: sarà un altro gabbiano a portare avanti lo slancio ideale di Jonathan Livingston e, forse, ha proprio ragione quando ricorda al suo adepto (e a noi) che: «Per tutte le cose, Fletcher, è questione d’esercizio!» (ivi).
Sarebbe davvero importante, per tutti noi, accogliere questo monito ed esercitarci a ritrovare la nostra peculiare libertà, regalandoci anche il diritto quasi dimenticato di praticarla. Nella nostra quotidianità dovremmo provare a dedicarci all’ascolto interiore, così da far emergere i nostri bisogni anche quando temiamo che quest’attività possa rubare tempo ad altri impegni più “concreti”. Tendere l’orecchio e mettersi nella condizione di riuscire ad ascoltare la propria voce più profonda potrebbe rivelarsi, infatti, il dono più bello e prezioso da fare a noi stessi.

 

Veronica Di Gregorio Zitella

 

[immagine tratta da Unsplash]

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Giustizia e forza tra Rousseau e Pascal

In natura sopravvive chi ha i mezzi migliori. Che si tratti di forza in senso stretto o di altre caratteristiche che possono esser considerate tali in senso più generale – come un efficace mimetismo o la secrezione di sostanze deterrenti – l’osservazione dei fenomeni naturali ha prodotto l’idea di “legge del più forte”. Questa espressione, però, se trasposta dal contesto naturale a quello sociale rischia di essere facilmente male interpretata e di legittimare atteggiamenti dispotici nei contesti più disparati: mobbing sul lavoro, bullismo nelle scuole, violenze in contesti familiari, venendo meno a quella che probabilmente è la caratteristica fondamentale della società, e cioè la tutela del più debole.

Nel Diritto del più forte (terzo capitolo del primo libro de Il contratto sociale), Rousseau si propone di mostrare l’incomprensibilità della nozione di “diritto del più forte” tracciando una netta distinzione tra la nozione di forza e quella di diritto. Se infatti ammettiamo la validità di questa idea, se accettiamo che il diritto sia un’istanza subordinata alla forza e dipendente da essa, ne deriva che il più forte è legittimato nel suo soverchiare il più debole, e che chi ha la forza di imporsi lo faccia anche a buon diritto. Tuttavia in questo caso il diritto non aggiunge nulla alla forza: il più forte non ha certamente bisogno di questa legittimità per imporsi, piuttosto egli lo fa in virtù di questa sua natura stessa; il più debole, dal canto suo, non si sottomette per dovere, bensì per necessità. Recita Rousseau: «Che un brigante mi sorprenda al limitare di un bosco: non soltanto dovrò per forza dare la borsa, ma, quando potessi sottrarla, sarei in coscienza obbligato a donarla? Perché, in fin dei conti, la sua pistola è sempre una potenza» (J.J. Rousseau, Du contrat social, 2010).
Da questo testo emergono dunque principalmente due idee. Innanzitutto il fatto che la nozione di diritto e quella di forza siano nettamente distinte, e l’espressione “il diritto del più forte” equivale in fin dei conti a “la forza del più forte”, poiché il diritto non aggiunge nulla al potere d’azione della forza. La seconda, più sottile, è che il diritto non costringe materialmente, bensì obbliga, cioè agisce a livello di coscienza morale. La forza s’impone da sé, il diritto chiama.

Questa distinzione mirabilmente condotta stronca una volta per tutte i tentativi di legittimare un sopruso sulla base della forza (sono più forte, quindi è giusto che comandi io), perché la legittimazione avviene sul piano del diritto, e non di una situazione di fatto. Ciò sembra risolvere una serie di questioni spinose, ma in realtà proietta dietro sé un’ombra, di cui sicuramente Rousseau era consapevole, che era già emersa con fascino nel pensiero di Pascal in Giustizia, forza1.
In questo testo Pascal, che riflette sulla relazione tra queste nozioni, mette in luce la problematicità della distinzione di cui sopra. La giustizia necessita della forza, perché da sé non si impone: essa è ciò che legittima o meno uno stato di fatto. Alla forza, dal canto suo, serve esser giusta per legittimare il suo esercizio, per non essere tirannica. Tuttavia, se da un lato «la forza è facilmente riconoscibile», proprio in virtù della sua natura, dall’altro «la giustizia è soggetta a disputa»: di ciò sono testimoni gli innumerevoli dibattiti sulla natura della giustizia, da Platone ai giorni nostri. Di questa ambiguità ha storicamente approfittato la forza, imponendo le sue ragioni e dichiarando (con forza) d’esser giusta. «Così – conclude Pascal – non potendo fare in modo che ciò che è giusto fosse forte, si è fatto sì che ciò che è forte fosse giusto».

Benché l’analisi di Pascal abbia una conclusione piuttosto sconfortante, ci sembra di poter trarre un insegnamento importante da queste lezioni. Il rischio di un sopruso è sempre dietro l’angolo, e le ragioni emergono lampanti da questi due testi. La giustizia non può essere imposta, la sua dimensione essendo quella morale: essa agisce a livello di coscienza individuale. Una regola imposta forzosamente è necessariamente tirannica, poiché essa deve essere l’espressione del senso di giustizia di una comunità, sia essa un gruppo di colleghi di lavoro, una classe scolastica oppure uno Stato. Ognuno, nella vita di tutti i giorni, ha la responsabilità di far esistere la giustizia nel contesto in cui vive, e ciò, come si è visto, non può essere imposto da fuori, ma deve uscire da dentro. Ecco perché invece di seguire ciecamente una regola comportandoci così da sudditi, è importante, seguendo il proprio buonsenso, individuare il significato della stessa, interiorizzarlo ed agire come chi sta al mondo con la consapevolezza del senso di ciò che fa. Una società giusta non è separabile dalla responsabilità dei propri cittadini.

 

Pietro Bogo

NOTE
1. Si tratta del novantaquattresimo pensiero contenuto in Pensieri. Le brevi citazioni che seguono sono tratte da questo pensiero.

 

[Photo credit Tingey Injury Law Firm via Unsplash]

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La scrittura e la vita. Intervista a Chiara Gamberale

Chiara Gamberale, nata a Roma nel 1977, è una scrittrice e conduttrice radiofonica e televisiva. Laureata presso il DAMS di Bologna, ha pubblicato il suo primo romanzo Una vita sottile nel 1999, dando così inizio alla sua carriera professionale che spazia in numerosi ambiti. Tra i numerosi altri libri pubblicati, l’ultimo, Il grembo paterno, ha avuto un successo davvero notevole. Oggi si dedica a un podcast, Gli slegati, prodotto da Chora Media, e alla sua scuola di orientamento creativo, CreaVità. La sua produzione letteraria non è, però, mai ferma dato che a marzo presenterà il suo nuovo libro.

In quest’intervista, parleremo delle relazioni che intercorrono sia tra noi e gli altri che tra noi e il nostro io interiore. Lasciamoci trasportare dalle parole delicate della Gamberale, che riesce a parlare al nostro io interiore e a farci riflettere su ciò che di più complesso c’è da comprendere: la vita. Buona lettura!

 

Andreea Elena GabaraCara Chiara, la sua vita professionale è decisamente poliedrica. Vorrei, infatti, iniziare chiedendole non di un suo libro ma del suo podcast, Gli slegati. Chi sono gli slegati a cui dà voce?

Chiara Gamberale – Gli Slegati li riconosci con lo sguardo, sono persone che non accettano soluzioni precostituite. Sentono, anzi sentiamo, la vita con cuore, ma la viviamo con la testa. Sono coraggiosi o impauriti, non capisci dove inizi una e finisca l’altra. Sono persone che all’amore chiedono troppo o troppo poco.

AEG – Le puntate del podcast indubbiamente parlano a tutti noi di tutti noi. Come possiamo convivere con il dualismo che ci caratterizza in quanto slegati, ovvero il contrasto tra voglia e paura dell’altro e la tendenza a slegare e allo stesso tempo legare relazioni?

Chiara Gamberale – Potremmo affidarci alla Preghiera degli Alcolisti Anonimi: Dio aiutami a cambiare quello che di me posso cambiare e ad accettare quello che non posso cambiare. Credo fermamente nell’imperativo greco del conosci te stesso… Chi non s’inganna non inganna. Qualsiasi sia il suo fisico emotivo e il tipo di relazione dove quel fisico può crescere, ma senza farlo apposta…

AEG – Viviamo in una società in cui i legami affettivi, a differenza del passato, tendono ad avere breve durata. Per usare un’espressione di Zygmunt Bauman, gli amori sono tendenzialmente liquidi e ci scappano dalle mani, impedendoci di creare relazioni durature. Secondo la sua personale opinione, come mai avere una relazione duratura oggi è così difficile?

Chiara Gamberale – Provo a rifletterci ne Il grembo paterno (Feltrinelli 2021) e ci ho messo quasi duecento pagine per farlo… È una questione troppo complessa per risponderle in poche righe, ma in estrema sintesi credo che oggi siamo più liberi di sentire solo con il nostro cuore e pensare solo con la nostra testa, e questa libertà può rischiare di confonderci anziché orientarci.

AEG – In ogni puntata chiede se slegati si nasce o si diventa. Lei come risponderebbe a questa domanda?

Chiara Gamberale – Secondo me gli Slegati si riconoscono da sempre, dalle medie, dal liceo. Con questo podcast, però, non voglio insegnare niente, né dare risposte, solo incoraggiare le persone a provare a capire chi siamo davvero.

AEG – La famiglia è un tema fondamentale sia del podcast che del suo romanzo Il grembo paterno. Concentriamoci sulla nascita di un/a figlio/a: come affrontare l’arrivo di un tu che si contrappone all’io e al contempo lo riflette?

Chiara Gamberale – Io con l’io ci ho giocato in tutti i romanzi; è sempre stato un contrapporre la vita reale alla fantasia. L’unico modo per non cadere nella tentazione di un tu che si mangi tutto l’io è, forse, restare in contatto. Se restiamo in contatto con noi stessi e con i nostri figli forse potremmo farcela.

AEG – Lei dà molta importanza all’io bambino che ciascuno di noi percepisce in sé e che, secondo lei, ha un ruolo cruciale in qualsiasi relazione. A questo io si accompagna la voce bambina a cui tutti noi dobbiamo dare ascolto, la voce che dà vita all’arte. Come riscoprire questa voce e permetterle di farsi spazio nella nostra mente e nella nostra vita?

Chiara Gamberale – Durante una delle lezioni di CreaVità, la mia scuola di orientamento creativo a cui abbiamo messo le ali quest’anno, propongo un gioco: far scrivere alla bambina o al bambino che siamo stati una lettera indirizzata a qualcuno con cui sentiamo di avere un dialogo ancora in sospeso, qualcosa da dire e sentire. Questa immersione nel Laggiù dà dei risultati potentissimi di cui all’inizio neppure io mi ero resa conto.

AEG – Tra le cose a cui ha dato vita per far riscoprire alle persone questa voce c’è CreaVità, Percorso di Orientamento Creativo. Nel presentare questo spazio in un programma televisivo, lei ha spiegato ai giovani che l’assenza di stimoli e il vuoto sono necessari per capire chi si è. Dato che viviamo in un mondo di sovrastimolazione, cosa possiamo fare per isolarci dagli stimoli continui e tornare in contatto con la nostra persona più profonda?

Chiara Gamberale – Scrivere quella lettera, per esempio. Ritrovare il privilegio della noia, del tempo lento. Credo nel potere dell’arte, a me la letteratura ha salvato la vita; attraversare se stessi usando musica, libri e corpo mi pare un primo importantissimo passo per ri-sentirsi parte di qualcosa.

AEG – Visto che stiamo parlando di mancanza e assenza, mi fa piacere ricordare il suo libro Qualcosa (Longanesi, 2017), favola morale in cui la protagonista Qualcosa di Troppo, che è sempre stata troppo in tutto, si trova di fronte a una mancanza, precisamente la morte della madre. Questo aiuterà Qualcosa di Troppo ad affrontare i limiti e le fragilità. Le mancanze e i limiti sono, quindi, essenziali nella nostra vita?

Chiara Gamberale – Senza dubbio ci permettono di avere uno sguardo trasversale, nuovo. Dal vuoto e dall’impossibilità nascono le idee, quindi i passaggi segreti. Se io non fossi stata una bambina con dei limiti non avrei mai iniziato a scrivere.

AEG – L’arte, che ha descritto come una missione, uno strumento e anche una possibilità di terapia, aiuta a conoscere e affrontare quello che non si ha, cioè i nostri limiti?

Chiara Gamberale – Esattamente. Grazie ai passaggi segreti di cui ho parlato prima, lungo quel tragitto, sento che l’arte ha la sua migliore possibilità di realizzazione. Da lì in poi è tutta una terapia a forma di abbraccio reciproco, e viceversa.

AEG – Immagino che lei sia particolarmente d’accordo con Simone Weil quando scrive che «dentro ogni limite abita un Dio». Cosa significa per lei questa frase?

Chiara Gamberale – Che ci innamoriamo dell’umano e poi invece, da noi stessi, pretendiamo il divino; crediamo anzi che il divino abbia a che fare con l’assenza di limiti, ma non è così. Invito tutti e me stessa ad abbracciarli e coccolarli, i limiti, per le possibilità impensabili che ci offrono.

AEG – Come ultima cosa, dato che abbiamo varcato la soglia del mondo della filosofia, citando Simone Weil, ci tengo a chiederle cosa sia per lei la filosofia e se abbia influenzato la sua vita professionale.

Chiara Gamberale – Sono da sempre affascinata dalla filosofia, ma alla letteratura ho dedicato la mia esistenza. Ricorda cosa sosteneva Gramsci? Che la filosofia mette le mutande al mondo, la letteratura gliele toglie…

 

Andreea Elena Gabara

[Photo credit Feltrinelli]

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Alla ricerca dei confini del paesaggio attraverso Wittgenstein

Nel Tractatus logico-philosophicus, Ludwig Wittgenstein pone la tautologia e la contraddizione come situazioni-limite del discorso sensato, ossia come confini non valicabili dell’espressione linguistica del pensiero, perché al di là di essi vi sarebbe semplicemente non-senso. Esse rappresentano quindi i casi marginali della dicibilità; mentre nello spazio tra questi due termini è concepibile una descrizione articolata del mondo.

La tautologia ripete sempre l’identico (piove o non piove) e si dice che è incondizionatamente vera, perché non ha alcuna condizione di verità. Invece, la contraddizione pone e toglie contemporaneamente qualcosa, sotto il medesimo rispetto (piove e non piove) e per questo si dice che non è vera sotto nessuna condizione. Né tautologia né contraddizione sottostanno a delle condizioni, come invece accade alle proposizioni sensate, impedendo di istituire relazioni determinate ad altro. Secondo Wittgenstein questa posizione di confine conferisce ai due termini il carattere di essere privi di senso e tuttavia non insensati, poiché essi continuano ad appartenere al linguaggio, essendo il modo in cui esso dà segno del proprio estinguersi. Nella tautologia e nella contraddizione il dissolversi di ciò che può essere detto, e di come può essere detto, delinea la funzione ambivalente di queste due situazioni: da un lato delimita il dicibile e dall’altro lato si rivolge a ciò che non può essere detto perché semplicemente si mostra. I confini possono significare non solo le frontiere di sensatezza del mondo, ma anche luoghi di indagine, in cui esplorare, oltre il dicibile, quello che non può essere comunicato ma solo mostrato.

Senza approfondire ulteriormente le questioni del Tractatus, tautologia e contraddizione, in quanto limiti del discorso sensato ma non insensate, portano a riflettere e ad insistere sui margini di senso del nostro modo di esprimerci per comprendere il mondo, muovendosi nelle periferie dove forse la sensatezza viene meno ma si intravedono nuove opportunità di ricerca. In questa prospettiva, parallelamente alla funzione-limite di tautologia e contraddizione nel linguaggio, si potrebbe domandare quali sono i confini del paesaggio e quali sono le condizioni di possibilità dei nostri spazi di vita in quanto strutture di senso di una medietà equamente distante dal difetto e dall’eccesso. Se il paesaggio designa una determinata parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni che lo vivono, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni, si può provare a delineare i poli di una zona temperata, entro la quale si esprimono i contesti di vita delle persone, manifestazione della varietà dei patrimoni culturali e naturali e fondamento delle loro specificità.

Come la tautologia, a un livello generale, si associa all’idea di ripetizione della stessa cosa o del medesimo segnale che ha come effetto la realizzazione del massimo ordine, perché in essa non c’è posto per l’irrompere di eventi casuali o disturbanti, nell’ambito del paesaggio l’identità, portata alla sua estrema declinazione, richiama la pretesa di immutabilità di un territorio e della comunità che lo abita. Si parla, ad esempio, di società tradizionali che tramandano pratiche e comportamenti culturali definitivamente codificati. Si parla anche di purezza e incontaminatezza di ambienti naturali e sociali da preservare, che presuppongono un modello archetipo ed edenico. Si pensi, infine, al concetto di tipicità, utilizzato oggi in diversi ambiti tra cui il cibo e l’architettura, come espressione e garanzia di persistente autenticità.

Dall’altra parte dell’identità sta la contraddizione, dove qualcosa è posto e tolto contemporaneamente: tutto pretende di comunicare con tutto e il risultato è il massimo della casualità e del movimento. Le relazioni con ciò che è diverso proliferano incontrollate e le connessioni che è possibile istituire sono tutte equivalenti, spegnendo sul nascere l’emergere di un senso. All’interno del discorso sul paesaggio, la contraddizione viene rappresentata da luoghi che sono non-luoghi, come quegli spazi della provvisorietà descritti da Marc Augé (aeroporti, parchi-divertimento, centri commerciali…), attraverso cui non si possono decifrare relazioni sociali, storie condivise o segni di appartenenza collettiva. I non-luoghi sono incentrati soltanto sul presente e sono altamente rappresentativi della nostra epoca, caratterizzata da impermanenza, transitorietà e individualismo.

Tra la monotonia dell’identità e la cacofonia della diversità assoluta, risuona la polifonia del paesaggio. In mezzo a questi due poli risiedono dunque le zone temperate dove si creano le condizioni di possibilità per la costituzione di paesaggi vivibili. Eppure, come la tautologia e la contraddizione fanno parte del discorso sensato, in quanto segni limitanei del suo estinguersi, anche identità e non-luoghi appartengono al paesaggio. Questa posizione di confine conferisce ai due termini di essere le frontiere della vivibilità dei luoghi e tuttavia non invivibili. Essi allora ci invitano a insistere sugli spazi di senso marginali, ma non per questo insensati, e sul senso degli spazi marginali, ma non per questo emarginati.

Umberto Anesi

[Photo credit Qingbao Meng via Unsplash]

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Ispirazione, interruzioni e scelte. Sull’impotenza progettuale dell’eccesso

Ispirazione. Questione alquanto dibattuta nel mondo artistico e quasi mai compresa al di fuori di esso, potrebbe essere definita, forse un po’ rozzamente, come un cartello ad un bivio, come il  motivo forte di una scelta. Come ciò che, finalmente, ci smuove. E smuovere è più che muovere, poiché  presuppone una situazione di precedente stallo.

Si racconta che, nel 1967, niente meno che l’architetto Carlo Scarpa, convocato all’ultimo minuto da  due colleghi per l’allestimento italiano per l’Expo di Montreal previsto per quell’anno, sollecitato a  dare una risposta in tempi brevissimi, abbia detto loro qualcosa come: “Non lo so, forse domani mi  viene un’idea, forse tra un anno, forse mai”1. A tal proposito, si potrebbe forse affermare: questione di “ ispirazione ”.
Ecco, queste parole di Scarpa, forse il più grande architetto d’Italia del secolo passato, potrebbero  tornare utili per una riflessione intorno alla progettazione, a più di mezzo secolo di distanza – una progettazione intesa in senso ampio, che non vuole riguardare solo l’ambito artistico ma, più in generale,  quello della vita

Viviamo nell’era dell’abbondanza. L’attuale surmodernità – Marc Augé battezza con tale termine l’epoca contemporanea – è, per definizione, opulenta ed eccessiva, qualcosa di tracotante: «È dunque attraverso una figura dell’eccesso […] che si  può cominciare a definire la condizione di surmodernità» (M. Augè, Nonluoghi, 2009). Un altro pensatore che avalla la condizione  di odierna “abbondanza” – in primis, abbondanza di reti sociali e di risorse artificiali – è il filosofo  Byung-Chul Han, che parla di depressione e burnout, le due nuove malattie del secolo, come causate  da un eccesso:

«Si tratta di stati patologici da ricondurre a un eccesso di positività. […] La violenza della  positività [è] derivante dalla sovrapproduzione, dall’eccesso di prestazione o di comunicazione» (B.C. Han, La società della stanchezza, 2020). 

All’interno di questa cornice, viviamo, anche, nell’era dei “big data”: dati non di per sé grandi e rilevanti, ma tanti. Tantissimi. Grandi masse di dati che, assieme con l’ovunque diffusa sovrainformazione, sono indiscutibilmente utili in molti ambiti, inequivocabilmente troppi se si parla di progettualità e progettazione.
Difatti, pensare che da una situazione sovrainformata o sur-dataistica – ovvero costituita di una quantità smoderata ed apparentemente infinita di dati – possa nascere in automatico un progetto è come  pensare che da un’orgia di impotenti possa nascere una creatura: piuttosto difficile. L’abbondanza non  sempre è sinonimo di fertilità

Riassumendo, si potrebbe affermare che l’odierna sur-modernità, più che nel passato, ci allontana dal fare e compiere delle scelte. La sovrainformazione mediatica, poi, nasce anche dall’infinita disponibilità di spazio per lo stoccaggio e per l’archiviazione: spesso non ci curiamo della rilevanza delle informazioni proprio perché tanto si tratta solamente di qualche kilobyte in più – che sarà mai? Ecco, allora, che il nostro “archivio mentale” assomiglia sempre più a quell’orgia infeconda. Insomma, direbbe Jason Bourne: «Cerca di capirmi: devo sapere alcune cose. Non tutte: tante quante ne bastano per prendere una decisione» (R. Ludlum, The Bourne identity, 1980).
Alla base del progetto, infatti, c’è sempre una scelta. E la scelta, sin dalla sua etimologia, sta a rivendicare l’atto del separare: la scelta presuppone dei rifiuti, delle negazioni e degli scarti. Prendere delle decisioni – ovvero, in termini minimi, progettare – significa compiere delle scelte, così discernendo e separando l’enorme, e di per sé inutile, montagna dataistica ed informativa. Lo scegliere ci costringe a dei bivi che, uno dopo l’altro, ci fanno fare a fette l’immensa mole dei dati che ci si parano di fronte – ché questi, da soli, non porterebbero ad alcunché.

Cosa ci smuova di fronte a questi bivi è ancora, in realtà, incerto. A quanto pare, perlopiù nel mondo artistico, alcuni la chiamano “ ispirazione ”. Sta di fatto che c’è di mezzo il concedersi del tempo proprio, del tempo-con-sé.
Riprendendo Paul Valéry, la scelta inizia con un’interruzione: interruzione rispetto al flusso e rielaborazione critica – e quindi progettuale – dei dati a disposizione. E l’ispirazione prende le mosse da un’interruzione: essa è più simile ad un rebus dentro di noi (fenomeno interiore) che ad una folgorazione dal cielo sopra la nostra testa (fenomeno esteriore).

E a qualcuno che dovesse ancora chiedere cosa si intende la parola ispirazione, allora, dovremmo modesta- mente rispondere: “Non lo so, forse domani mi viene un’idea, forse tra un anno, forse mai”.

Tommaso Antiga
Nato a Conegliano nel 1998, è Architetto e Dottorando di Ricerca presso l’Università degli Studi di Trieste, precedentemente laureatosi al corso di Laurea Magistrale in Architettura presso l’Università degli Studi di Udine con una tesi in forma di discorso sul tema della morte e dei suoi luoghi, portato avanti con il Prof. Giovanni La Varra. Da sempre appassionato anche di arte e filosofia e, nel tempo libero, aspirante scrittore

 

NOTE
1. Cfr. O. Lanzarini, Carlo Scarpa e il disegno, in DISEGNARECON n. 3 – Codici del Disegno di progetto. Appunti di  studio, Vol. 2, 2009, p. 6.

[Photo credit Shane Rounce via Unsplash]

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