Ecco perché a Rio non ha vinto nessuno ma abbiamo perso tutti

28 Agosto 2016. È passata una settimana dalla chiusura della cerimonia olimpica ed ogni Paese sta tirando le somme della propria spedizione sportiva o – forse – cominciando già a pensare inconsciamente a Tokyo 2020.
L’Italia non è andata male. Nono posto nel medagliere con 28 medaglie totali, abbiamo replicato quanto fatto a Londra 2012.
Abbiamo avuto i nostri momenti di gioia e di disperazione. Una volta ogni quattro anni scopriamo l’esistenza di tanti sport oltre al calcio e – diciamolo dai – sono anche capaci di farci emozionare.
Emozioni che ogni persona del modo avrebbe avuto il diritto di provare,  specialmente i brasiliani che ospitavano i Giochi.

La realtà delle cose – purtroppo – nel Paese sud-americano è stata totalmente diversa.
Quando nel 2009 il Brasile ottenne l’organizzazione dei Giochi Olimpici, era governato da Lula ed era considerato una nazione in grande progresso economico.
Per il sindaco di Rio nel 2012, Eduardo Paes, le Olimpiadi avrebbero permesso di «mettere in relazione ricchi e poveri, di portare i servizi di base – istruzione e sanità – nelle favelas e di favorire la coesione sociale attraverso investimenti localizzati in vari ambiti della città, consentendo, quindi, di realizzare la “città del futuro”».
In realtà dove sono finiti gli investimenti? Una buona sezione del denaro è stata utilizzata per prolungare la linea della metro verso la spiaggia di Ipanema e per il ricco sobborgo di Barra Tijuca. Gran parte del “villaggio degli atleti” si tramuterà in residenze di lusso. Inoltre – per concludere dal punto di vista umano – sotto il governo di Paes più di 20.000 famiglie sono state sfrattate dalle loro case.
Insomma, le Olimpiadi non hanno fatto altro che aumentare il divario sociale e – stranamente – sono state fonte di guadagno per i più ricchi.

Ma a tutto questo – ormai – siamo abituati da ogni grande Evento e la nostra indignazione per questo genere di cose si spegne facilmente in poco tempo.

C’è – però e purtroppo – molto di più.
Già nel 2015, l’Onu aveva denunciato un “elevato numero di esecuzioni sommarie di bambini” ad opera delle forze dell’ordine, sottolineando come spesso i responsabili risultassero impuniti. In particolare – come si può leggere sulla Repubblica del 9 ottobre 2015 – il Comitato delle Nazioni Unite per i diritti dell’infanzia metteva in luce una “violenza generalizzata” da parte della polizia, specialmente contro i meninos de rua e quelli che vivono nelle favelas. La violenza nei confronti dei minorenni sarebbe particolarmente elevata a Rio de Janeiro, dove «esiste un’ondata di “pulizia” che mira a presentare al mondo una città senza questi problemi» ha dichiarato la vice-presidente del Comitato, Renate Winter.

Sempre prima dell’inizio dei Giochi, Atila Roque – direttore di Amnesty in Brasile – dichiarò che «quando nel 2009 Rio si aggiudicò le olimpiadi del 2016, le autorità promisero di migliorare la sicurezza per tutti. Invece, da allora, abbiamo visto che nella città 2.500 persone sono state uccise per mano della polizia e ben poca giustizia». (tratto da Repubblica del 26 luglio 2016)
Sullo stesso articolo si può leggere che «il Brasile è il paese con il maggior numero di omicidi al mondo, un paese dal grilletto facile in cui solo nel 2014, l’anno della Coppa del Mondo, hanno perso la vita 60.000 persone. Solo nello Stato di Rio de Janeiro morirono 580 persone per mano della polizia, il 40% in più del 2013. Nel 2015 il numero è cresciuto a 645. In queste cifre, apparentemente asettiche, rientrano le decine di bambini assassinati da chi li avrebbe dovuti proteggere. Fra loro c’è Eduardo di 10 anni, seduto sull’uscio di casa, intento a giocare con il cellulare. Una pattuglia sorveglia il quartiere, quando un agente gli punta la pistola alla testa e spara. Eduardo, come molti suoi coetanei, è fra le vittime innocenti degli squadroni della morte (UPP, Unidades de Policia Pacificadora). […] Un dato, non trascurabile, riguarda il fattore razziale: i bersagli preferiti dalla polizia sono i giovani, poveri e di colore».

Ora – mi chiedo – tutto ciò era a conoscenza di tutti prima che i Giochi iniziassero, perché nessuno ha dato qualche segnale o fatto qualcosa?
Se fossi stato un atleta mi sarei categoricamente rifiutato di partecipare, cercando ci coinvolgere e rendere partecipi tutti gli altri atleti di questa carneficina in corso e chiedendo giustizia.
Chiudere gli occhi è più semplice? Certo, ma esempi virtuosi ne abbiamo avuti – come il discobolo polacco Piotr Malachowski, che ha donato la sua medaglia in beneficenza per contribuire a salvare un bambino di tre anni affetto da un raro tumore. Mi rifiuto di credere che ogni atleta, ogni giurato, ogni partecipante dei Comitati e delle Spedizioni abbia chiuso gli occhi.
Certo, magari non a tutti è arrivata notizia di ciò che era in atto, come magari anche a me può non essere pervenuta la presa di distanza generalizzata da parte dei partecipanti. Ma il dubbio è grande: bastava una minuscola ricerca per essere informati e una reazione forte da parte di ogni delegazione avrebbe avuto – penso – grande risalto mediatico.

Ecco perché a Rio, per ogni giornata dei Giochi, decine di vite umane si sono spente.
Ecco perché a Rio lo Sport ha fallito.
Ecco perché a Rio ogni medaglia è stata una sconfitta. Per tutti.

Massimiliano Mattiuzzo

[Immagine tratta da Google Immagini]

Diritto e giustizia alla luce dell’antropologia culturale

Una riflessione sull’utilità evolutiva dei sistemi di procedura penale per la mente del giudicante.

L’antropologia culturale studia le mutazioni della conoscenza sul modello di quelle genetiche. Con una differenza fondamentale, che, in quelle culturali, i geni-idee, “viaggiano” assai velocemente e sono così destinate ad essere riformulati ed anche destituiti in poco tempo, mentre le mutazioni genetiche sono rare e intervengono in tempi assai lunghi. Porre l’attenzione ai mutamenti culturali insiti nell’accertamento penale è interessante perché rispecchia pienamente questo approccio antropologico e pone altresì delle questioni spinose relative alla reale utilità di queste mutazioni rispetto alla funzione sociale della giustizia penale. E’ noto come ogni mutazione (prima fra tutte quella genetica) ricombini la struttura su cui interviene e questa “novità”, per essere accettata, debba essere “giudicata” favorevole per l’evoluzione della specie di riferimento, prima di divenire un nuovo patrimonio consolidato. Accade lo stesso per le mutazioni culturali, laddove in luogo dei geni vi sono, appunto, i geni-idee, con la peculiarità precedentemente accennata e cioè che queste sono assai rapide ad entrare a far parte del bagaglio del pensiero ma con altrettanta velocità possono non resistere al principio evolutivo e dunque essere accantonate perché disutili. Valutando le modifiche di paradigma del processo penale ci si rende conto come, nel volgere di pochi secoli, il processo ed in specie la legislazione, che funge da patrimonio genetico del medesimo, siano stati oggetto di mutazioni considerevoli: si è passati rapidamente da una fiducia incontrastata nel giudizio divino (l’ordalia) per arrivare, oggi, al processo “ad armi pari” (il sistema accusatorio moderno) passando per l’Inquisizione, che riponeva la massima fiducia nel giudicante e nella funzione della tortura come naturale via per raggiungere la verità, senza trascurare il sistema della prova legale in cui, a ciascun mezzo probatorio, veniva assegnato un valore numerico di affidabilità predeterminato, togliendo al giudice ogni forma di interpretazione soggettiva ai fatti. Differentemente da ciò che la vulgata sostiene usualmente, il modello processuale penale italiano è certamente, nei suoi connotati normativi, uno dei più evoluti di sempre. Basta infatti pensare che le norme che lo compongono ricalcano tutti i criteri tipici di demarcazione tra metodi scientifici e pseudo-scienze, a favore della soluzione scientifica dell’impianto regolatore del procedimento. Vale ricordare i due principali cardini dell’epistemologia recepiti dal codice: quello neopositivista, già di origine newtoniana, della verificabilità empirica degli assunti e quello falsificazionista di tradizione popperiana. L’accusa infatti deve provare il suo atto d’accusa portando delle prove concrete dei fatti che dimostrino l’accadimento e la sua attribuibilità ad un determinato soggetto. Tale proposta cognitiva non può essere un postulato ma deve altresì resistere alle confutazioni (e dunque deve poter essere falsificata); in questo modo, nella sua motivazione, il giudice è chiamato a esaminare i dati empirici che riscontrano quanto sostenuto dall’accusa ed anche esplicitare il perché l’ipotesi resiste alle smentite. Alla luce di tutto ciò v’è da chiedersi per quale motivo il giudizio di colpevolezza (oltre ad ogni ragionevole dubbio) possa non risultare sempre manifesto o, addirittura, essere smentito, sulla base dei medesimi elementi, dal giudice di rango superiore. Una risposta può essere offerta proprio dall’antropologia culturale, che, si sa, è uno dei formanti delle scienze cognitive. Durkheim ha ben evidenziato come il delitto crei una ferita nella società e la punizione del colpevole rappresenti, non solamente il ripristino della legalità, ma specialmente la cura contro quella ferita ed il male che essa ha prodotto; in questo modo il giudice si trova ad avere una funzione di garante del tessuto sociale e, in ciò, può trovare, nell’evoluzione culturale del processo (che crea orpelli spesso inestricabili rispetto ad una pronta risposta repressiva) un limite a tale ruolo di “clinico” del male prodotto. Ciò non avviene con pregiudizio o cattiva conoscenza delle regole processuali, ma proprio mediante percorsi cognitivi naturali, principalmente dovuti al ruolo svolto. La disutilità dell’evoluzione (giuridico-culturale) può dunque fare da freno alla rigorosa applicazione del diritto. In quest’operazione mentale il giudicante si trova a sostituire l’epistemologia con l’ermeneutica e ciò nel senso che supera la regola attraverso l’interpretazione. L’epistemologia obbliga infatti ad un ragionamento esclusivamente basato sulla disciplina normativa e non consente di aggirare questa in nessun modo; di contro, l’ermeneutica, metodo tipico dello storico, vuole che chi è chiamato a dare significato ad un fatto utilizzi tutte le conoscenze possibili, tra cui l’interpretazione. Se uno storico vuole decodificare uno scritto antico, magari leggibile solo parzialmente, attingerà ad altre fonti per tentare la migliore interpretazione. L’epistemologo, di contro, dovrebbe dichiarare sconosciuta la parte non manifesta. Per la prova penale e per il principio del ragionevole dubbio, la normativa impone la medesima condotta: il giudice deve fermarsi sui “vuoti probatori”, non può utilizzare né la scienza propria né altre conoscenze per superare il dubbio, magari re-interpretando la prova. Spesso, però, ciò non accade. Dal punto di vista delle scienze cognitive questa può essere una trappola mentale (un’euristica) che scaturisce dal ruolo di “crime controller” del giudice; dal punto di vista dell’antropologia culturale si può affermare che l’evoluzione normativa e dunque culturale (del processo) si frapponga alla soluzione sociale del problema-delitto e dunque assurgere al ruolo di evoluzione disutile (per l’evoluzione stessa) della specie (società). Questo “imbrigliamento” della mente del giudicante nel ruolo svolto, richiama gli esperimenti di Zimbardo (raccolti nel volume “L’effetto Lucifero”) secondo cui l’attribuzione di una determinata funzione ad un essere umano ne “ricabla” i percorsi neurali, anche e ben al di là di quelle che sarebbero le propensioni di costui, al di fuori del ruolo assegnatogli. Queste ragioni danno una illuminante spiegazione alla scollatura che assai spesso si può riscontrare tra il diritto e la giustizia applicata, laddove il primo è il lato dell’evoluzione culturale ed il secondo la sponda della modalità adattiva per l’evoluzione della specie dei geni-idee contenuti nelle regole astratte. Il giudice si trova così sul crinale di un doppio ruolo, quello di custode principale dell’evoluzione antropologico-culturale e quello del controllore del buon andamento sociale e del distributore di decisioni che sappiano rispondere a questa sua proiezione extragiuridica. Ciò porta ad inestricabili problematiche di ordine cognitivo per rendere compatibili tali ruoli, con buona pace per gli assunti dogmatici che vogliono il giudice, sempre e comunque, esente da contraddizioni ed errori mentali, diversi da quelli patologici preveduti dal codice come cause di impossibilità a svolgere la funzione (da cui le quasi insignificanti regole sull’astensione e la ricusazione).

Luca D’Auria

“Fatti (non) foste a viver come bruti”

Il titolo è deliberatamente preso in prestito dalla Divina Commedia, canto ventiseiesimo, località Inferno.
Non è mia intenzione analizzare Dante, né sviscerare ulteriori chiavi di lettura dalle sue opere, mi è semplicemente balzata agli occhi quella frase pronunciata da Ulisse per esortare i compagni, rientrati in patria dopo le mille peripezie degne di un’Odissea, a intraprendere l’ultima impresa: attraversare le Colonne d’Ercole e violare così i confini del mondo.

«O frati, che per cento milia
perigli siete giunti a l’occidente,
a questa tanto picciola vigilia
d’i nostri sensi ch’è del rimanente,
non vogliate negar l’esperienza,
di retro al sol, del mondo sanza gente.
Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza»¹.

Leggere e rileggere quella frase, estrapolata totalmente dal suo contesto e dalle dinamiche narrative, mi ha convinto dell’esatto contrario.
Noi siamo nati come “bruti”, e dobbiamo prenderci la responsabilità di ammetterlo.

Viviamo in un mondo dove sempre più spesso cerchiamo di scindere ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, ciò che è bene e ciò che è male, cosa si può e cosa non si può fare/dire/vedere.
Ci allontaniamo dall’oscurità per abbracciare la luce che avvolge le cose immacolate, senza renderci conto della cecità che il fulgore provoca, senza capire che la penombra non è sinonimo di ambiguità ma strumento per vedere meglio le cose.

“Bruto” vuol dire privo di ragione, violento… e noi di natura spesso lo siamo, non solo fisicamente, ma anche verbalmente e, negli ultimi anni, virtualmente.
Il web è il ricettacolo di commenti cattivi, ma sono lo specchio di ciò che, almeno a parole, vorremmo fare: “Se ci fossi stato io”, “Se ci fosse stato lui”, “Io avrei fatto così”; o vorremmo essere: “Se io fossi il capo del mondo”, “Se fosse successo a me”.
Queste frasi-matrice, state pur certi, undici volte su dieci si completano con una sorta di piccola apocalisse, o una vendetta stile Rambo.

Inizialmente davo colpa alla sola ottusità, ma scavando più a fondo mi sono reso conto che tutto ciò avviene per scarsa conoscenza della violenza stessa.
Pensiamo, crediamo, vogliamo, facciamo finta di essere violenti perché non sappiamo cosa voglia dire violenza, non perché non esista, ma perché è argomento tabù.

Negli ultimi vent’anni abbiamo passato il tempo a prevenire, a proteggere, ad evitare, abbiamo insomma contribuito piano piano a costruire, attorno al nostro piccolo mondo di benessere, una sorta di muro ovattato che ci impedisce di vivere la realtà così com’è.

Tutto molto bello, tutto molto pericoloso.

Succede infatti, che ad un certo punto, qualcuno o qualcosa, quel muro d’ovatta riesce a sfondarlo: ultimamente ci sono riusciti gli attentati terroristici.
Il terrorismo è sempre esistito, l’Italia ne sa qualcosa: la quantità di piombo sparso sulle strade ha dato il nome a un decennio, eppure è solo oggi che raggiungiamo punte di panico incontrollato per il primo bagaglio non custodito lasciato in un luogo pubblico.
E’ solo oggi che leggiamo, complice un giornalismo sensazionalistico irrispettoso, di finte bombe disinnescate dagli artificieri solo per sentirci più sicuri.

Non sto suggerendo di rimanere indifferenti davanti al male, sarebbe comunque un mattone ovattato in più, ma di riscoprirne l’esistenza, e risulta estremamente necessario, vi spiego il perché.

Il parallelismo è azzardato, ma avete presente come funziona lo schema di una fiaba?
C’è un protagonista “buono” e un antagonista “cattivo”; il buono verrà messo alla prova dalla vita stessa che lo farà precipitare in una condizione difficile, ma solo così potrà forgiare il suo spirito per poter sconfiggere il cattivo.
Oggi è come se avessimo esiliato nel dimenticatoio i cattivi – perché diseducativi, portatori di disagio al bambino ecc. – per rendere felici i protagonisti di una storia che si concluderebbe a pagina 2, senza aver lasciato nulla di consistente al lettore.

Abituarsi alla nostra natura di “bruti” infine non ci condanna ad esserlo per sempre, non ci autorizza a compiere danno contro altre persone, può servirci a conoscere meglio ciò che siamo, a capire quali sono i nostri limiti per poterli superare.
Può aiutarci a decidere cosa vogliamo o non vogliamo diventare.
Solo in questo modo, secondo il mio punto di vista, possiamo maturare.

Alessandro Basso

[Immagine tratta da Google Immagini]

NOTE:
1. Divina Commedia, Inferno, Canto XXVI, vv.112-120

+HUMANS A Barcellona in mostra il futuro (possibile) della nostra specie.

La bioingegneria creerà una nuova razza umana? Che superpotere ti piacerebbe avere? La realtà virtuale sarà la nuova realtà? La longevità: un’aspirazione magnifica o una minaccia terribile per il pianeta?

Queste e altre domande accompagnano lo spettatore lungo le varie sezioni dell’esposizione +HUMANS (mès humans in catalano, più che umani), sottotitolo El futur de la nostra espècie, già da ottobre in scena al CCCB, il centro culturale della città di Barcellona, nel quartiere del Raval, e che rimarrà aperta fino al 10 Aprile. Non rimane molto tempo certo, ma se si ha in programma un weekend nella capitale catalana vale una visita. Questa però non vuole essere una recensione o non solo, perché questa non è arte, o non solo. Infatti la mostra prende le mosse da un’ esigenza trascendente l’arte e si inserisce in un discorso sempre più sfaccettato e ampio: il rapporto prossimo venturo (e ovviamente contemporaneo) degli uomini con la tecnologia, ma si potrebbe dire tecnica.
Ecco allora che grazie alle opere di più cinquanta artisti, molte interattive (una su tutte da provare la camera rallentata), e con alcuni laboratori per adulti e bambini, il visitatore si trova immerso per un paio d’ore in tantissimi scenari futuribili, in cui ogni opera cerca di rispondere alle domande di cui sopra o di porne della altre; ma tutte ruotano intorno a una riflessione: saremo umani nel futuro? E lo siamo ancora o non lo siamo già più grazie o per colpa di tutti i dispositivi che oggi utilizziamo giornalmente e che ci fungono da prolunga e proiezione del nostro essere uomini.

Nel complesso sono vari gli obiettivi che un’esposizione del genere si pone: informare certamente sulle nuove trovate e possibilità delle scienze, dalla medicina alla chirurgia estetica, all’ingegneria biomedica.
La prima sala si concentra sugli strumenti che l’uomo (praticamente da sempre) ha creato per adattarsi al mondo circostante e sopperire alle sue carenze. Questa sezione va dalle ali di Icaro e varie macchine per volare al mondo delle protesi e agli strumenti per aumentare i nostri sensi (c’è un apparecchio che simula l’udito dei pipistrelli) e le nostre capacità, in cui campeggia la domanda fondamentale: dalle lenti al pacemaker, siamo già tutti dei cyborg?
E poi naturalmente c’è l’intento di provocare: un’intera parete è costellata di teschi bionici i cui occhi sensibili al movimento umano seguono incessantemente chi gli si avvicina. Menzione speciale anche per le opere di Neil Harbisson, artista che si autoproclama cyborg e lotta per i diritti di questi, fino alla bellissima e sorprendente trovata del progetto (tra scherzo e realtà) di una montagna russa eutanasica con cui mettere fine ai propri giorni per ipossia, in modo molto adrenalinico e con un ultimo istante di piacere. Lascia abbastanza straniti anche la sezione riguardante il sesso e la riproduzione, che mostra come sia già in commercio un test che permette di calcolare il livello di compatibilità tra due individui grazie alla comparazione dei loro DNA, e determinando quindi se siano adatti o meno alla formazione di una coppia e di una famiglia, sconcertante, ma tutto vero. Inoltre il romanticismo sembra giunto veramente ad un punto di non ritorno se si guardano i congegni messi in commercio da un’azienda americana, con cui avere rapporti sessuali a distanza, via internet, con un partner.

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I grandi temi etici che ci mettono di fronte la tecnologia e la medicina, come eugenetica, fecondazione assistita, eutanasia, realtà aumentata, ci sono tutti, e ci vengono presentati senza alcun timore reverenziale e scavalcando molti tabù.
Come a dire che nessun invenzione o nuova tecnica è di per sé sbagliata e che qualcosa che oggi troviamo difficilmente concepibile tra cinquanta o cent’anni potrebbe salvare la specie, o esserne motivo di distruzione ovviamente. Il problema è nell’uso che se ne vuole fare. Lo spettatore è lasciato da solo a giudicare, ponderare e farsi un’idea.
Si oscilla continuamente e sapientemente tra scenari possibili e provocazioni che mettono a volte a dura prova il senso comune e l’etica consolidata, come l’artista che prospetta una migliore vita sulla Terra se l’uomo riuscisse a regredire fino ai 50 centimetri di altezza, consumando di conseguenza molta meno energia, in un certo senso una decrescita felice; oppure quando il visitatore viene messo al corrente che oltre a vegetariani e vegani esistono i breathariani, sedicente setta che crede di poter sopravvivere solamente grazie al nutrimento fornito da aria e sole. O ancora molto inquietanti sono le proposte di modificazioni estetico-funzionali da attuare su neonati nel primo loro periodo di vita.

Centrale è poi il tema della meccanizzazione della forza lavoro e della vita in generale, ben rappresentato, tra gli altri, dal braccio bionico che fa dondolare una culla: i robot entreranno sempre di più nelle nostre vite?
La mostra si conclude con il problema della longevità e della morte. Una cassa da morto che recupera l’energia chimica generata dalla materia in decomposizione e la convoglia in una batteria può essere un’idea, ma vengono anche toccati i rapporti sociali e familiari. Arrivare a vivere 150 anni cambierebbe il concetto di famiglia e generazione? Certamente si, le famiglie sarebbero più estese che mai e i rapporti parentali molto diversi e persino ironici, lo spiega un divertente album fotografico e un possibile albero genealogico.

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La mostra è complessa, anche se ben ripartita, e riesce a stupire e a volte a scioccare. Non sembra casuale che un’esposizione del genere abbia trovato casa a Barcellona, città che come poche riesce a coniugare passato e futuro, dal lato architettonico a quello delle nuove tendenze, sempre attenta all’innovazione tecnologica, dato che è anche la sede del Mobile World Congress, appena terminato e tanto discusso. Ne si esce con più dubbi che risposte, ma con tantissimi spunti di riflessione e con la convinzione che la strada che imboccheremo nel futuro più prossimo sia decisiva per determinare chi saremo e dove andremo, come uomini.

Tommaso Meo

[Copertina tratta da manifesto; immagini tratte da Google Immagini]

SELEZIONATI PER VOI: MARZO 2016!

LIBRI

Marzo è il periodo in cui l’inverno inizia a lasciare il passo alla primavera. Giornate dolci si avvicendano ad altre che profumano ancora di muschio e legna, sole e pioggia si alternano in un singolare passo a due, in cui i fiori più coraggiosi si schiudono tra le pozzanghere.

Contrasti fatti di luci e ombre, contraddizioni della natura che mettono radici dentro di noi, evidenziando la dualità della vita e dell’animo umano.

I titoli che vi consiglierò parlano di antinomie, di contrapposizioni, di bianco e nero che si fondono creando meravigliose, inquietanti e inaspettate sfumature di grigio.

61IoZNAMX9LFollia – Patrick McGrath

Stella Raphael è la moglie di un affermato psichiatra. Vive un’esistenza agiata e ordinaria, di madre e moglie accanto a un marito sempre troppo impegnato, una routine priva di stimoli e colori. Finché una pericolosa attrazione non si insinuerà nella vita di Stella. Un’attrazione che la condurrà verso Edgar Stark, artista detenuto nell’ospedale psichiatrico per uxoricidio. Una passione folle, bruciante, per la quale Stella sarà pronta a rischiare tutto, compresa la sua stessa vita.

Nurlovecento – Alessandro Baricco

Danny Boodmann T. D. Lemon Novecento non ha mai lasciato il Virginian, la nave sulla quale è nato. In trent’anni non ha mai percorso la passarella che avrebbe potuto portarlo a terra. Eppure, Novecento, sa suonare la vita. Scorrendo veloci sui tasti del suo pianoforte, le dita parlano, raccontano, emozionano. Novecento sa assorbire le storie dei passeggeri del Virginian, sa farle proprie, sa trasfigurarle in melodia. Ma rimangono pur sempre emozioni di seconda mano. Trovare il coraggio di abbandonare la rassicurante culla dell’oceano è un’altra storia. E’ un interrogativo quasi amletico: vivere o non vivere?

imgresL’amico ritrovato – Fred Uhlman

Hans, figlio di un medico ebreo, e Konradin, rampollo di un’aristocratica famiglia tedesca, stringono un’amicizia autentica. Un rapporto che nasce tra i banchi di scuola e si nutre di affinità, comprensione, sostegno fraterno. Finché l’orrore della Germania nazista non travolgerà il loro legame, schierandoli su opposte frontiere. In un mondo buio in cui sembra non esserci più posto per i sentimenti, potrebbe non essere troppo tardi per ritrovarsi.

Stefania Mangiardi

FILM

Sono ben 59 i film pronti a uscire nelle sale italiane durante il mese di marzo. Per gli spettatori si tratta di un’occasione unica per approfittare di uno dei periodi più ricchi dell’intera stagione cinematografica, con molti titoli interessanti che spaziano dalla commedia ai film d’autore, passando per tanti documentari dedicati alla musica. Abbiamo selezionato per voi i tre titoli più interessanti.

seleRoom – Lenny Abrahamson

Una delle sorprese più interessanti di questo 2016, premiato durante la notte degli Oscar con la statuetta per la migliore interpretazione femminile. L’attrice Brie Larson regala un valore aggiunto a questa storia che racconta il legame unico tra una madre e il proprio figlio all’interno di una stanza che diventa il vero mondo dei due protagonisti. Straordinari i due attori, ottima la regia e molto convincente la sceneggiatura. Un film che vi stupirà. USCITA PREVISTA: 3 MARZO

sele_1Ave Cesare! – Joel e Ethan Coen

Il nome dei fratelli Coen è diventato negli anni un sinonimo di cinema d’autore ad alto tasso qualitativo. Nel loro nuovo gioiello si divertono a raccontare i fasti della Hollywood del passato, unendo tra loro generi come la commedia e il giallo. Il cast è stellare, la regia impeccabile e la sceneggiatura vi farà ridere di gusto. In una parola: imperdibile. USCITA PREVISTA: 10 MARZO

 

sele_2Il condominio dei cuori infranti –  Samuel Benchetrit

Una commedia surreale e sociale che descrive la realtà nella sua desolazione e la riscatta attraverso la mobilitazione di un’umanità inattesa. In un condominio grigio delle banlieue parigine si intrecciano le storie di molti personaggi al limite del surreale, in una vicenda che sa unire divertimento e riflessione con grande intelligenza. L’ottimo cast (Michael Pitt, Isabelle Hupperte Valeria Bruni Tedeschi) rende il tutto ancor più godibile. USCITA PREVISTA: 24 MARZO

Alvise Wollner

Punto Cinema – And the Oscar goes to…

La notte degli Oscar di Los Angeles è l’Olimpiade del mondo del cinema. Innanzitutto, perché è l’evento più atteso dai fedelissimi e al tempo stesso il più seguito dai tifosi “occasionali”. Quasi tutti, in entrambi i casi, vogliono dare uno sguardo al medagliere, giusto per sapere com’è andata. Quasi tutti vanno a rivedersi i video della cerimonia di apertura, o dell’opening al Kodak Theatre. Molti, prima dei due eventi, si lanciano in una delle attività preferite dagli amanti delle competizioni: i pronostici. Qui però la similitudine finisce, perché sebbene sempre di competizioni si tratti, è relativamente semplice misurare la velocità o la distanza, mentre un metro per misurare il “Miglior attore non protagonista” ancora – che io sappia – non lo abbiamo inventato. Dunque, laddove siamo sicuri che chi salterà più in alto durante la gara vincerà la medaglia d’oro, non siamo invece per nulla certi che il vincitore dell’Oscar a “Miglior film” sarà il miglior film dell’anno (in fondo, cosa ci dice obiettivamente qual è il miglior film dell’anno?).

Quindi, intendo cogliere l’occasione degli ormai prossimi premi Academy Awards 2016 per parlare dei tanti film in corsa, e quindi nelle sale (alcuni già usciti in Italia, altri no), e intendo anche esprimere da buon appassionato di sport i miei pronostici, come giocassi una schedina: quindi osservando la regola per cui non è sempre la squadra più forte a vincere la partita.

Iniziamo con i film in corsa per la medaglia d’oro: “Best Picture”. Ho davvero apprezzato tutti gli otto film candidati, e avrò modo di parlare di tutti, ma bisogna ammettere che questa è sostanzialmente una gara a due. Infatti bisogna tener presente una cosa: nell’ottica degli Oscar il miglior film non è quello con la trama migliore (per quello ci sono i premi alla sceneggiatura), né quello girato meglio (premio alla regia e premi tecnici), né quello meglio interpretato (premi agli attori). Il miglior film è in sostanza, alla luce dei precedenti, quello che riesce a tenere meglio insieme tutti questi aspetti, senza eccellere in uno di essi tralasciando gli altri. Se teniamo presente questo, è inevitabile che i film con più candidature in assoluto siano i favoriti alla vittoria del “Miglior film”. Quest’anno è il caso di “The Revenant” (12 candidature) e di “Mad Max: Fury Road” (10 candidature). Messa in questi termini, il livello sembra decisamente inferiore rispetto all’anno scorso, dove i due sfidanti (con 9 candidature a testa) erano due capolavori assoluti come “Birdman” e “Grand Budapest Hotel”, tuttavia è giusto considerare la passata edizione come particolarmente fortunata in termini artistici, quasi straordinaria, quindi è logico che il paragone possa spaventare. Ma entriamo nel merito del discorso e parliamo di Revenant. Indubbiamente il film più atteso dell’anno, se non altro perché il suo regista, scrittore e produttore –  Alejandro González Iñárritu – l’anno passato ha fatto doppietta con “Birdman”, vincendo “Miglior Film” e “Miglior Regia”. Il ruolo di protagonista interpretato da Leonardo Di Caprio non ha aiutato a smorzare le aspettative. Volendo riassumere il mio giudizio in una frase, direi che il film è tecnicamente perfetto e interpretato magistralmente, ma manca completamente di trama. La storia infatti è lineare e scontata, con una sceneggiatura senza infamia né lode e nessuna profondità di contenuti. Secondo il mio gusto personale, questi sono gli aspetti più importanti in un film, quindi sicuramente The Revenant non è il film che ho preferito nell’ultimo anno. Tuttavia resta un film davvero ben fatto, e sono assolutamente convinto che vincerà (meritatamente) i premi alla “Miglior Fotografia” (il pezzo forte dei film di Iñárritu), al “Miglior Sonoro” e al “Miglior montaggio sonoro”. Credo che vincerà anche “Miglior Film”, garantendo a Iñárritu in fantastico tris in due anni (2 film e 1 regia), ma a rovinare i sogni di un poker che avrebbe dell’incredibile quest’anno c’è George Miller, alla regia di Mad Max: Fury Road: sul podio dei registi quest’anno salirà lui. Mad Max è un film bellissimo, a tratti geniale (il chitarrista che suona metal appeso davanti al camion da guerra e Tom Hardy attaccato davanti alla vettura d’assalto come una polena sul vascello valgono il prezzo del biglietto), girato in maniera perfetta. La mancanza di trama risulta essere giustificata dal genere di film – azione, post-apocalittico – e l’ambientazione, le scenografie e il ritmo incalzante tengono lo spettatore attaccato allo schermo dall’inizio alla fine. Non vincerà il Miglior Film perché manca di profondità e di interpretazioni memorabili, ma si assicurerà un buon bottino tra Regia, Montaggio, Scenografia, Costumi e Trucco.

I premi alla sceneggiatura sono forse quelli che mi stanno più a cuore, poiché ovviamente guardano al contenuto del film, alla profondità della trama e alla struttura dei dialoghi. Quest’anno i vincitori in queste categorie sono quasi scontati, e sono due dei più bei film in concorso fuori d’ogni dubbio. Alla “Sceneggiatura originale” trionferà l’eccezionale Spotlight, già presentato a Venezia lo scorso settembre e acclamato da pubblico e critica. Nulla da dire, un film bellissimo sulla più grande inchiesta giornalistica sul tema della pedofilia nelle gerarchie ecclesiastiche. Credo che nonostante le sei nominations trionferà solo qui, ma sostanzialmente senza rivali. Lo stesso discorso in sostanza vale per La grande scommessa (basato sull’omonimo libro di Michael Lewis), che con ogni probabilità vincerà il premio a “Miglior sceneggiatura non originale”. Il film sul grande crack finanziario del 2007/2008 infatti riesce a rendere avvincente un tema decisamente complesso, spiegando nel frattempo (in termini più o meno semplici) i passi fondamentali che hanno portato al crollo delle borse mondiali. Anche in questo caso credo che nonostante l’ottimo montaggio e la fantastica interpretazione di Christian Bale, il film trionferà solo nella categoria della sceneggiatura, sebbene i bookmakers lo propongano come outsider nella corsa a miglior film. Onestamente lo vedo difficile, però mai dire mai.

Chiudiamo infine con gli attori, ovvero la categoria che quest’anno sta già facendo parlare di sé più di ogni altra. Si, è l’anno di Di Caprio come “Miglior attore protagonista”. Ormai la pressione mediatica è tale che se non dovesse vincere sarebbe una vergogna, e se dovesse vincere sarebbe una vergogna che abbia vinto con questo film, oppure che abbia vinto solo perché non poteva non vincere. Insomma, compito infame quest’anno per la Academy. In ogni caso va detto che l’interpretazione di Leo quest’anno è davvero perfetta, soprattutto se letta alla luce della sua carriera. Vedendo il film mi chiedevo: ma questo ragazzo che striscia nel fango e nella neve, che pur dicendo 5 battute in tutto il film riesce a comunicare col solo linguaggio del corpo, che estremizza il concetto di espressività fino a diventare quasi teatrale, è lo stesso di “The Wolf of Wall Street”, di “Inception” e di “Shutter Island”? Fin qui però mi si potrebbe ribattere che questa estrema versatilità e il gran numero di interpretazioni memorabili possano al limite candidarlo per un Oscar alla carriera, ma non siano garanzia del fatto che vincerà il premio di miglior attore per quest’anno. E così infatti è sempre stato, se non che le circostanze che hanno sempre sfavorito Di Caprio quest’anno paiono invece a suo favore: non è un grande anno per gli attori protagonisti e il suo vero unico rivale è Eddie Radmayne in “The Danish Girl”, il quale ha vinto la statuetta già l’anno scorso interpretando Hawking ne “La teoria del tutto”. Per lui, anche quest’anno interpretazione estrema ed eccezionale, che personalmente preferisco a quella dell’attore di Revenant, tuttavia il fatto che abbia vinto l’anno scorso e il vento mediatico a favore di Di Caprio quest’anno lasciano pochi dubbi sul trionfatore nella categoria. “The Danish Girl” rimane un film stupendo, che vedrà trionfare una fantastica Alicia Vilkander come “Miglior attrice non protagonista”, anche se poteva benissimo concorrere come protagonista data l’importanza del ruolo e il tempo trascorso in scena. In ogni caso, la coppia Radmayne-Vilkander ha fatto centro, film da vedere! Sul versante maschile della categoria ci sono molti dubbi. Credo che Mark Rylance vincerà “Miglior attore non protagonista” per “Il ponte delle spie”, non solo per la magistrale interpretazione, ma anche perché non credo che il film di Spielberg che si presenta con sei candidature vada a casa a mani vuote – anche perché nonostante le molte critiche ricevuto lo ritengo davvero un buon film, per interpretazione e per contenuti. Sulla “Miglior attrice protagonista” invece non ho dubbi: Brie Larson per “Room”, bravissima lei e bellissimo film, probabilmente quello che ho preferito tra tutti i candidati. Vederlo è d’obbligo.

Per finire la schedina (quasi completa), aggiungiamo senza ombra di dubbio Inside Out come Miglior film d’animazione, e direi The Martian agli Effetti speciali (vedo difficile che il film con Matt Damon vinca da qualche altra parte, ma anche che non vinca nulla). Per quanto riguarda le musiche invece pare che Lady Gaga porti a casa la Miglior Canzone con “Til it happens to you”, più per il significato sociale e politico che per il merito musicale, che altrimenti andrebbe senza ombra di dubbio alla “Simple Song #3” del magnifico “Youth”, o quantomeno a “Writings on the wall” di Sam Smith per Spectre, che di certo non è bella quanto Skyfall ma resta uno dei pochi punti positivi dell’ultimo (orribile) film su 007. Infine, pare che l’Italia sarà rappresentata dal maestro Morricone alla “Miglior colonna sonora” per The hateful eight del maestro Tarantino – cosa che un po’ dispiace perché sebbene sia una buona musica e un film eccezionale, è un peccato che Morricone vinca il suo primo Oscar alla colonna sonora per dei pezzi su sua stessa ammissione “riciclati da vecchi lavori”. Comunque, per il gusto personale di chi sta scrivendo, un riciclo di Morricone-Tarantino è oro che cola.

Insomma, previsioni oggettive o scommesse del tifoso? Non ci resta che attendere qualche giorno per scoprirlo: 28 febbraio 2016, Kodak Theatre – Los Angeles, California – in una delle notti più magiche dell’anno.

Alessandro Storchi

IL SEMI-FREUD PECCAMINOSO

IL SOGNO

Sul tavolo davanti a voi risplende il disco di un semifreddo appena estratto dal congelatore. Imponente, solido (ma solo fino a quando non lo scioglieranno le vostre labbra), sormontato da una spiaggia di pistacchi, il semifreddo guida le vostre mani verso di sé. Il cucchiaino sta già per affondare il primo colpo quando alla vostra destra deflagra una luce accecante. Vi bloccate a bocca aperta mentre dal centro della luce cominciano a delinearsi i lineamenti di un uomo imbolsito, cinto da una cocolla nera, che, senza muovere alcunché se non le pupille, vi indica qualcosa sopra la sua spalla destra. Solo allora vi accorgete che nell’aria è sospesa una donna nuda intenta ad afferrare una mela da un albero spuntato or ora nella vostra cucina. Con un colpo di gola l’uomo richiama la vostra attenzione su un’altra scena che sta prendendo forma alla sua sinistra: una massa indistinguibile di uomini immersi nel fango viene vessata dalla grandine e dai latrati di Cerbero.

Spaventati da cotante apparizioni allontanate il cucchiaino dal semifreddo ed è a quel punto che l’uomo imbolsito comincia a sussurrare con voce severa: «Il peccato di gola non consiste nella materialità del cibo, ma nella brama di esso non regolata dalla ragione.» “Quale ragione?” vi chiedete disorientati ripensando alla totale istintività con la quale avete spalancato il congelatore. L’uomo prosegue come se volesse rassicurarvi: «Alla gola va attribuito invece soltanto questo, che uno ecceda nel mangiare per la brama di un cibo gradevole». “Eccesso?” vi domandate sempre più confusi, “Una fetta di semifreddo è sufficiente per raggiungere l’eccesso?” “No,” vi rispondete facendovi coraggio, “Una fetta andrà benissimo!”

Tornate a muovere il cucchiaino, ma avete perso la spensieratezza iniziale, sembra che qualcosa vi rallenti. Di colpo il casco di banane alla vostra sinistra comincia ad allungarsi e a prendere le sembianze di un signore pelato, con la barbetta bianca e due occhialini rotondi. Vi guarda in silenzio, il signore, come a dirvi “Perché lo fate? Perché lo fate davvero?” Balbettate tentando di motivare il vostro gesto, ma ecco che lui, dopo aver fatto un tiro di sigaro, emette una nuvola di fumo e dalla nuvola emerge un’immagine di voi da piccoli, immersi in una bacinella, con accanto vostra madre che vi insapona completamente nuda. Prima di scomparire il signore pronuncia soltanto due parole: «State sublimando».

Sebbene non vi sentiate più padroni delle vostre azioni e non vi muoviate per paura di deludere vostro padre, con un ultimo gesto di menefreghismo riavvicinate il cucchiaio al semifreddo. Ed è allora che davanti a voi, in piedi sul tavolo, compare una bionda muscolosa con indosso un body anni ’90 e degli scaldamuscoli. «Su le gambe!» vi urla con un forte accento americano, mentre sopra alla sua chioma si susseguono apparizioni di obesi che spingono il carrello della spesa tra le risa dei passanti.

A questo punto lasciate cadere il cucchiaino e vi accorgete che il semifreddo davanti a voi si è sciolto e non ne rimane che un pozza confusa su cui galleggiano degli scogli di pistacchio.

L’ANALISI DEL SOGNO

Quando, preparato il nostro semi-Freud, vi troverete a tu per tu con una simile trinità di peccato di gola/sublimazione inconscia/bomba calorica, ricordatevi che, almeno per questa volta, non dovete rendere conto a nessuno del vostro agire, né al Dio che vi può punire, né alle ombre della vostra infanzia nascoste nella profondità dell’Es, né al vostro io futuro ossessionato dal giudizio altrui.

Non siete in dovere verso niente.

Respirate a pieni polmoni e prendete il nostro semi-Freud come un inno alla più bella caratteristica della vita: la gratuità.

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Persone: 6

Tempo di preparazione: 40 minuti più una notte in congelatore

Difficoltà: media

INGREDIENTI

130 g zucchero semolato

36 g acqua

160 g tuorlo d’uovo

40 g pasta di pistacchio

60 g cioccolato fondente

400 g panna fresca

q.b. granella di pistacchio

PREPARAZIONE

Semi-montate la panna e riponetela in frigo. Mettete in un pentolino sul fuoco metà dell’acqua e metà dello zucchero e lasciate che si formi una specie di sciroppo (zucchero cotto): dovreste arrivare alla temperatura di 121° C. Nel frattempo iniziate a montare i tuorli con le fruste elettriche. Quando lo sciroppo sarà molto caldo, versatelo con molta attenzione nei tuorli che stanno montando e continuate con le fruste fino a che il composto non si raffreddi leggermente e diventi bianco opaco e spumoso (pate à bombe). A questo punto aggiungete con delicatezza la pasta di pistacchio fino a ottenere un composto liscio.

É ora di tirare fuori la panna dal frigo e amalgamarne metà nel composto, sempre mescolando dall’altro verso il basso per non far smontare il tutto.  Versate quindi il composto al pistacchio sulla tortiera scelta fino a circa metà della sua altezza e, se volete, cospargete con un po’ di granella di pistacchio la superficie. Riponete in frigorifero.

Ora ripetete la serie di operazioni precedenti per la parte al cioccolato: cuocete l’altra metà di acqua e zucchero fino a raggiungere i 121° C. Montate i tuorli e versate a filo lo zucchero cotto fino a ottenere la pate à bombe. Aggiungete il cioccolato fondente precedentemente fuso a bagnomaria e tiepido. Amalgamate l’altra metà della panna al composto. 

Infine versate il secondo composto nella tortiera, livellatelo nella parte superiore e infilatelo in congelatore per una notte.

Sformate il semifreddo su un piatto, decorate con la granella di pistacchi e servite da congelato.

Sdraiatevi sul lettino e gustate senza rimpianti.

Aristortele

Sito web: qui

[Immagini di proprietà di Aristortele]

Anima, corpo; carne, spirito : Griffin

I Griffin (Family Guy nel titolo originale), stagione dodicesima, puntata dodicesima: Stewie (un bambino a dir poco anomalo, per chi non lo conoscesse) scopre improvvisamente di essere, al pari di ogni altro uomo, mortale; l’idea, fino ad allora, non lo aveva neppure sfiorato.                                                                                                                                                                                                                                                                                   È il suo cane, Brian (che nella serie ricopre il ruolo dell’intellettuale cinico, materialista e ateo), a farglielo comprendere; al bambino che , sconcertato, gli chiede con ansia cosa ci sarà dopo la fine della vita, Brian risponde tranquillamente : “Niente, spengo la luce, tutto qui. Mi sembra abbastanza chiaro che siamo solo sacchi di carne e ossa. A un certo punto si decomporranno diventando cibo per vermi. Veniamo dal niente e torneremo ad essere niente, fine. Buonanotte, Stewie”.                          

Già quest’ultima affermazione (nichilistica) riguardo il “niente” mi strappa un sorriso: sarebbe divertente vedere Brian a colloquio con Parmenide a Severino riguardo l’ Essere e il niente; probabilmente, il nostro simpatico cane ne uscirebbe un po’ malconcio, stremato, con la famosa formula “L’Essere è e non può non essere, il non Essere non è, e non può essere” che gli martella la testa. Ma non è di questo che volevo trattare, anche se è molto pertinente al tema che stiamo per introdurre.                                                                                                                                                                                                                                                         Ora, io credo che una grande quantità di persone sarebbe disposti a sottoscrivere la dichiarazione di Brian; una grande maggioranza. Brian ha adottato una concezione della vita molto semplice, diretta e, a prima vista, razionale: noi uomini veniamo al mondo e compiamo le nostre vite esattamente come “sacchi di carne e ossa”, e non ha senso credere in un qualcosa di più, chiamato “anima”, che sopravviva alla morte terrena, perché la scienza non la può misurare, rilevare. “Io credo solo a quello che vedo”; ho sentito molte volte questa frase, che viene spesso interpretata come “la regola” scientifica per eccellenza (e certo anche qui ce ne sarebbe da ridire). Nella vita di ogni giorno, la nostra esistenza fisico-materiale è la nostra più sicura certezza, la prima evidenza, il non-dubitabile. Ciò vale solo ad un livello di riflessione elementare: la pura riflessione filosofica ci porta invece su strade molto diverse, dove questa sentenza non è semplicemente negata, ma del tutto ribaltata: La prima evidenza, l’in-discutibile non è il mio essere corpo, ma il mio essere pensiero: “Cogito ergo sum”. A questo risultato era arrivato Cartesio, il quale era disposto a riferirsi a sé stesso, secondo verità, almeno e solamente come sostanza pensante; altro che corpo.                                         Ho accennato a Cartesio anche per introdurre un tema caro alla tradizione della filosofia morale greco-medievale: il pensiero come tale e il suo rapporto con l’anima. Uomini come Pitagora, Platone, Aristotele, Plotino, Agostino, Tommaso d’Acquino smonterebbero in poche battute il nostro povero Brian, che, come molti altri, pretende una soluzione scientifica alla questione dell’anima; io chiaramente ci metterò di più, ma cercherò di essere più conciso e diretto possibile. Riassumendo molto, ma davvero molto, il pensiero che corre lungo questa grande tradizione è questo: chi, per conoscere, ha bisogno di smaterializzare, è a sua volta immateriale; il nostro pensare di uomini si riconduce e confluisce sempre nel Pensiero come tale, in ciò che Platone chiamava “idee”, e che Plotino chiamava “nous”; ciò è alla base della capacità umana del ragionamento astratto, come notava Tommaso riflettendo sul tema degli universali.            

Cosa vuol dire tutto questo? Semplicemente, c’è qualcosa di noi che, quando pensiamo, diviene ciò che pensiamo: come un fluido metafisico, immateriale, in grado di divenire qualsiasi cosa pensata, dotato della massima plasticità intellettuale. Cosa di noi diviene un quadrato quando pensiamo la figura geometrica? Eppure quell’immagine ci appartiene, è in qualche modo noi. Il pensiero sta nella testa? Ha un luogo fisico? È fisico? Quando penso l’idea di “uomo”, non mi trovo certo un prototipo umano nel cranio; semmai, nel pensiero. A questo proposito Aristotele rilevava nel De Anima che “L’anima è in qualche modo tutte le cose”.                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                    A questo punto Brian mi obietta che il pensiero è perfettamente comprensibile con la sola scienza: che è il cervello a pensare, e che non c’è bisogno di ricorrere alla metafisica per spiegarlo; che “il pensiero sta nel cervello”, come dicono in moltissimi quando si parla di questi delicati temi. Ma io rilancio, gli dico che non ha senso parlare della collocazione fisica del pensiero: che valore, che significato dai alle parole quando dici “pensiero-nel-cervello”? il cerchio come tale è solo un’idea: per definizione, nella realtà materiale non esiste nulla di così perfetto; se pensi un cerchio, lo materializzi? Lo trascini nel dominio degli enti materiali? No, impossibile. Eppure tu usi il cerchio se fai geometria, come pensi in astratto ogni sorta di idea quando rifletti. Tutto questo accade, ma non si può dire che accada fisicamente. Non è già qualcosa di materiale che stiamo indagando qui, non è più qualcosa di misurabile dalla scienza; semmai, dalla logica.

Per quanto l’immaterialità, la non-fisicità siano proprietà del tutto atipiche, dobbiamo riconoscerne la validità; e l’anima, come le idee e il Pensiero, sembrano avere vita proprio in questa strana “a-dimensione” di non-spazialità, non-temporalità.                                                                                                                                                                                                                                                                                                                               Ecco, ora Stewie si è già addormentato, dorme tranquillo. Brian è assonnato, decidiamo di continuare il discorso in futuro; buonanotte Brian, ci vediamo…

Alessio Maguolo                                                                                       

Il mio supereroe sei tu – Anna di Niccolò Ammaniti

C’è un’epidemia di quelle che ti succhiano via la vita, di quelle capaci di lasciare al mondo solo dei bambini se è vero che non si diventa adulti semplicemente quando a morire sono i tuoi genitori.
In una Sicilia proiettata in un 2020 desertico, l’umanità è in via d’estinzione perché la “Rossa” macchia a morte chi si trascina gli ormoni della maturità. Anna, la protagonista-bambina del romanzo, è dunque votata alla sopravvivenza insieme al fratellino Astor, l’amico Pietro e un cane di nome Coccolone. L’imperativo è quello del “bisogna farcela” in qualsiasi luogo e condizione, perché fermarsi è concesso solo a chi sale, non a chi scende. È un viaggio pieno di avventure quello di Anna che oltre ad avere il compito di insegnare la lettura al fratello e di salvarlo quando verrà rapito dai “bambini blu”, cerca disperatamente di uscire dalla Sicilia perché forse, oltre l’isola, c’è una cura.
Scritto con l’arte visionaria propria di chi abbandona la normalità perché sa troppo di presente, Anna è un romanzo che romba da solo perché nelle inconsapevolezze dei bambini si annidano e si sciolgono naturalmente i problemi etici dell’esistenza. Case abbandonate o bruciate, autostrade, gruppi di ragazzini che si comandano a vicenda, animali randagi e incattiviti, la pesca pericolosa di un polipo e una traversata in mare sono gli elementi essenziali di questa distopica e curiosa narrazione. E non viene da storcere il naso quando ad un certo punto c’è un rave-party della speranza, celebrato in una Spa defunta, dove due bambini capibanda hanno fatto credere che ci si può salvare dalla “Rossa” prima di entrare nell’adolescenza. Né ci coglie totalmente impreparati quel lungo e affollato pellegrinaggio di piccoli cuori che, idioti e completamente abnegati da una credenza-Ikea, corrono per celebrare e bere il sangue (o ingoiare le ceneri) di una finta santa tutta particolare inventata per l’occasione e chiamata la Picciriddona nella speranza di raggiungere l’immunità dall’epidemia.
Quello che leggiamo è l’ultimo libro di Ammaniti, scrittore pop che ci ha abituato ai tentacoli di immagini vivide, forti, quasi si tratti di un fumetto dai ritmi accelerati.
Particolarmente significative sono le pagine nelle quali si costruisce il legame tra Anna ed Astor, nel reciproco tentativo di correggersi per restare a galla, perché nessuno si salva da solo. Sulla scia di altri suoi romanzi precedenti come “Io e te” o “Io non ho paura”, questa storia non vuole essere un romanzo di formazione alla Golding o alla Dickens (sebbene ci siano delle somiglianze) quanto piuttosto un continuo alternarsi di squarci spasmodici tra visioni apocalittiche e diaboliche, e riflessioni sulla vita e sulla morte. Sopra tutto, la certezza che, in maniera forse un po’ prevedibile, alle volte essere un fratello è ancora meglio che essere un supereroe.

Luzia Ribeiro da Costa

La salute, un concetto difficile da definire e comunicare

Nel contesto della nostra vita quotidiana la parola salute rappresenta uno dei vocaboli che pronunciamo e sentiamo proferire maggiormente dagli altri. Generalmente siamo convinti che tale termine significhi e designi un concetto chiaro ed estremamente facile da individuare e riconoscere. Ad esempio, basti pensare al fatto che se avvertissimo un qualunque tipo di scompenso vitale (malattia) non sosterremmo di essere in salute, viceversa se trovandoci all’interno di un perfetto equilibrio vitale che ci consente di perpetuare tutte le nostre attività quotidiane riteniamo di essere in salute. Questa semplicissima evidenza si complica quando vogliamo comunicare il nostro stato o divulgare lo stesso agli altri, infatti, chi di noi non si è mai sentito stanco, “giù di morale” e quindi, pur non riuscendo ad identificare nessun punto biologicamente determinato e localizzabile (ovvero di facile comunicazione) non si sarebbe definito in salute? Oppure chi, pur provando dei lievi malesseri che non lo fanno sentire in salute, è riuscito ad identificare e a comunicare agli altri il suo status senza per questo essere definito una persona lamentosa, non degna di essere considerata come priva di salute?

Da queste banali osservazioni possiamo capire come il concetto di salute porti con sé una difficoltà estrema ad essere sintetizzato in parole semplici e comunicabili perfettamente agli altri, non è un caso che la natura stessa della comunicazione e dunque dell’identificazione del significato di tale termine abbia da sempre, sin dall’antica Grecia, portato con sé una marea di quesiti etico-esistenziali che trovano forma ed oggetto nella filosofia. Il problema fondamentale che più ha alimentato le riflessioni attorno a questo tema è quello di determinare se il concetto di salute corrisponde unicamente all’assenza di malattia, riducendo di fatto il nostro vivere ad un puro modello meccanico nel quale esistono delle falle che bisogna continuamente riparare, oppure se esso si riferisca ad un qualcosa che prescinde dalla sola disfunzione biologica e si rifà ad un contesto storico-biologico-sociale che determina i modi stessi con i quali il soggetto sostiene di essere in salute.

Il primo modello preso a riferimento, che potremo chiamare modello meccanico, sostiene che esistano delle evidenze di funzionamento dei corpi che sono propri di ogni specie, dunque ritiene che sia definibile come sana una persona che “funziona” secondo le modalità proprie della specie umana, viceversa se un individuo non rispetta queste condizioni è definibile come malato. Un chiaro esempio può essere rappresentato dalla capacità di camminare, in quanto se è normale per un essere umano camminare, qualora tale situazione non avvenga in un soggetto, esso è malato e quindi non godo uno stato di piena salute. Potremo, dunque, sinteticamente affermare che il modello meccanico considera la salute come pura assenza di alterazioni organiche. In maniera totalmente differente il secondo modo d’intendere la salute, che potremo definire olistico, sostiene che una malattia non può essere intesa come sola alterazione organica, ma deve essere percepita come alterazione di un equilibrio esistenziale. Risulta chiaro che per tale teoria la definizione di salute prescinde dalla sola identificazione delle lesioni organiche e ha a che fare con la dimensione personale e soggettiva con la quale un individuo vive ed esperisce se stesso nel mondo. Se il modello meccanico ha avuto una grossissima diffusione nel ‘700 e nel ‘800, verso la metà del secolo scorso l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha codificato una definizione di salute, a cui tutt’ora ci riferiamo, che sposta l’accento su una definizione olistica, infatti la salute si deve intendere per l’OMS come:“uno stato completo di benessere fisico, psichico e sociale, e non come una mera assenza di malattia o infermità”.

Si può cogliere, da questa definizione, come oggi il concetto di salute non rappresenti un dato totalmente oggettivabile, ma si presti ad una serie molteplice di interpretazioni che spostano lo stesso da un universale oggettivo ad un elemento modificabile e plasmabile da chiunque riesca a comunicare in maniera efficace la propria idea di salute agli altri. Dunque, con la dissolvenza del concetto di salute quale identificazione del perfetto equilibrio biologico dell’uomo e con l’apertura all’interpretazione esistenziale di tale concetto si è imposto un modello attraverso il quale comunicare e trasmettere differenti aspetti o approcci del concetto stesso di salute diventa uno degli elementi fondamentali che costituiscono l’orizzonte concettuale e medico che stabilisce l’idea che noi ci plasmiamo di cosa voglia dire essere sani. La rubrica che proponiamo mira, già dal prossimo articolo, a individuare e a dar luce a diverse strategie comunicative che sul web, sui giornali o per voce dei professionisti che si occupano direttamente di salute o di ricerche attorno ad essa, si sono attuate e si attuano al fine di porre il concetto di salute al centro del proprio messaggio.

Francesco Codato