La nostalgia di un passato sbiadito in Milan Kundera

La scrittura di Milan Kundera (Brno, 1929), autore ceco naturalizzato francese, è intrisa di filosofia e riflessioni su temi disparati: memoria e tempo, per esempio, costellano diverse sue opere, tra cui L’ignoranza. Kundera ci racconta la fragilità e precarietà della memoria, dovute al fatto che i ricordi possono diventare nebulosi, e tratta della relatività del tempo e della nostra percezione di esso, che non è lineare come il suo scorrere. Come Henri Bergson afferma, il tempo viene percepito in modo differente dalla nostra coscienza in base alle nostre emozioni, ovvero, per citare Sant’Agostino, il tempo è distensio animi, è il nostro far esperienza delle tre dimensioni di passato, futuro e presente.

Il passato, con cui si confrontano i protagonisti del romanzo, non è limpido come il presente, ma può frammentarsi e assumere sempre più opacità. In un testo dedicato al nostos, al ritorno in patria, come L’ignoranza, Kundera fa riferimento ad Ulisse, eroe della nostalgia (nostos=ritorno, algos=dolore), dato che, seppur lui non ricordasse quasi nulla della sua Itaca, ne sentiva la mancanza. I ricordi non sopravvivono se noi non li alimentiamo, ma devono essere evocati continuamente per non perdere nitidezza: tuttavia, la nostalgia non cessa allo sbiadire del passato. Per questo, più Ulisse viveva lontano dalla sua Itaca, più la dimenticava: la sua nostalgia, invece, cresceva. La nostalgia, dunque, basta a sé stessa.

Quando Ulisse torna a Itaca, i suoi conterranei gli raccontano le vicende accadute nei dieci anni della sua lontananza, convinti che nulla gli interessi più della sua amata terra: eppure non è così. Lui a Itaca aspetta solo che gli venga chiesto di raccontare la sua storia. Questo accade anche a Irena, protagonista del romanzo di Kundera sopracitato: «Non ci interessiamo alla vita degli altri, ma in assoluta innocenza. Non ce ne rendiamo neanche conto». E le si risponde: «È vero. Solo chi torna in patria dopo una lunga assenza può cogliere questa verità: nessuno si interessa alla vita degli altri ed è normale».

Ciò che Ulisse spera non gli viene invece chiesto, poiché si crede di sapere già tutto di lui, di poter conoscere la sua intera esperienza in quanto simile, in quanto compatriota, in quanto uomo. Chi, invece, è in esilio prova, come abbiamo già visto, nostalgia dovuta al desiderio inappagato del ritorno alla propria casa. Kundera ci fornisce più traduzioni di nostalgia: gli spagnoli dicono añoranza, termine legato al latino ignorare, poiché la nostalgia è sofferenza dell’ignoranza (se tu sei lontano, io non posso sapere cosa ne è di te); i cechi usano il sostantivo stesk, che crea anche la commovente frase styská se mi po tobe (non posso sopportare il dolore della tua assenza); in tedesco troviamo Sehnsucht, desiderio di ciò che è assente, sia che sia stato, sia che non sia mai stato. Qualsiasi traduzione consideriamo, la nostalgia si alimenta da sé, e non è attenuata dall’ignoranza: anche l’oblio, seppur si contrapponga alla memoria, può alimentare il nostro animo, esattamente come accade a Tamina ne Il libro del riso e dell’oblio. Suo marito è morto, il suo ricordo sfuma quotidianamente e lei, rendendosene conto, si impegna quotidianamente ad alimentare il suo anelito, la sua Sehnsucht, guardando la foto di suo marito:

«Ogni giorno faceva una sorta di esercizio spirituale con quella foto: si sforzava di immaginare il marito di profilo, poi di semi-profilo, poi di tre quarti. Ripeteva dentro di sé la linea del suo naso, del mento, e ogni giorno constatava con terrore che quel ritratto immaginario aveva nuovi punti discutibili in cui il pennello della memoria vacillava».

L’immagine del marito le sfugge dalle mani, il passato è destinato a sbiadire; eppure, lei si sforza di alimentare la nostalgia: sofferenza dell’assenza, tenerezza dell’amore perduto.

 

Andreea Elena Gabara

[immagine tratta da Unsplash]

la chiave di sophia 2022

 

L’esperimento sociale della bombetta

La psicologia ci dice che mediamente impieghiamo dai sette secondi fino a quattro minuti per costruire un’idea della persona che ci sta di fronte. Tu quanto ci metti? Sicuramente ti sarà capitato di impiegarci quell’indicazione minima, quei brevissimi sette secondi all’interno dei quali pensi di aver capito tutto del comportamento, del carattere e delle intenzioni del tuo interlocutore. In un lasso di tempo così ristretto è impossibile cogliere la vera essenza di una persona (inutile dirlo), eppure inconsciamente ci costruiamo delle idee, delle immagini mentali che con forza si impongono nel nostro sguardo verso qualcuno. Il primo impatto si fa così pesante e determinante che spesso facciamo fatica ad essere noi stessi, tendiamo a presentarci al meglio delle nostre possibilità tra linguaggio del corpo ed abbigliamento. Quanta superficialità viene permessa! Quanto terreno che viene conquistato dall’apparenza! Un completo elegante, un viso curato, un orologio di classe al polso pronto a mostrarsi in una stretta di mano. Siamo tutto questo? Sei solo questo? La risposta deve essere “No!” in nome dell’amor proprio.

«Tu non sei il tuo lavoro. Non sei la quantità di soldi che hai in banca; non sei la macchina che guidi né il contenuto del tuo portafogli. Non sei i tuoi vestiti di marca».

Lo afferma Tyler Durden nel romanzo Fight Club di Chuck Palahniuk; forse un po’ banalmente, si potrebbe controbattere. Eppure ci vestiamo di un habitus non nostro, improprio per quel che possiamo davvero mostrare, lo indossiamo e lentamente lo diventiamo. È un’etichetta, un costrutto che non si genera a partire da noi, bensì da una vox populi che si presenta come verità, come via corretta da intraprendere in massa. Il risultato che ne consegue è un non-essere, o meglio una via di mezzo tra quello che essenzialmente siamo e ciò che non è assolutamente parte di noi. Siamo e non siamo allo stesso tempo, una sottile contraddizione che va a minare l’iscrizione sul tempio di Apollo a Delfi «gnōthi sautón» ovverosia conosci te stesso. Se mi faccio carico di un comportamento, di un essere tramandato dalla società, da un qualcosa di altro da me, annichilendomi e togliendo ciò che sono, la conoscenza di me viene assolutamente deviata. La mia essenza verrà data e presentata in modo eteronomo, non più autonomo direbbe Kant, divenendo secondo una volontà altrui, un’influenza esterna.

La verità è che non facciamo realmente ciò che vogliamo, non siamo veramente chi vorremmo essere, assoggettandoci ad una massa capace di includerci, inglobarci e farci omologare. Grandi marche, mode preimpostate, salotti ed interi appartamenti preimpostati. Formazione unilaterale, sempre più iper-specializzata, dalle tabelline all’ingegnere scontento, dalle bocciature al lavoratore manovale sottopagato. Anche la scuola stessa, un percorso obbligatorio, almeno in parte, ci conduce verso una via che si fa sempre più strettoia, sempre più povera di possibilità, di potenzialità secondo l’accezione della dynamis. Il lunedì inietta una prima dose di insoddisfazione, di lamentela generale da maturare sempre di più nel corso della settimana, il tutto in attesa di un sabato sera o di una domenica allo stadio per sfogare tutto quel risentimento, in realtà, diretto verso noi stessi, per non essere davvero sereni, per non essere noi stessi e felici. Il libero arbitrio crolla sempre più sotto il peso di questo parole, il tempo si fa Grande Inquisitore, ogni soggetto si rivela assassino di se stesso, della propria essenza. È una visione tragica, molto interpretativa, che non va posta come accusa al genere umano, come critica dall’alto di un piedistallo che non potrei proprio reggere, che non fa per me.

La soluzione, o meglio la confutazione da promuovere, può trovare ragione o almeno divertimento nel titolo di questo articolo. La bombetta a cui mi riferisco in realtà è solo un escamotage, una metaforica rappresentazione di un possibile atteggiamento. Uscire di casa con un bombetta in stile Charlie Chaplin o Hercule Poirot, poiché si presta bene per la propria assurdità e stravaganza agli occhi curiosi e giudicanti dei passanti, a meno che non ci si ritrovi in Inghilterra. Proprio ritornando da Londra, mi resi conto di quale cambiamento di sensazione poteva esserci nell’andare in giro con una bombetta, passando da un contesto all’ altro. L’obiettivo, però, è arrivare all’ indifferenza rispetto al contesto, slegarsi dalla dipendenza del giudizio, o meglio, del pregiudizio altrui, rivelandone il peso assolutamente inconsistente. Il risultato non può che essere un alleggerimento esistenziale, una leggerezza pari a quella che descrive Kundera ne L’insostenibile leggerezza dell’essere, promuovendo se stessi come essere che corrisponde realmente alla sua essenza ultima.

Dunque, come esperimento, la prossima volta che uscirai di casa prova ad esser davvero chi vorresti essere, vestiti dell’habitus che senti davvero tuo, prova ad indossare la bombetta anche solo per un giorno.

Alvise Gasparini

 

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