La soggettiva oggettività della bellezza

Quando ci sorprendiamo catturati dallo spettacolo della natura o dai capolavori dell’arte e ci ritroviamo a fissare con uno scatto fotografico la sensazione di piacere che stiamo provando, siamo ben consapevoli di aver preso parte all’esperienza della bellezza. Eppure, se ci chiediamo: che cos’è la bellezza? ci ritroviamo prigionieri di uno strano paradosso; ci rendiamo conto che la bellezza sappiamo riconoscerla, ma non siamo in grado di darne una definizione precisa.
E come ad un bivio ci si presentano una serie di ulteriori domande nelle quali il pensiero si incaglia: bello è ciò che è bello oppure bello è ciò che piace? Ovvero, la bellezza è qualcosa di assoluto e oggettivo, che tutti riconosciamo allo tesso modo, oppure è relativa ai gusti personali di ognuno? E ancora: la bellezza risiede nell’oggetto che ci ha riempito gli occhi di stupore, oppure in noi stessi che siamo in grado di percepirla?

Cerchiamo di dipanare questi aut-aut, provando a descrivere cosa succede quando siamo partecipi dell’esperienza della bellezza.

Il filosofo Immanuel Kant, nella sua Critica del giudizio (1790), afferma che «chiamiamo bella una cosa per la sua proprietà di accordarsi col nostro modo di percepirla». In altre parole, diciamo bello quell’oggetto che avvertiamo in perfetta sintonia con il nostro gusto e i nostri canoni estetici.

Tante volte formuliamo giudizi estetici in linea con i nostri gusti personali, come quando, anche conformemente alla moda del momento, consideriamo bello e da noi preferibile, per esempio, un pantalone taglio sigaretta piuttosto che a zampa di elefante, il colore blu piuttosto che il rosso. Questa discrezionalità di scelta ci dimostra che la bellezza ha qualcosa di soggettivo in quanto è vincolata a noi, è condizionata dal nostro modo privato di percepirla e di viverla.
È possibile, però, percepire la bellezza anche in un modo “condiviso” e intersoggettivo, e questo può succedere nel momento in cui si verificano le condizioni per le quali la bellezza ci si mostra come qualcosa di oggettivo e assoluto, ovvero quando «la soddisfazione che determina il giudizio di gusto è disinteressata» (Kant, Critica del giudizio, 1997). In definitiva, quando l’alchimia che si sprigiona tra noi e l’oggetto contemplato non è condizionata dall’interesse materiale nei confronti di quell’oggetto.

Fruiamo della bellezza pura e assoluta quando il piacere estetico non scaturisce da alcuna previsione di utilità, né tanto meno da un principio morale o etico oppure da un’attrattiva o desiderio personali. E ciò si verifica quando, ad esempio, godendo della bellezza di un campo di biondeggianti spighe di grano, non penso al guadagno che ne posso ricavare, oppure quando, giudicando bello il dipinto La libertà che guida il popolo di Delacroix, prescindo dall’ideale etico e morale a cui mi esorta e ne ammiro semplicemente l’armonia, il perfetto e interiore accordo tra tutti gli elementi che lo costituiscono e il mio spirito.
Non è poi raro che, quando estasiata esclamo: “Che bello!” al cospetto della vista de La nascita di Venere di Botticelli, del Colosseo o ancora delle splendide spiagge della costiera amalfitana, mi aspetto di condividere la mia soddisfazione estetica anche con chi mi sta accanto, «pretendo il consenso d’ognuno, come se il piacere fosse oggettivo» (Kant, Critica del giudizio, 1997), come se l’esperienza della bellezza che sto vivendo, sia appunto qualcosa di assoluto, che valga allo stesso modo per tutti.

Allora, se la bellezza ha la capacità di suscitare, allo stesso tempo, uno stato di piacere che è sì privato, ma anche universalmente condivisibile, non si potrebbe definire la contemplazione della bellezza come un’esperienza intersoggettiva o “soggettivamente oggettiva”?
Non è forse vero che, quando ci troviamo in coda con tanti altri, al Louvre, per godere della bellezza del quadro più famoso del mondo, la Gioconda di Leonardo da Vinci, o quando a un concerto veniamo piacevolmente rapiti dall’ascolto del Chiaro di luna di Debussy, proviamo un’affinità con chiunque partecipi con noi al medesimo spettacolo della bellezza?

Il miracolo della bellezza ci fa riscoprire accomunati dal medesimo sentimento estetico e dalla medesima capacità di giudicare la bellezza. E questo succede perché, in realtà, la bellezza che pensiamo di ritrovare nella natura o dell’arte, non è altro che la bellezza che portiamo dentro di noi.
Nulla sarebbe bello se alcun uomo o donna non lo recepisse come tale, non solo perché nessuno si accorgerebbe della bellezza racchiusa, ad esempio, in un bocciolo di rosa che si schiude, ma anche perché quel bocciolo di rosa può essere giudicato bello solo dalla comunità umana, costituita da individui capaci del medesimo sentire e il cui animo è strutturato esattamente come il mio.

 

Maria Buonadonna

 

[Photo credit Léonard Cotte via Unsplash]

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Fiat mundus, pereat iustitia: sulla NATO e sull’Ucraina

Davanti agli occhi sconcertati e scandalizzati dell’opinione pubblica, una grande nazione ne assale improvvisamente una più debole, piegandola con la pura potenza militare in una serie di scontri brutali e chirurgici. Le altre potenze, infiammate da giusto sdegno… restano a guardare, minacciando ritorsioni, ammonendo, colpendo a suon di sanzioni rese inefficaci in partenza da dissidi e disaccordi e dalla accorta preparazione dell’invasore.

L’invasione in questione era quella della Polonia da parte della Germania nazista, nel 1939, ma potrebbe benissimo essere una cronaca degli ultimi giorni. Senza voler equiparare Vladimir Putin a Adolf Hitler, o la Russia contemporanea al Terzo Reich, i paralleli emergono evidenti.
Al netto dei retroscena e delle dietrologie, senza voler indagare, in una fase evidentemente precoce, le responsabilità della NATO o della Federazione Russa, senza rivangare la lunga storia di conflitto etnico e culturale nelle regioni di Crimea e Dombass (Ucraina), merita forse, in questo momento, focalizzarsi sulla (non) reazione della comunità internazionale e dell’opinione pubblica, dei non direttamente coinvolti. Sulla nostra reazione.

Come nel ’39, le avvisaglie del conflitto ci sono state, confermate da più fonti, ignorate da più parti. Come nel ’39, nessuno ha creduto fino in fondo che il leader autoritario di turno muovesse effettivamente guerra: ieri perché un sanguinoso e devastante conflitto si era appena concluso, oggi perché uno scontro militare su territorio europeo è considerato praticamente impensabile da oltre settant’anni (con buona pace dei Balcani). Come nel ’39, infine, le reazioni tardano ad arrivare e sono quasi simboliche, più emblematiche prese di posizione che non effettive scelte di campo, una voce grossa a volte sincera, mai incisiva.
Su una cosa tutti gli intervenuti sono d’accordo: non ci sarà un singolo soldato inviato al fronte, l’opzione bellica è civilmente esclusa. Ma neppure ci saranno sanzioni realmente efficaci, e neppure ci sarà un massiccio intervento diplomatico. I tentativi erano validi “prima”: una volta cominciato, tanto vale che finisca al più presto, possibilmente motu proprio.

Immanuel Kant, in Per la pace perpetua, aveva fatto proprio il motto asburgico Fiat iustitia et pereat mundus, ovvero “Sia fatta giustizia, perisca pure il mondo”. Nel rigido sistema razionale kantiano, la frase latina era un invito ai governanti a seguire una inflessibile morale deontologica, per la quale i principi morali erano superiori a ogni cosa, perfino alla vita umana. Per quanto un simile adagio massimalista sia evidentemente estremista, sembra quasi che la (non) azione di questi giorni risponda a un principio opposto e ancora più esecrabile: Fiat mundus et pereat iustitia: “Sia (ri)fatto il mondo, muoia pure la giustizia”.
Si sbrighi Putin a deporre Zelens’kyj e a sistemare in Ucraina un governo fantoccio filorusso che blocchi l’avanzata della NATO; si sbrighi ad annettere quante più parti dell’Ucraina gli aggradano; si sbrighi a bombardare, schiacciare, demolire, distruggere, purché si possa tornare al più presto alla vita di prima, alla solita tranquillità, a preoccupazioni degne del terzo millennio invece che a quelle legate all’antiquata e anacronistica guerra. Poco importa che a questa fretta di concludere, a questo desiderio di farla finita il prima possibile, siano sacrificati migliaia di ucraini, privati della loro terra, della loro serenità, dei loro averi, della loro vita.

Nel ribaltamento crudele e beffardo del motto asburgico, purtroppo, pare ci si scordi sempre di una sua revisione più propriamente etica, che un altro grande della filosofia, Hegel, ne fece appositamente come risposta al sistema kantiano: Fiat iustitia ne pereat mundus, “Sia fatta giustizia affinché non perisca il mondo”. Ora come ora, sarebbe l’unica versione realmente necessaria, l’unica rispondente alle preghiere del cuore degli uomini piuttosto che agli interessi di piccole e grandi nazioni. L’unica ancora inesplorata in questa guerra in Ucraina.

 

Giacomo Mininni

 

[Immagine di copertina proveniente da Pixabay]

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L’individuo e la grandezza della natura: echi di sublime

È una delle opere più note del mondo, il Viandante su un mare di nebbia dell’artista tedesco Caspar David Friedrich realizzata nel 1818. Un uomo distinto colto di spalle sull’orlo di un precipizio; di fronte al soggetto si dipana il mare di nebbia, da cui emergono cime aguzze e si stagliano altri profili montuosi all’orizzonte. Una persona che si perde con lo sguardo e la mente nell’infinito, piccolo contro la vastità della creazione di natura. Non a caso questa è diventata l’opera emblematica del Romanticismo, periodo letterario e artistico che ha attraversato l’Europa ottocentesca portando, tra le altre cose, l’idea del sublime come nuova chiave di definizione del bello.

Di sublime in realtà si comincia già a parlare nel I secolo d.C a cui si data il cosiddetto Trattato sul sublime, di autore ignoto che però già sintetizza un legame tra ciò che è meraviglioso e un senso di smarrimento. Non dimentichiamo del resto come Aristotele definisse thauma, tradotto spesso come meraviglia, un sentimento sì di grande scoperta, di curiosità e stupore, ma con un’accezione angosciosa. Non a caso, quando il letterato britannico Edmund Burke recupera il tema del sublime nel 1757 lo definisce come delightful horror, letteralmente “l’orrendo che affascina”. Ecco allora che questo sublime è un tipo del tutto particolare di bellezza, è un’emozione forte che ci colpisce e che, secondo Burke ma successivamente anche Immanuel Kant, è generata dalla natura. La sua forza (cascate, tempeste marine) e la sua grandezza (oceani, deserti, alte vette) generano nell’individuo la consapevolezza della propria piccolezza, limitatezza e caducità. Lo si evince chiaramente anche dalle opere di un altro grande maestro, William Turner, da molti considerato precursore del Romanticismo proprio per le vorticose tempeste, bufere di neve o di pioggia, incendi roventi rappresentati nei suoi quadri, in cui l’umano è piccolo o scompare.

Nella Critica del giudizio (1790) Kant spiega come la bellezza sia una caratteristica intrinseca degli oggetti (natura compresa) mentre il sublime è il sentimento che alcuni di essi (e la natura appunto) possono generare. Tale sentimento oltretutto nasce dopo una battuta d’arresto delle energie vitali, un momento di smarrimento in cui l’individuo si trova sopraffatto, prima di riuscire ad agire e di (in un certo senso) tornare alla vita. Schopenhauer ne Il mondo come volontà e rappresentazione (1819) si colloca sulla stessa scia e chiarisce che se l’individuo nello stato di contemplazione di quegli oggetti (naturali) avverte il loro pericolo e la possibilità che lo possano sopraffare, ma nonostante tutto persiste nella contemplazione, allora quello è il sentimento del sublime.

È ancora questo per l’individuo contemporaneo il sentimento del sublime? Immaginiamoci come il viandante di Friedrich – cosa forse non difficile visto il boom di turismo che stanno registrando le località montane in questi ultimi anni. Immaginiamoci sulla cima di una vetta o su una nave in mezzo all’oceano: qual è il nostro sentimento nei confronti della natura che stiamo osservando? Proviamo a rifletterci davvero. Ne riconosciamo la grandezza, la superiorità? Riusciamo ancora a sentirci piccoli? E se siamo ancora in grado di provarlo, questo sublime, riusciamo a portarcelo con noi? La natura è minacciata costantemente dall’azione umana e le nostre mani sono perennemente sporche e sanguinanti in quanto mandanti, con la nostra esagerata eppure inconsapevole domanda sul mercato, di gravi torti nei confronti del mondo naturale e animale. La natura è immensa e immensamente forte, ma la nostra crescita (la popolazione umana dovrebbe raggiungere i dieci miliardi di abitanti nel 2050) soffoca tutta questa energia. Un’energia tale che trova sfogo in violenti ma sempre più frequenti episodi di distruzione. A ognuno dei naufragi di Turner l’umano risponde con maggiore cattiveria, senza riuscire a distinguervi (o senza volerlo fare) una propria responsabilità. Allora pensiamoci ancora un po’ di più, quando scendiamo dalle vette o riemergiamo dai mari, a quella sensazione che abbiamo provato dentro e cerchiamo di tenerla lì, di custodirla. Nella speranza che poi riesca a guidare ogni nostro gesto quotidiano… o almeno un altro in più.

 

Giorgia Favero

 

[Photo credit unsplash.com]

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Riflessioni sulla relatività del bello

Quando si pensa al concetto di bello, la prima domanda che viene da porsi è quella sulla diversità dei gusti e se esista o meno quello che i greci definivano to kalón, il bello assoluto.
Le esperienze estetiche provengono non solo dall’arte, ma anche dalla quotidianità – come tutte le volte che esprimiamo giudizi osservando semplicemente una persona, un oggetto o un fenomeno naturale – facendo sì che l’apprezzamento o la delusione diventino l’unico strumento di misura dell’esperienza appena fruita.

Ma quale parametro viene utilizzato affinché un giudizio di gusto possa ambire a divenire universalmente condiviso? E soprattutto, esiste davvero un modello perfetto di bellezza? Un’idea di bello platonico?
Se si pensa all’essere umano e al suo modo di giudicare i fenomeni, comprendiamo come egli si basi su un determinato modello di bellezza, che viene posto come ideale, per poi categorizzare oggetti e persone in base ad esso, fermo restando che tale idealizzazione sia inevitabilmente condizionata dalla cultura e dalla società. Esempi interessanti ci vengono dal mondo artistico, che per eccellenza risulta essere la culla delle esperienze estetiche: quando, ad esempio, a Parigi nel 1874 si tenne la prima esposizione delle nuove opere impressioniste, i fruitori la considerarono un’azione eversiva che poco aveva a che fare con le loro abitudini artistiche.
Come sappiamo, la pittura impressionista prendeva le distanze dal classicismo – e da quelle forme ideali e canoniche di bellezza – traendo spunto dal romanticismo e dal realismo che propendevano verso l’assoluta libertà dell’artista di esprimere le proprie emozioni.

L’arte rimanda a sua volta ad un altro tema concernente il giudizio estetico: il cambiamento nel corso dei secoli dei canoni di bellezza. Basti pensare a come si sia modificata nel tempo la visione del corpo di donna, che nelle rappresentazioni antiche veniva esaltato nella rotondità e generosità delle forme. Se oggi si pensa ad una donna “perfetta” non la si identificherà certo con la Venere del Botticelli o con la Maya desnuda di Goya, e questo perché sono visibilmente mutati i gusti della società e collettività. Il che porta a pensare alla labilità dei modelli che oggi i più inseguono per potersi omologare a ciò che viene ritenuto appunto “bello”.

Si pensi alle tendenze del momento dettate dai social network, in particolare da Instagram, e a quanto queste influenzino il gusto a livello universale, muovendo verso l’uniformazione delle personalità. Lo stesso accade anche per parte della musica di oggi, che tenta di cavalcare l’onda delle tendenze del momento. Tali brani musicali vengono chiaramente considerati “belli”, non perché lo siano realmente, ma per ciò che rappresentano all’interno della società, facendo appunto sentire i giovani più omologati. Lo stesso accade nel mondo dell’arte, in particolare quando si parla di mostre d’arte contemporanea o performativa, che espongono il più delle volte opere non propriamente belle ma ricche di concettualità; ed è proprio in favore di questa che molti considerano “belle” opere che di fatto non posseggono tale caratteristica.

Riflettendo su quanto detto, si è portati a pensare che il giudizio estetico collettivo si formi a partire da idealizzazioni primariamente soggettive, in quanto è necessario riconoscere la soggettività del gusto e dunque la sua relatività, cosa che ci potrebbe portare ad affermare che in qualche modo esista una sorta di “idea del bello” – che a differenza di quella platonica non si troverebbe in una dimensione iperuranica ma sarebbe frutto del gusto umano basato su esperienze fenomeniche. Contemporaneamente, ci si rende conto di quanto tali posizioni particolari, essendo solitamente influenzate da fattori esterni, vadano a formare un tipo di giudizio che potremmo definire universale.
Tuttavia, potremmo chiederci se tale universalizzazione di un determinato giudizio estetico conduca ad una definizione univoca e realistica di ciò che è bello. Secondo la famosa prospettiva di Kant ne La critica del giudizio (1790), i giudizi, per essere condivisi intersoggettivamente, non devono essere fondati su concetti ma devono svincolarsene.

Possiamo quindi affermare che il concetto di “bello” (ugualmente a quello di “brutto”) sia essenzialmente ambiguo, relativo e assolutamente mutevole nel tempo; ciò porta a concludere che tali concetti, non essendo liberi da condizionamenti esterni, rientrino nel campo del gusto personale, e che, come qualsiasi opinione, non stiano nella verità assoluta. Per questo, anche laddove venissero espressi giudizi di gusto negativi rispetto ad un qualsiasi fenomeno, persona, oggetto, opera d’arte è necessario ricordare che molto probabilmente un giorno ciò che attualmente viene considerato in un determinato modo potrebbe venir considerato nel modo opposto, a dimostrazione del fatto che non esistano il bello e il brutto assoluti.

 

Federica Parisi

 

[Photo credit Erol Ahmed via Unsplash]

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Immanuel Kant, l’Illuminismo e il coraggio

Quando nel 1784 scrisse Risposta alla domanda: Che cos’è l’Illuminismo?, Kant non pensava probabilmente di essere così pervicace nel tempo. Con questo saggio pubblicato sulla rivista tedesca Berlinische Monatsschrift si poneva il compito – seppur arduo – di rivolgersi direttamente ai suoi lettori, in modo da far comprendere loro con chiarezza che cosa fosse l’Illuminismo. In effetti queste poche pagine rivelano rigo dopo rigo una densità e una complessità concettuale di indiscutibile valore e attualità.

I concetti sono chiari, le parole cesellate in perfetto stile kantiano, le immagini metaforiche opportunamente pensate e sviluppate. Insomma, l’indiscutibile tocco del maestro capace di far comprendere tutto a tutti con chiarezza e precisione (perché il più grande pregio sta nell’essere semplici).

Ed è probabilmente per questo motivo che Kant esordisce subito con una definizione, proprio per farsi capire da tutti:

«L’Illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità di cui egli stesso è colpevole. Minorità è l’incapacità di servirsi della propria intelligenza senza la guida di un altro. Colpevole è questa minorità, se la sua causa non dipende da un difetto di intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di servirsi di essa senza essere guidati da un altro. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! Questo dunque è il motto dell’Illuminismo»1.

Kant insegna anche quando non vuole insegnare: l’uomo può essere maggiorenne o restare minorenne, ma non banalmente per età, piuttosto per intelligenza. Dotati per natura di intelligenza, dobbiamo scegliere per decidere se usarla da sé o sotto la guida di un altro. Proprio come avviene nella vita, fino ad una certa età, è bene (e utile) farsi aiutare dagli altri, in particolar modo da chi è più grande di noi, perché più maturo, più esperto, più capace; giunto però innanzi con l’età devo scegliere di far da me, anche se mi può capitare di sbagliare. Restare sottomessi alla volontà e all’intelligenza degli altri, quando ormai è giunto il momento di voler fare da soli, proprio non va bene!

Allora, dov’è il problema? Non siamo capaci di scegliere? Non siamo cresciuti? No, semplicemente non abbiamo coraggio. Abbiamo paura di osare. Non abbiamo il coraggio di essere intelligenti, cioè di farne la nostra essenza. Questo sapere aude, che Kant indica come il motto dell’Illuminismo, rivela un fascino tutto da spendere, e forse oggi ancora di più, perché – aggiunge Kant – «pigrizia e volontà sono le cause per cui tanta parte degli uomini, dopo che la natura li ha da lungo tempo liberati dell’altrui guida, rimangono tuttavia volentieri minorenni a vita; e per cui riesce tanto facile sugli altri erigersi a loro tutori. È così comodo essere minorenni!»2.

È comodo restare minorenni come stato esistenziale, perché c’è sempre qualcuno che si ergerà a nostro tutore e che sceglierà per noi, senza che ci si debba sforzare. Non pensiamo, non ci assumiamo responsabilità, non ci preoccupiamo di nulla, tanto ci sarà qualcun altro che lo farà per noi. Questo lavoro difficile e “pericoloso” lo farà qualcuno che benevolmente si sostituirà a noi «dopo aver accuratamente impedito che queste placide creature osassero muovere un passo fuori dal girello da bambini in cui le hanno imprigionate»3.

Eppure, cadendo di qua e di là – come fanno i bambini –, in breve tempo potremmo imparare a camminare da soli. Un po’ di spavento varrà la fatica e lo sforzo dell’impresa! Tuttavia c’è chi ama questi ceppi. C’è chi è realmente incapace di servirsi della propria intelligenza, non avendo mai avuto la possibilità o l’occasione di metterla alla prova.

Questo processo di emancipazione dalla minorità Kant lo definisce aufklärung, come una “uscita”, una modificazione del preesistente rapporto tra autorità e volontà di usare la nostra ragione. Siamo responsabili della nostra minorità, da cui possiamo uscire solo grazie ad un cambiamento che dobbiamo operare su noi stessi. Un atto di coraggio personale e collettivo, un cambiamento storico. Certo, se si è “pezzi di una macchina” bisognerà pur svolgere un ruolo nella società, adattando la propria ragione a determinate circostanze, ma quando non siamo “pezzi di una macchina” l’uso della ragione deve essere libero. Anche perché un uso illegittimo della ragione (propria ed altrui) genera illusione, dogmatismo.

Ed è in linea con tale logica operativa che Kant affronta il problema. Aufklärung è dunque un ethos di critica permanente del nostro essere storico. È un attualissimo filosofare del limite, un geniale atteggiamento maieutico del pensare in travaglio, una “chiarificazione”sulla nostra fragilità.

 

Lia De Marco

Laureata in filosofia presso l’Università degli Studi di Bari, abilitata in diverse classi di concorso per l’insegnamento nelle scuole superiori di I° e II° grado, ha insegnato dal 1999 in numerosi licei della Puglia. Attualmente è docente di filosofia e storia presso il Liceo “G. Bianchi Dottula” di Bari. Già progettista formativo ed europrogettista, ha maturato un’ampia esperienza nel campo della formazione professionale. Componente del gruppo Buone Prassi della Società Filosofica Italiana (S.F.I.) – Sezione di Bari, si occupa di sperimentazione di attività di didattica integrata della filosofia. Promuove ed organizza eventi culturali e collabora con diverse riviste specialistiche.

 

NOTE:
1. I. Kant, Che cos’è l’Illuminismo, Mimesis, Milano-Udine 2012, p. 9.
1. Ibidem.
I. Kant, op. cit., p. 10.

[Photo credits Marty Finney su unsplash.com]

La filosofia del kamikaze: l’esteta dell’uccido ergo sum

Turchia, 16 ottobre 2016: un uomo decide di farsi saltare in aria in un campus universitario a Gaziantep, città vicino alla frontiera con la Siria. Durante il blitz della polizia turca contro la cellula dormiente, sono rimasti uccisi 3 agenti e ferite altre 8 persone. Quel giorno, a causa di un’esperienza di volontariato, mi trovavo solo a pochi km di distanza dall’esplosione. Immobilismo e incredulità sono state le prime reazioni. E sebbene siano state diverse le domande a cui non ho trovato una risposta che potesse colmare ormai l’origine di una lacuna esistenziale, è riuscita a dipanarsi una certezza: la definizione di kamikaze.

Il termine kamikaze si attribuisce agli autori di attentati suicidi. È una parola di origine giapponese formata dai kanji vento (kaze) e dio (kami). Il termine fece la sua prima comparsa nel racconto storico Annali del Giappone in cui si narra la storia di Kamikaze, lo spirito del vento. Inizialmente la pratica dell’azione-suicida era usata solo in strategie militari di guerra, ma negli ultimi anni con l’espressione kamikaze si evoca quella dimensione terroristica che mette in scena uno “spettacolo”.

È possibile delineare due livelli di comprensione dell’esperienza del kamikaze: esterno e interno. Da un punto di vista esterno il kamikaze, nell’essere così legato al mondo delle apparenze, è un essere estetico, come viene definito da Laurent de Sutter (Teoria del Kamikaze, 2017).
Nella sua azione il kamikaze rende invisibile tutto con un’unica eccezione: il flash di luce causato dall’esplosione. Un’apoteosi di luce che dura poco più di un istante e che si porta con sé il suo stesso fautore, lasciando unicamente distruzione e morte.
L’attenzione mediatica che ne deriva non fa altro che sottolineare lo scopo di questa dimensione: impressionare. Nel mondo contemporaneo il kamikaze diventa un essere delle immagini e dell’apparenza, il cui fine è danneggiare il nemico non tanto a livello fisico, bensì su un piano psicologico. Il risultato è un’immagine forte al punto di paralizzare l’avversario con un atto che è avvolto dall’atmosfera del sublime.

Nella visione kantiana il sublime è ciò che è eccessivo: qualcosa che superi l’ordinaria bellezza e identifica una dimensione estetica dove la paura dello straordinario – inteso come non ordinario – sia contenuta nel proprio piacere. Un qualcosa dunque che può riferirsi solo alla sfera del “divino”: montagne, vulcani, tempeste – come sostenuto dal Romanticismo.
In questo caso, nella sfera degli attacchi suicidi, invece, il sublime è l’esperienza della catastrofe dell’essere nella sua totalità. Da qui il “romanticismo” dei turisti attratti dagli scenari di desolazione causati dalle esplosioni.

Dal suo punto di vista invece, quello interno, l’uomo-kamikaze comprende che il sublime si riferisce solo allo straordinario, accetta la possibilità di essere attraversato da quest’ultimo arrivando così a identificarsi in un entusiasmo “divino”. Il fanatico kamikaze che porta all’esplosione di sé stesso esiste solo in quel preciso istante. Una vita a prepararsi per quel gesto che è unico e irripetibile, in cui prende forma il senso di tutte le cose. Rivisitando così la locuzione di Cartesio Cogito ergo sum è possibile attribuirgli un’espressione analoga: Uccido ergo sum.
La figura delineata assume i tratti di un essere complesso sia nella sua dimensione esteriore che interiore. È pertanto chiaro come la guerra contro il fanatismo e la sua espressione nei kamikaze non si possa svolgere su un piano meramente fisico, ma deve coinvolgere dimensioni più complesse, andando a scavare nelle coscienze e nell’etica.
Importante è offrire dunque un’alternativa a quello che pare essere l’unica possibilità di esistere: il kamikaze.

 

Jessica Genova

 

[Immagine di copertina scaricata da pixabay.com]

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La libertà di pensiero è un vantaggio politico

È di certo questo un periodo buio e difficile, e poche sono state le generazioni che, come la nostra, ne sono state così consapevoli
Ciò che emerge in modo particolare è l’incoerenza che esiste fra ciò di cui gli esseri umani hanno bisogno e le decisioni politiche che vengono prese. Quando si prendono provvedimenti inadeguati alle situazioni in cui ci si trova si ha il dovere di assumere una posizione a riguardo.

La posizione politica non è da intendersi necessariamente come l’adesione a un partito rispetto a un altro, ma come la capacità di interpretare il proprio tempo, e i cambiamenti necessari, per essere in grado di accorgersi quando si adottano soluzioni inadeguate. Assumere una posizione politica significa essere indipendenti nel proprio pensiero, nonostante sia di grande conforto lasciarsi prendere per mano da una guida, che si occupi di tutto.
Era quanto sosteneva Immanuel Kant, quando scriveva l’articolo Risposta alla domanda: che cos’è l’illuminismo? e dava la sua interpretazione sull’epoca che lui e i suoi contemporanei stavano attraversando.

«L’illuminismo è l’uscita dell’uomo da uno stato di minorità quale è da imputare a se stesso. Minorità è l’incapacità di servirsi del proprio intelletto senza la guida di un altro»1.

L’uso della propria ragione implica prendersi la responsabilità di ciò che si è e di ciò che accade nella propria vita. Non restare bambini che si affidano agli altri, liberi da ciò che si è, confortati dalla promessa di ciò che si sarà, è di certo la prima vera scelta che si compie da adulti, e la prima decisione importante, se si vuole partecipare alla vita politica. Si sceglie così in quale mondo si vuole vivere.

Kant parla del proprio tempo come un periodo di illuminismo, in cui il rischiaramento – o per meglio dire il progresso – è un processo lento, che coinvolge le menti, le prospettive e i progetti per il futuro. Il progresso di una civiltà è un cammino accidentato, su cui l’uomo si inerpica e vi inciampa spesso, e il potere politico deve appoggiare questa ascesa difficile, seppure necessaria.

«Nessuna epoca può collettivamente impegnarsi con giuramento a porre l’epoca successiva in una condizione che la metta nell’impossibilità di estendere le sue conoscenze (soprattutto se tanto necessarie), di liberarsi dagli errori e in generale di progredire nel rischiaramento. Ciò sarebbe un crimine contro la natura umana, la cui originaria destinazione consiste proprio in questo progredire»2.

Solo quando l’essere umano avrà deciso di rendersi responsabile di se stesso, e del luogo in cui vive, farà sì che le sue scelte politiche siano coerenti con i suoi bisogni. Per ottenere ciò, tuttavia, è necessario intendere la politica come uno degli strumenti di questo rischiaramento. In questo senso, un ruolo fondamentale è rivestito dagli intellettuali, o da ciò che Kant definisce l’uso pubblico della ragione. Chi è un profondo conoscitore di una disciplina, ha il dovere di rendere il pubblico partecipe delle sue conoscenze. Un medico, per esempio, adempierà ovviamente alle sue mansioni professionali ma, in quanto dotto o ricercatore, diffonderà i risultati dei suoi studi; così un filosofo insegnerà pedissequamente quanto detto dagli antichi, ma avrà anche il dovere di dare il suo contributo al pensiero stesso.

Il potere politico non può e non deve impedire che gli intellettuali divulghino le proprie conoscenze, e non può limitare la libertà questi di esprimere il proprio punto di vista, perché questa è, secondo Kant, la forza che avvia il rischiaramento.

«Senonché a questo rischiaramento non occorre altro che la libertà; e precisamente la più inoffensiva di tutte le libertà, quella cioè di far pubblico uso della propria ragione in tutti i campi»3.

Il potere politico non deve ostacolare la libertà intellettuale ma farne strumento per procedere verso il miglioramento, e non per tornare al passato. Gli studiosi, gli intellettuali hanno perciò tutti il compito di dimostrare l’importanza e la necessità di uscire dalla minorità, ovvero di essere liberi, prima di tutto, nel pensiero.

L’unico vero vantaggio politico è proprio la libertà di pensiero

L’incoerenza, di cui si parlava all’inizio, fra ciò di cui si ha bisogno e le scelte politiche attuali è da imputare anche alla sfiducia nei confronti degli intellettuali: non ci si fida dei medici per i vaccini; non ci si fida degli scienziati per le condizioni del clima; non ci si fida dei filosofi proprio a riguardo di quel cambiamento politico cui tutti anelano. Si preferisce farsi guidare dalla paura dell’altro, senza rendersi conto che si stanno perdendo le conquiste che lo stesso procedimento di rischiaramento, di cui parla Kant, ci ha garantito per molto tempo.

Solo attraverso la libertà di pensiero si potrà garantire un pensiero politico in armonia con la civiltà; e solo quando si inviterà a un uso pubblico della ragione da parte di studiosi e intellettuali si potrà aspirare all’unico e possibile ritorno al passato: la spinta verso il miglioramento.

 

Fabiana Castellino

 

NOTE
1. Immanuel Kant, Risposta alla domanda: che cos’è l’illuminismo, Editori Riuniti, Roma 2017, p. 61.

2. Ivi, p. 66.
3. Ivi, p. 63.

[Photo credit Nick Herasimenka]

Reperti incidentali: verità e comunicazione dell’informazione genetica

Ciascuno di noi esperisce un particolare legame con le proprie origini. Esiste una sorta di laccio che, anche qualora tentassimo di liberarcene, ci obbliga a fare i conti con quelle radici che ci sono, che sono le nostre e che, innegabilmente, hanno creato le condizioni, anche se solo biologiche, affinché anche noi potessimo esserci. Quando si parla della propria storia autobiografica, infatti, non si può non fare riferimento all’istante in cui la vita, biologicamente intesa, ha avuto inizio: la nascita. Poi si cresce, si diventa adulti, si invecchia. Ma la prima domanda di senso resta la stessa, ovvero: da dove veniamo? Quali sono le nostre origini? Da dove tutto ha avuto inizio?

Talvolta, in ambito clinico, la propria storia genetica può essere reperita in modo inatteso. Questo è il caso dei così chiamati incidental findings, che in italiano potremmo tradurre con l’espressione di “reperti incidentali”. Esistono, pertanto, circostanze in cui i test di compatibilità genetica, realizzati ai fini della valutazione di una compatibilità tra due soggetti che si sottopongono ad un intervento invasivo di donazione d’organo da vivente, fanno emergere risultati inaspettati, quali l’assenza di compatibilità genetica tra gli stessi, mettendo in luce delle informazioni di natura genetica che potrebbero determinare importanti conflitti tra i due pazienti in gioco, il futuro donatore e il futuro ricevente, e dunque il fallimento della donazione stessa.

Quale verità dovrebbe essere comunicata? È doveroso oppure non necessario comunicare il risultato del test genetico di un padre e di una figlia? Quale informazione dovrebbe essere trasmessa affinché il consenso possa essere definito informato? Quale informazione deve a tutti i costi essere comunicata in vista del trapianto?

Certo, se clinicamente le indagini genetiche dei due soggetti, aventi un legame familiare, portassero ad un’incompatibilità unicamente genetica tra gli stessi, ci si potrebbe interrogare sul tipo di informazione che i clinici dovrebbero sentirsi obbligati di comunicare al fine di garantire il successo del trapianto. Pertanto, l’incompatibilità genetica risulterebbe un dato irrilevante. I medici potrebbero dunque limitarsi a trasmettere l’istocompatibilità al trapianto, senza fornire ulteriori informazioni. I sostenitori del “non dire la verità” ritengono inoltre che l’autodeterminazione del paziente, in particolare di chi dona, potrebbe essere ostacolata e aggravata da un’informazione pericolosa che limiterebbe la libertà individuale stessa, impedendole di scegliere ciò che davvero desidera: in altre parole, conoscere la propria origine biologica, in un momento così delicato della propria vita, potrebbe offuscare quel desiderio profondo che l’avrebbe spinta a donare. Il privilegio terapeutico1 – espressione utilizzata in etica quando non si vuole fornire tutta l’informazione per il bene del paziente – rappresenterebbe dunque una declinazione del to not harm, di stampo ippocratico. Un ultimo fattore da considerare è il diritto alla privacy che, nei confronti di “chi sa” costituirebbe un diritto da rispettare fino alla fine.

Dall’altro lato, “il dire la verità”, come lo rivendicano i suoi difensori, legittimerebbe il donatore a dare un consenso totalmente libero alla donazione, oppure a rifiutarsi in seguito ad una ponderata riflessione tenente in considerazione tutti gli elementi fondamentali per la scelta, compresa l’informazione sull’identità genetica. Avere tutta la verità, e non solo un parziale insieme d’informazioni, permetterebbe a chi dona di riconoscere pienamente il valore della donazione, anche e soprattutto qualora questa fosse destinata a quel padre che biologicamente non le ha dato la vita. Diversamente da chi sostiene che la comunicazione di tutta la verità potrebbe determinare un’insicurezza, se non addirittura un rifiuto, alla donazione, una piena comunicazione potrebbe contribuire ad aumentarne la consapevolezza da parte di una figlia oppure di un figlio al proprio padre, una consapevolezza frutto di una riflessione data da tutte le informazioni necessarie per il consenso. Vero è, infine, che “non dire la verità” ai soggetti implicati nel percorso del dono significherebbe anche mettere in pericolo la vita del ricevente nel caso in cui, in un futuro prossimo, potessero sorgere delle malattie trasmesse dal donatore stesso, la cui identità dovrebbe poi comunque essere svelata.

Nell’obiettivo di superare queste due posizioni antitetiche, il Comitato Nazionale della Bioetica (CNB), propone una soluzione che condivido. Questa indicherebbe pertanto che:

«I consultandi siano informati preliminarmente, nella consulenza genetica pre-test, delle potenzialità e dei limiti delle analisi e delle differenze rispetto ai test tradizionali, nonché informazioni sui possibili legami biologici di parentela e informazioni di interesse farmacogenetico e di medicina di precisione»2.

L’anticipazione, da parte dei medici, della potenziale esistenza d’informazioni genetiche impreviste potrebbe costituire una buona opportunità di comunicazione affinché ciascun agente morale sia consapevole del fatto che i test genetici potrebbero far sorgere dei risultati inaspettati.

La verità, quella stessa verità che Kant acclamava a tutti i costi, dovrebbe essere difesa, certo. Talvolta, però, dire tutto il vero potrebbe ostacolare il libero esercizio della propria libertà. Proprio per questo, è fondamentale ricordare come per il filosofo tedesco, se da un lato la menzogna è negazione del dovere morale dell’uomo poiché contraria al vero, dall’altro esiste una differenza tra il “dire il vero” ed “essere schietti”. La seconda pertanto, consiste nel comunicare tutta la verità, ovvero tutte le informazioni senza riserva, senza nemmeno far riferimento ad un contesto con variabili determinanti; la prima, invece, è basata sul trasmettere il vero, ma non tutta la verità, una verità i cui dettagli potrebbero anche nuocere l’altro. Ecco perché, forse, la decisione presa dal CNB, ovvero quella di aprire uno spazio di comunicazione antecedente alla realizzazione dei test genetici, potrebbe costituire una buona opportunità per dare voce a delle “verità” che potrebbero complicare il percorso di cura successivo al trapianto. Ciò nella finalità di rispettare ciascuna delle due individualità implicate nella donazione, senza invadere lo spazio dell’una o dell’altra.

 

Sara Roggi

 

NOTE
1. Beauchamp T.L, Childress J. F., Principles of Biomedical Ethics, Seventh Edition, Oxford University Press, 2012.
2. È possibile reperire il documento riguardante i reperti incidentali sul sito del Comitato Nazionale di Bioetica (CNB).

Photo Credit: Evan Kirby on Unsplash.com

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Un giorno a casa di Kant

Anche i filosofi, alla fine, invecchiano, si ammalano e muoiono. Ma prima della morte c’è stata la vita, fatta non solo di “pensiero”, ma anche di piccole routine quotidiane. Il libro di Thomas de Quincey Gli ultimi giorni di Immanuel Kant (1827/1854) si concentra, come da titolo, sulla parte finale della vita del filosofo, dipingendo un ritratto commovente dell’anziano pensatore; nella parte iniziale, tuttavia, il suo scritto ci offre un interessante e vivace spaccato della “giornata-tipo” di Kant. Seguiamo allora passo per passo il bel resoconto di questo bravo biografo: sarà come entrare ed essere ospiti per un giorno nella casa di uno dei filosofi più noti di sempre.

La giornata di Kant, racconta De Quincey, iniziava alle «cinque meno cinque in punto», ora in cui il suo maggiordomo lo veniva a svegliare «ad alta voce, con tono militare», scandendo le seguenti parole: «Signor professore, è l’ora». Kant scendeva dal letto senza esitazione: «a questo invito Kant invariabilmente obbediva senza alcun indugio, come un soldato risponde alla parola d’ordine». Seguiva una colazione frugale costituita da una o due tazze di tè, dopo la quale Kant fumava per qualche minuto la pipa riflettendo sulle disposizioni da dare ai domestici per la giornata. Verso le sette Kant usciva per andare a fare lezione, dopodiché tornava a casa e si recava nel suo studio, dove si dedicava alla lettura e alla scrittura in attesa dello scoccare dell’ora di pranzo.

Dalla ricostruzione di De Quincey apprendiamo anche le abitudini di Kant a tavola, di come egli scegliesse e disponesse con cura i cibi e i vini, e di come amasse intrattenere i suoi ospiti:

«a un suo pranzo, il numero dei convitati non doveva scendere al di sotto del numero delle Grazie, né superare quello delle Muse. […] Vi era una sufficiente scelta di piatti per venire incontro alla varietà dei gusti; e le caraffe del vino non erano poste a lato su tavolini distanti, o sotto l’odioso controllo di un domestico, ma anacreonticamente sulla tavola, e a portata di mano per ogni convitato. […] Tutto l’intrat­tenimento era insaporito dalle spezie del suo spirito illuminato, che si profondeva e riversava con naturalezza su tutti gli argomenti, via via che il procedere della conversazione gliene dava occasione».

Dopo pranzo (l’unico pasto che Kant consumava nell’arco della giornata), il filosofo si concedeva una passeggiata solitaria, non solo «per tenersi in esercizio», ma anche al fine di potersi immergere nei propri pensieri in pace e serenità «dopo tanta conversazione conviviale». Ma c’era anche un altro curioso motivo per cui egli voleva rimanere solo: durante quel tragitto «egli desiderava respirare esclusivamente dalle narici, cosa che non avrebbe potuto fare se fosse stato obbligato ad aprire continuamente la bocca conversando».

La ragione di questa strana abitudine è presto detta: Kant era convinto che, respirando in tal modo, «l’aria atmosferica, essendo […] condotta per un percorso più lungo, giungesse perciò ai polmoni con minore crudezza e a una temperatura un po’ più alta, dunque con minore capacità di irritarli. Saldo e perseverante in questo esercizio, che raccomandava costantemente ai suoi amici, Kant si vantava di una lunga immunità da raffreddori, malesseri, catarri e disturbi polmonari di ogni genere». Kant, in effetti, a parte il naturale declino a cui andò incontro sul finire della sua vita, non si ammalò praticamente mai nel corso della sua esistenza.

Dopo essere tornato dalla passeggiata, Kant si sedeva sul suo tavolo di lavoro vicino alla stufa, guardava dalla finestra l’antica torre di Löbenicht e si rimetteva al lavoro: studiava qualche libro, prendeva appunti, preparava la lezione del giorno dopo. Poteva andare avanti anche fino alle dieci di sera, ora scoccata la quale si spogliava e andava a dormire senza cenare. Kant aveva peraltro un modo tutto particolare di mettersi a letto: egli amava che le coperte lo avvolgessero completamente, «come una mummia, o […] come il baco da seta nel suo bozzolo».

«Dopo essersi impacchettato per la notte […] esclamava sovente tra sé […]: “È possibile concepire un essere umano che goda di una salute più perfetta della mia?”».

Il mattino seguente la giostra della vita ricominciava il proprio giro, e le giornate si ripetevano più o meno tutte uguali: l’inflessibile routine imposta da Kant «mai in alcuna circostanza variava o si allentava», afferma De Quincey. La puntualità e la precisione del filosofo nel ripetere gli stessi “rituali” divennero proverbiali: si vocifera che, vedendolo passare per strada, gli abitanti di Königsberg regolassero i loro orologi. Per Kant «la monotonia di questo succedersi non era opprimente, ed è probabile che essa contribuisse, insieme all’uniformità della sua dieta e ad altre abitudini, improntate alla stessa regolarità, a prolungare la sua vita. […] Egli era giunto a ritenere che la sua salute e la sua longevità fossero in gran parte il risultato dei suoi sforzi disciplinati. Parlava di se stesso come di un ginnasta che avesse continuato per quasi ottant’anni a conservare l’equilibrio sulla corda tesa della vita, senza mai oscillare né a destra né a sinistra».

Ma infine anche la salute di Kant, che per moltissimo tempo fu perfetta come un cristallo, incominciò a presentare le prime inevitabili incrinature. Ma di questo si parla nella parte restante del libro, il cui contenuto noi però non sveleremo, perché è calata la notte – si è fatto proprio tardi, ormai –, e non sarebbe educato rimanere qui, a casa di Kant, e parlare di lui. Le nostre voci, impegnate a raccontare qualche pettegolezzo sul suo conto, potrebbero arrivare fino in camera sua e svegliarlo – il che sarebbe un vero peccato, visto che adesso dorme sereno, in attesa della “levataccia” alle cinque meno cinque di domani.

 

Gianluca Venturini

 

 

[L’immagine di copertina è una rielaborazione digitale di immagini tratte da Google immagini]

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Educhiamoci a pensare

E pensare che c’era il pensiero”
Giorgio Gaber

 

La filosofia è sin dalle sue origini esercizio del pensiero secondo ragione. I filosofi da sempre considerano l’uomo come l’essere per eccellenza dotato di pensiero e che, proprio questo dono ricevuto da Dio oppure dalla Natura, ha il compito e la responsabilità di adoperare.

È sufficiente scorrere celermente la galleria dei sapienti per scorgere quanta importanza venga accordata da ciascuno al bisogno di pensare. Partendo da Aristotele, per il quale la mansione propriamente umana è l’attività teoretica e la felicità stessa dell’uomo consiste nella vita di pensiero1. Passando per Severino Boezio che definisce la persona come “sostanza individuale di natura razionale”, fino a Cartesio dove il cogito è il fondamento metafisico affinché si possa affermare di non ingannarsi circa la propria esistenza, approdando all’illuminismo kantiano, stagione nella quale il pensiero riceve con decisione il più luminoso dei riconoscimenti. Scrive il filosofo di Konigsberg in un celebre articolo: «Sapere aude! Abbi il coraggio di usare il tuo proprio intelletto! Questa è dunque la parola d’ordine dell’illuminismo»2.

Sempre più spesso l’uomo del tempo presente rinuncia invece all’esercizio del pensiero. La sua qualità precipua, ciò che per antonomasia lo distingue da piante e animali, sembra tragicamente perdersi nel vuoto. È sufficiente osservare la vita, le scelte e le modalità di esprimersi di buona parte degli esseri umani che compongono la società ipermoderna  per constatare che la centralità del pensiero razionale, attorno alla quale si è sviluppata la cultura occidentale, sembra sgretolarsi all’incedere di esistenze sempre più vuote e anonime.

È ancora una volta la parola filosofica che può venire in soccorso della crisi contemporanea, esortandoci a rieducare la nobile e quanto mai preziosa facoltà del pensiero. Nella complessità del tempo presente, che sembra travolgere freneticamente le esistenze, la soluzione non è infatti quella di abdicare il pensiero in favore di un’illusoria leggerezza (certamente, l’uomo necessita anche di quella, purché consapevole), quanto piuttosto riconoscerne il suo intrinseco bisogno. Invero, un uomo che non pensa è un uomo che lascia agli altri la possibilità di pensare per lui. È un soggetto che, secondo Kant, preferisce rimanere in uno stato di minorità, di eteronomia, senza mai raggiungere l’autonomia che consiste nell’esercizio costante e consapevole del pensiero libero. «È così comodo – asserisce Kant – essere minorenni. Se ho un libro che ragiona per me, un direttore spirituale che ha coscienza per me, un medico che sceglie la dieta per me […] Non ho bisogno di pensare […] altri già si incaricheranno per me di questa fastidiosa occupazione»3. L’uomo preferisce farsi guidare e governare dagli altri, siano essi esseri umani o istituzioni, piuttosto che accedere all’autonomia attraversando la fatica del concetto. Così facendo il soggetto diviene incapace di scegliere liberamente, di agire criticamente e anzitutto di discernere il bene dal male. Ed è questa, come ha mirabilmente intuito Hannah Arendt, la dolorosa lezione che ci giunge dal recente passato totalitario. Occupandosi del processo al gerarca nazista Otto Adolf Eichmann, la pensatrice politica tedesca ha sostenuto che, avendo completamente rinunciato a pensare autonomamente, quest’uomo aveva perduto la possibilità di agire con libertà, sottomettendosi così ad un potere superiore, in questo caso ad un potere criminale. Egli era divenuto un cieco esecutore, che avendo abdicato al lieve evento del pensiero non era più stato capace di distinguere il bene dal male. Scrive Arendt riferendosi ad Eichmann: «Per dirla in parole povere, egli non capì mai ciò che stava facendo […] non era uno stupido; era semplicemente senza idee (una cosa molto diversa dalla stupidità), e tale mancanza di idee ne faceva un individuo predisposto a divenire uno dei più grandi criminali di quel periodo»4. La profonda analisi di Arendt spiega che è proprio laddove si abbandona il pensiero che il male dilaga, poiché la ragion pratica si può esercitare moralmente solo se preceduta da una pratica della ragione.

La contemporaneità, non sta dunque solamente attraversando una crisi economica senza precedenti, ma forse e più precisamente sta avanzando verso il futuro senza pensiero. Ma quale futuro può darsi senza l’esercizio del pensiero? Anche il tessuto socio-economico può infatti iniziare a ripartire solo se vi è un utilizzo serio e ponderato della ragione autonoma, che guidi a scelte equilibrate e lungimiranti nell’agire. L’analisi profonda della realtà, scorge che la decadenza è prima di tutto una crisi di individui che in parte o totalmente ripudiano il pensiero, finendo per confluire in masse che pensano e agiscono al posto loro. Dove tutti fanno ciò che fanno gli altri (conformismo) e vogliono ciò che vogliono gli altri (totalitarismo). Uno sguardo antropologico e sociologico non può che confermare questa tendenza spersonalizzante, che si rivela proprio nel momento in cui si esclude il pensiero. In questo senso risuonano più attuali che mai le parole di Carlo Maria Martini, il quale ebbe a dire: «Mi angustiano, invece, le persone che non pensano, che sono in balia degli eventi. Vorrei individui pensanti. Questo è l’importante»5.

L’esercizio del pensiero è la condizione senza la quale non si dà libertà alcuna. Una libertà interiore che niente e nessuno ci potrà mai strappare. «Tutta la nostra dignità consiste dunque nel pensiero. […] Studiamoci dunque di pensare bene»6 scriveva Pascal. Solo così potrà avanzare un mondo moralmente orientato al bene e per questo più umano, più vivibile e dove come singolo «non devo chiedere la mia dignità allo spazio ma al retto uso del mio pensiero»7.

 

Alessandro Tonon

 

NOTE
1. Cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, Laterza, Bari 2017.
2. I. Kant, Scritti di storia, politica e diritto, Laterza, Bari 2019, p. 45.
3. Ivi, p. 45
4. H. Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Felrtinelli, Milano, 201423, p. 290.
5. C. M. Martini, G. Porschill, Conversazioni notturne a Gerusalemme. Sul rischio della fede, Mondadori, Milano 2008, p.64.
6. B. Pascal, Pensieri, Edizioni San Paolo, Milano, 198712, p. 240.
7. Ivi, p. 241.

[Immagine tratta da unsplash.com]

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