La soggettiva oggettività della bellezza

Quando ci sorprendiamo catturati dallo spettacolo della natura o dai capolavori dell’arte e ci ritroviamo a fissare con uno scatto fotografico la sensazione di piacere che stiamo provando, siamo ben consapevoli di aver preso parte all’esperienza della bellezza. Eppure, se ci chiediamo: che cos’è la bellezza? ci ritroviamo prigionieri di uno strano paradosso; ci rendiamo conto che la bellezza sappiamo riconoscerla, ma non siamo in grado di darne una definizione precisa.
E come ad un bivio, ci si presentano una serie di ulteriori domande nelle quali il pensiero si incaglia: è bello è ciò che è bello oppure bello è ciò che piace? Ovvero, la bellezza è qualcosa di assoluto e oggettivo, che tutti riconosciamo allo tesso modo, oppure è relativa ai gusti personali di ognuno? E ancora: la bellezza risiede nell’oggetto che ci ha riempito gli occhi di stupore, oppure in noi stessi che siamo in grado di percepirla?

Cerchiamo di dipanare questi aut-aut, provando a descrivere cosa succede quando siamo partecipi dell’esperienza della bellezza.

Il filosofo Immanuel Kant, nella sua Critica del giudizio (1790), afferma che «chiamiamo bella una cosa per la sua proprietà di accordarsi col nostro modo di percepirla». In altre parole, diciamo bello quell’oggetto che avvertiamo in perfetta sintonia con il nostro gusto e i nostri canoni estetici.

Tante volte formuliamo giudizi estetici in linea con i nostri gusti personali, come quando, anche conformemente alla moda del momento, consideriamo bello e da noi preferibile, per esempio, un pantalone taglio sigaretta piuttosto che a zampa di elefante, il colore blu piuttosto che il rosso. Questa discrezionalità di scelta ci dimostra che la bellezza ha qualcosa di soggettivo in quanto è vincolata a noi, è condizionata dal nostro modo privato di percepirla e di viverla.
È possibile, però, percepire la bellezza anche in un modo “condiviso” e intersoggettivo, e questo può succedere nel momento in cui si verificano le condizioni per le quali la bellezza ci si mostra come qualcosa di oggettivo e assoluto, ovvero quando «la soddisfazione che determina il giudizio di gusto è disinteressata» (Kant, Critica del giudizio, 1997). In definitiva, quando l’alchimia che si sprigiona tra noi e l’oggetto contemplato non è condizionata dall’interesse materiale nei confronti di quell’oggetto.

Fruiamo della bellezza pura e assoluta quando il piacere estetico non scaturisce da alcuna previsione di utilità, né tanto meno da un principio morale o etico oppure da un’attrattiva o desiderio personali. E ciò si verifica quando, ad esempio, godendo della bellezza di un campo di biondeggianti spighe di grano, non penso al guadagno che ne posso ricavare, oppure quando, giudicando bello il dipinto La libertà che guida il popolo di Delacroix, prescindo dall’ideale etico e morale a cui mi esorta e ne ammiro semplicemente l’armonia, il perfetto e interiore accordo tra tutti gli elementi che lo costituiscono e il mio spirito.
Non è poi raro che, quando estasiata esclamo: “Che bello!” al cospetto della vista de La nascita di Venere di Botticelli, del Colosseo o ancora delle splendide spiagge della costiera amalfitana, mi aspetto di condividere la mia soddisfazione estetica anche con chi mi sta accanto, «pretendo il consenso d’ognuno, come se il piacere fosse oggettivo» (Kant, Critica del giudizio, 1997), come se l’esperienza della bellezza che sto vivendo, sia appunto qualcosa di assoluto, che valga allo stesso modo per tutti.

Allora, se la bellezza ha la capacità di suscitare, allo stesso tempo, uno stato di piacere che è sì privato, ma anche universalmente condivisibile, non si potrebbe definire la contemplazione della bellezza come un’esperienza intersoggettiva o “soggettivamente oggettiva”?
Non è forse vero che, quando ci troviamo in coda con tanti altri, al Louvre, per godere della bellezza del quadro più famoso del mondo, la Gioconda di Leonardo da Vinci, o quando a un concerto veniamo piacevolmente rapiti dall’ascolto del Chiaro di luna di Debussy, proviamo un’affinità con chiunque partecipi con noi al medesimo spettacolo della bellezza?

Il miracolo della bellezza ci fa riscoprire accomunati dal medesimo sentimento estetico e dalla medesima capacità di giudicare la bellezza. E questo succede perché, in realtà, la bellezza che pensiamo di ritrovare nella natura o dell’arte, non è altro che la bellezza che portiamo dentro di noi.
Nulla sarebbe bello se alcun uomo o donna non lo recepisse come tale, non solo perché nessuno si accorgerebbe della bellezza racchiusa, ad esempio, in un bocciolo di rosa che si schiude, ma anche perché quel bocciolo di rosa può essere giudicato bello solo dalla comunità umana, costituita da individui capaci del medesimo sentire e il cui animo è strutturato esattamente come il mio.

 

Maria Buonadonna

 

[Photo credit Léonard Cotte via Unsplash]

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Fiat mundus, pereat iustitia: sulla NATO e sull’Ucraina

Davanti agli occhi sconcertati e scandalizzati dell’opinione pubblica, una grande nazione ne assale improvvisamente una più debole, piegandola con la pura potenza militare in una serie di scontri brutali e chirurgici. Le altre potenze, infiammate da giusto sdegno… restano a guardare, minacciando ritorsioni, ammonendo, colpendo a suon di sanzioni rese inefficaci in partenza da dissidi e disaccordi e dalla accorta preparazione dell’invasore.

L’invasione in questione era quella della Polonia da parte della Germania nazista, nel 1939, ma potrebbe benissimo essere una cronaca degli ultimi giorni. Senza voler equiparare Vladimir Putin a Adolf Hitler, o la Russia contemporanea al Terzo Reich, i paralleli emergono evidenti.
Al netto dei retroscena e delle dietrologie, senza voler indagare, in una fase evidentemente precoce, le responsabilità della NATO o della Federazione Russa, senza rivangare la lunga storia di conflitto etnico e culturale nelle regioni di Crimea e Dombass (Ucraina), merita forse, in questo momento, focalizzarsi sulla (non) reazione della comunità internazionale e dell’opinione pubblica, dei non direttamente coinvolti. Sulla nostra reazione.

Come nel ’39, le avvisaglie del conflitto ci sono state, confermate da più fonti, ignorate da più parti. Come nel ’39, nessuno ha creduto fino in fondo che il leader autoritario di turno muovesse effettivamente guerra: ieri perché un sanguinoso e devastante conflitto si era appena concluso, oggi perché uno scontro militare su territorio europeo è considerato praticamente impensabile da oltre settant’anni (con buona pace dei Balcani). Come nel ’39, infine, le reazioni tardano ad arrivare e sono quasi simboliche, più emblematiche prese di posizione che non effettive scelte di campo, una voce grossa a volte sincera, mai incisiva.
Su una cosa tutti gli intervenuti sono d’accordo: non ci sarà un singolo soldato inviato al fronte, l’opzione bellica è civilmente esclusa. Ma neppure ci saranno sanzioni realmente efficaci, e neppure ci sarà un massiccio intervento diplomatico. I tentativi erano validi “prima”: una volta cominciato, tanto vale che finisca al più presto, possibilmente motu proprio.

Immanuel Kant, in Per la pace perpetua, aveva fatto proprio il motto asburgico Fiat iustitia et pereat mundus, ovvero “Sia fatta giustizia, perisca pure il mondo”. Nel rigido sistema razionale kantiano, la frase latina era un invito ai governanti a seguire una inflessibile morale deontologica, per la quale i principi morali erano superiori a ogni cosa, perfino alla vita umana. Per quanto un simile adagio massimalista sia evidentemente estremista, sembra quasi che la (non) azione di questi giorni risponda a un principio opposto e ancora più esecrabile: Fiat mundus et pereat iustitia: “Sia (ri)fatto il mondo, muoia pure la giustizia”.
Si sbrighi Putin a deporre Zelens’kyj e a sistemare in Ucraina un governo fantoccio filorusso che blocchi l’avanzata della NATO; si sbrighi ad annettere quante più parti dell’Ucraina gli aggradano; si sbrighi a bombardare, schiacciare, demolire, distruggere, purché si possa tornare al più presto alla vita di prima, alla solita tranquillità, a preoccupazioni degne del terzo millennio invece che a quelle legate all’antiquata e anacronistica guerra. Poco importa che a questa fretta di concludere, a questo desiderio di farla finita il prima possibile, siano sacrificati migliaia di ucraini, privati della loro terra, della loro serenità, dei loro averi, della loro vita.

Nel ribaltamento crudele e beffardo del motto asburgico, purtroppo, pare ci si scordi sempre di una sua revisione più propriamente etica, che un altro grande della filosofia, Hegel, ne fece appositamente come risposta al sistema kantiano: Fiat iustitia ne pereat mundus, “Sia fatta giustizia affinché non perisca il mondo”. Ora come ora, sarebbe l’unica versione realmente necessaria, l’unica rispondente alle preghiere del cuore degli uomini piuttosto che agli interessi di piccole e grandi nazioni. L’unica ancora inesplorata in questa guerra in Ucraina.

 

Giacomo Mininni

 

[Immagine di copertina proveniente da Pixabay]

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L’individuo e la grandezza della natura: echi di sublime

È una delle opere più note del mondo, il Viandante su un mare di nebbia dell’artista tedesco Caspar David Friedrich realizzata nel 1818. Un uomo distinto colto di spalle sull’orlo di un precipizio; di fronte al soggetto si dipana il mare di nebbia, da cui emergono cime aguzze e si stagliano altri profili montuosi all’orizzonte. Una persona che si perde con lo sguardo e la mente nell’infinito, piccolo contro la vastità della creazione di natura. Non a caso questa è diventata l’opera emblematica del Romanticismo, periodo letterario e artistico che ha attraversato l’Europa ottocentesca portando, tra le altre cose, l’idea del sublime come nuova chiave di definizione del bello.

Di sublime in realtà si comincia già a parlare nel I secolo d.C a cui si data il cosiddetto Trattato sul sublime, di autore ignoto che però già sintetizza un legame tra ciò che è meraviglioso e un senso di smarrimento. Non dimentichiamo del resto come Aristotele definisse thauma, tradotto spesso come meraviglia, un sentimento sì di grande scoperta, di curiosità e stupore, ma con un’accezione angosciosa. Non a caso, quando il letterato britannico Edmund Burke recupera il tema del sublime nel 1757 lo definisce come delightful horror, letteralmente “l’orrendo che affascina”. Ecco allora che questo sublime è un tipo del tutto particolare di bellezza, è un’emozione forte che ci colpisce e che, secondo Burke ma successivamente anche Immanuel Kant, è generata dalla natura. La sua forza (cascate, tempeste marine) e la sua grandezza (oceani, deserti, alte vette) generano nell’individuo la consapevolezza della propria piccolezza, limitatezza e caducità. Lo si evince chiaramente anche dalle opere di un altro grande maestro, William Turner, da molti considerato precursore del Romanticismo proprio per le vorticose tempeste, bufere di neve o di pioggia, incendi roventi rappresentati nei suoi quadri, in cui l’umano è piccolo o scompare.

Nella Critica del giudizio (1790) Kant spiega come la bellezza sia una caratteristica intrinseca degli oggetti (natura compresa) mentre il sublime è il sentimento che alcuni di essi (e la natura appunto) possono generare. Tale sentimento oltretutto nasce dopo una battuta d’arresto delle energie vitali, un momento di smarrimento in cui l’individuo si trova sopraffatto, prima di riuscire ad agire e di (in un certo senso) tornare alla vita. Schopenhauer ne Il mondo come volontà e rappresentazione (1819) si colloca sulla stessa scia e chiarisce che se l’individuo nello stato di contemplazione di quegli oggetti (naturali) avverte il loro pericolo e la possibilità che lo possano sopraffare, ma nonostante tutto persiste nella contemplazione, allora quello è il sentimento del sublime.

È ancora questo per l’individuo contemporaneo il sentimento del sublime? Immaginiamoci come il viandante di Friedrich – cosa forse non difficile visto il boom di turismo che stanno registrando le località montane in questi ultimi anni. Immaginiamoci sulla cima di una vetta o su una nave in mezzo all’oceano: qual è il nostro sentimento nei confronti della natura che stiamo osservando? Proviamo a rifletterci davvero. Ne riconosciamo la grandezza, la superiorità? Riusciamo ancora a sentirci piccoli? E se siamo ancora in grado di provarlo, questo sublime, riusciamo a portarcelo con noi? La natura è minacciata costantemente dall’azione umana e le nostre mani sono perennemente sporche e sanguinanti in quanto mandanti, con la nostra esagerata eppure inconsapevole domanda sul mercato, di gravi torti nei confronti del mondo naturale e animale. La natura è immensa e immensamente forte, ma la nostra crescita (la popolazione umana dovrebbe raggiungere i dieci miliardi di abitanti nel 2050) soffoca tutta questa energia. Un’energia tale che trova sfogo in violenti ma sempre più frequenti episodi di distruzione. A ognuno dei naufragi di Turner l’umano risponde con maggiore cattiveria, senza riuscire a distinguervi (o senza volerlo fare) una propria responsabilità. Allora pensiamoci ancora un po’ di più, quando scendiamo dalle vette o riemergiamo dai mari, a quella sensazione che abbiamo provato dentro e cerchiamo di tenerla lì, di custodirla. Nella speranza che poi riesca a guidare ogni nostro gesto quotidiano… o almeno un altro in più.

 

Giorgia Favero

 

[Photo credit unsplash.com]

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Come trovare la totale libertà nella più assoluta solitudine

«Ci troviamo così bene nella libera natura perché essa non ha alcuna opinione su di noi»1 scriveva Friedrich Nietzsche, riferendosi a quel tipo di bene che l’uomo prova nel momento in cui riesce ad allontanarsi dagli altri, cioè coloro che ci giudicano e ci guardano, poiché, nel momento in cui veniamo guardati, noi non riusciamo più a essere noi stessi ma riusciamo a vederci solo attraverso le lenti, la prospettiva e le considerazioni altrui.

Quando gli altri ci guardano, non possiamo sottrarci, ma dobbiamo sottostare e ci sentiamo feriti nel nostro essere. Nel sentirsi oggetto dello sguardo altrui l’uomo prova vergogna, si sente vulnerabile, in quanto l’altro scopre la nudità del nostro essere. La vergogna, il pudore e la timidezza sono i mezzi con i quali gli altri ci danno forma, i mezzi con cui noi riusciamo a uniformarci alla comunità, sacrificando di fatto il nostro vero io e i nostri veri desideri. Bisogna ammettere che nel momento in cui gli altri decidessero di ignorarci noi non esisteremmo più come membri della società, dunque bisogna riuscire ad ottenere una posizione di non vergogna dallo sguardo altrui, comprendendo che il pregiudizio, purtroppo, sarà sempre nell’altro. L’unica via per sfuggire da esso sarebbe cercare rimedio nella solitudine, ma noi sappiamo che non potremmo sopravvivere nel momento in cui sfuggiamo dall’altro: la nostra ricerca allora sarà giungere all’equilibrio tra la socialità e la solitudine.

Comprendendo quanto sia deleterio il sentirsi osservati, giudicati, in modo negativo, possiamo comprendere appieno il significato di quell’inferno di cui parla Sartre, alla fine di Huis clos, in italiano A porte chiuse (1944). La sua frase, significativa, «L’inferno sono gli altri2» non mira a negare il carattere sociale dell’uomo, anzi, secondo Sartre l’uomo può conoscere se stesso solo mediante gli altri, perché essi hanno una specifica rappresentazione di noi. Solo che non potremmo mai sentirci veramente bene con il nostro essere in società, perché, appunto, siamo giudicati: noi dunque desideriamo, ricerchiamo la solitudine in un mondo in cui è necessaria, invece, la collettività. Si desidera la solitudine perché solo quando si è soli si può manifestare davvero il proprio essere.

Potremmo giungere a una differenza sostanziale tra Sartre e Kant. Secondo il sistema kantiano la comunità rappresenta un luogo sereno, dove l’individuo può pienamente realizzarsi. Ma davvero l’individuo può realmente realizzarsi se deve uniformarsi alla collettività? Forse l’uomo non sarà completamente libero assieme all’altro uomo, ma escludendo dalla sua vita l’uomo in sé, l’altro che cosa sarebbe? Il nulla. L’equilibrio risulta fondamentale per abitare assieme all’altro, ma non solo, anche per comprendere il motivo per cui ci troviamo all’interno di una comunità, giungendo a cogliere il giudizio dell’altro, valutandolo e ripudiandolo in caso non si mostrasse veritiero.

L’uomo dunque è condannato, secondo Sartre, alla libertà. La totale libertà disorienta l’individuo, poiché esso è fragile a causa dell’accadere del mondo; per sfuggire al senso di panico, all’angoscia, comincia a costruire credenze: possiamo spiegare da qui la nascita delle religioni o dei sistemi deterministici. L’uomo, in sostanza, è alla ricerca di un punto di riferimento in un universo scarno: proprio questo intende dire Sartre quando afferma che l’uomo si affida volontariamente a certi concetti che mirano a dare un ordine a tale esistenza caotica, che non prevede nulla di ordinario.

A questo punto si potrebbe pensare che per sfuggire all’incertezza del vivere la soluzione sia il suicidio fisico. Ma non è forse l’opzione più semplice? Sartre non la considera nemmeno una opzione concepibile, in quanto il suicidarsi significa perdere la propria libertà, cioè negare la propria esistenza divenendo mera cosa. Morire non ha senso alcuno, perché scomparsi noi, scomparsa la nostra coscienza, scompare il mondo intero: «la morte non è mai quello che dà il suo senso alla vita; è invece ciò che le toglie ogni significato3».

 

Marco Catania

Marco Catania, classe 2000. Studia attualmente storia e filosofia presso l’università di Palermo, impegnandosi nel mentre a scrivere su temi filosofici riguardanti l’esistenza, l’etica e la religione.
Interessato soprattutto ad autori francesi come Sartre e Camus, ma anche a tanti autori fondamentali della storia della filosofia, quali Spinoza, Nietzsche e Kant.
Amante del pensiero critico, del dialogo costruttivo e della chiarezza ritiene indispensabile un corretto uso della facoltà di giudizio per potere vivere al meglio all’interno della realtà sociale.

 

NOTE:
1. Cfr. F. Nietzsche, Umano troppo umano, 1878
2. Cfr. J-P. Sartre, A porte chiuse, 1944
3. Cfr. J-P. Sartre, L’essere e il nulla, 1943

[Photo credit Elton Yung su unsplash.com]

Una citazione per voi: Kant e la legge morale

DUE COSE RIEMPIONO IL MIO ANIMO DI AMMIRAZIONE SEMPRE NUOVA E CRESCENTE: IL CIELO STELLATO SOPRA DI ME, E LA LEGGE MORALE IN ME

(I.Kant, Critica della ragion pratica, Laterza, Bari, 1976, pg. 197)

 

Kant pone questa citazione alla fine della Critica della Ragion Pratica nel 1788.

Si richiama fortemente alla rivoluzione scientifica ed uno dei punti di riferimento è Bacone; ci porta, infatti, a soffermarci su una facoltà imprescindibile di cui è dotato l’uomo: la Ragione. Rivolgere lo sguardo al cielo stellato vuol dire ricordare all’uomo di cosa è capace, cioè il poter governare e studiare la natura attraverso la sensibilità, l’intelletto e le sue categorie. L’uomo governa la natura, questa si confà alla ragione e non viceversa, l’uomo si riscopre soggetto in un mondo in cui fino a quel momento era stato oggetto. L’uomo si astrae dal suo stato di minorità e si riscopre soggetto in un mondo di fenomeni, l’uomo valica le famose colonne d’Ercole del sapere grazie alla Ragione.

Ponendo lo sguardo alla legge morale il richiamo è forte a Rousseau, ma per il filosofo la legge morale porta l’uomo a determinarsi come persona all’interno della società: nessuno ci obbliga ad aderire alla legge morale, ma chi sceglie di farlo lo fa in relazione alla società in cui vive ed è colui che è dotato di autocoscienza. Le legge morale fa parte di tutti noi e ci guida nell’azione, la domanda di Kant sorge nel momento in cui si chiede perchè decidiamo di aderire ad una morale comune nonostante nessuno ci obblighi?

La grandezza del filosofo sta nel riconoscere l’uomo come soggetto che riesce ad unire ambito morale, pratico, e teoretico. Un soggetto che è in grado di riconoscere dentro di sé un io interiore che sa domandarsi come agire secondo imperativi che ha dentro di sé. Questa citazione aprirà ad importanti dibattiti in filosofia che rimangono tuttora aperti sulla natura della morale; sarà anche ripresa da J.S. Mill che parlerà del rapporto dell’individuo con la libertà e sarà d’ispirazione per tutti gli autori successivi come Fichte o Hegel e si rivelerà fondamentale per il futuro esistenzialismo.

 

Francesca Peluso

 

 

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Riflessioni sulla relatività del bello

Quando si pensa al concetto di bello, la prima domanda che viene da porsi è quella sulla diversità dei gusti e se esista o meno quello che i greci definivano to kalón, il bello assoluto.
Le esperienze estetiche provengono non solo dall’arte, ma anche dalla quotidianità – come tutte le volte che esprimiamo giudizi osservando semplicemente una persona, un oggetto o un fenomeno naturale – facendo sì che l’apprezzamento o la delusione diventino l’unico strumento di misura dell’esperienza appena fruita.

Ma quale parametro viene utilizzato affinché un giudizio di gusto possa ambire a divenire universalmente condiviso? E soprattutto, esiste davvero un modello perfetto di bellezza? Un’idea di bello platonico?
Se si pensa all’essere umano e al suo modo di giudicare i fenomeni, comprendiamo come egli si basi su un determinato modello di bellezza, che viene posto come ideale, per poi categorizzare oggetti e persone in base ad esso, fermo restando che tale idealizzazione sia inevitabilmente condizionata dalla cultura e dalla società. Esempi interessanti ci vengono dal mondo artistico, che per eccellenza risulta essere la culla delle esperienze estetiche: quando, ad esempio, a Parigi nel 1874 si tenne la prima esposizione delle nuove opere impressioniste, i fruitori la considerarono un’azione eversiva che poco aveva a che fare con le loro abitudini artistiche.
Come sappiamo, la pittura impressionista prendeva le distanze dal classicismo – e da quelle forme ideali e canoniche di bellezza – traendo spunto dal romanticismo e dal realismo che propendevano verso l’assoluta libertà dell’artista di esprimere le proprie emozioni.

L’arte rimanda a sua volta ad un altro tema concernente il giudizio estetico: il cambiamento nel corso dei secoli dei canoni di bellezza. Basti pensare a come si sia modificata nel tempo la visione del corpo di donna, che nelle rappresentazioni antiche veniva esaltato nella rotondità e generosità delle forme. Se oggi si pensa ad una donna “perfetta” non la si identificherà certo con la Venere del Botticelli o con la Maya desnuda di Goya, e questo perché sono visibilmente mutati i gusti della società e collettività. Il che porta a pensare alla labilità dei modelli che oggi i più inseguono per potersi omologare a ciò che viene ritenuto appunto “bello”.

Si pensi alle tendenze del momento dettate dai social network, in particolare da Instagram, e a quanto queste influenzino il gusto a livello universale, muovendo verso l’uniformazione delle personalità. Lo stesso accade anche per parte della musica di oggi, che tenta di cavalcare l’onda delle tendenze del momento. Tali brani musicali vengono chiaramente considerati “belli”, non perché lo siano realmente, ma per ciò che rappresentano all’interno della società, facendo appunto sentire i giovani più omologati. Lo stesso accade nel mondo dell’arte, in particolare quando si parla di mostre d’arte contemporanea o performativa, che espongono il più delle volte opere non propriamente belle ma ricche di concettualità; ed è proprio in favore di questa che molti considerano “belle” opere che di fatto non posseggono tale caratteristica.

Riflettendo su quanto detto, si è portati a pensare che il giudizio estetico collettivo si formi a partire da idealizzazioni primariamente soggettive, in quanto è necessario riconoscere la soggettività del gusto e dunque la sua relatività, cosa che ci potrebbe portare ad affermare che in qualche modo esista una sorta di “idea del bello” – che a differenza di quella platonica non si troverebbe in una dimensione iperuranica ma sarebbe frutto del gusto umano basato su esperienze fenomeniche. Contemporaneamente, ci si rende conto di quanto tali posizioni particolari, essendo solitamente influenzate da fattori esterni, vadano a formare un tipo di giudizio che potremmo definire universale.
Tuttavia, potremmo chiederci se tale universalizzazione di un determinato giudizio estetico conduca ad una definizione univoca e realistica di ciò che è bello. Secondo la famosa prospettiva di Kant ne La critica del giudizio (1790), i giudizi, per essere condivisi intersoggettivamente, non devono essere fondati su concetti ma devono svincolarsene.

Possiamo quindi affermare che il concetto di “bello” (ugualmente a quello di “brutto”) sia essenzialmente ambiguo, relativo e assolutamente mutevole nel tempo; ciò porta a concludere che tali concetti, non essendo liberi da condizionamenti esterni, rientrino nel campo del gusto personale, e che, come qualsiasi opinione, non stiano nella verità assoluta. Per questo, anche laddove venissero espressi giudizi di gusto negativi rispetto ad un qualsiasi fenomeno, persona, oggetto, opera d’arte è necessario ricordare che molto probabilmente un giorno ciò che attualmente viene considerato in un determinato modo potrebbe venir considerato nel modo opposto, a dimostrazione del fatto che non esistano il bello e il brutto assoluti.

 

Federica Parisi

 

[Photo credit Erol Ahmed via Unsplash]

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Immanuel Kant, l’Illuminismo e il coraggio

Quando nel 1784 scrisse Risposta alla domanda: Che cos’è l’Illuminismo?, Kant non pensava probabilmente di essere così pervicace nel tempo. Con questo saggio pubblicato sulla rivista tedesca Berlinische Monatsschrift si poneva il compito – seppur arduo – di rivolgersi direttamente ai suoi lettori, in modo da far comprendere loro con chiarezza che cosa fosse l’Illuminismo. In effetti queste poche pagine rivelano rigo dopo rigo una densità e una complessità concettuale di indiscutibile valore e attualità.

I concetti sono chiari, le parole cesellate in perfetto stile kantiano, le immagini metaforiche opportunamente pensate e sviluppate. Insomma, l’indiscutibile tocco del maestro capace di far comprendere tutto a tutti con chiarezza e precisione (perché il più grande pregio sta nell’essere semplici).

Ed è probabilmente per questo motivo che Kant esordisce subito con una definizione, proprio per farsi capire da tutti:

«L’Illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità di cui egli stesso è colpevole. Minorità è l’incapacità di servirsi della propria intelligenza senza la guida di un altro. Colpevole è questa minorità, se la sua causa non dipende da un difetto di intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di servirsi di essa senza essere guidati da un altro. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! Questo dunque è il motto dell’Illuminismo»1.

Kant insegna anche quando non vuole insegnare: l’uomo può essere maggiorenne o restare minorenne, ma non banalmente per età, piuttosto per intelligenza. Dotati per natura di intelligenza, dobbiamo scegliere per decidere se usarla da sé o sotto la guida di un altro. Proprio come avviene nella vita, fino ad una certa età, è bene (e utile) farsi aiutare dagli altri, in particolar modo da chi è più grande di noi, perché più maturo, più esperto, più capace; giunto però innanzi con l’età devo scegliere di far da me, anche se mi può capitare di sbagliare. Restare sottomessi alla volontà e all’intelligenza degli altri, quando ormai è giunto il momento di voler fare da soli, proprio non va bene!

Allora, dov’è il problema? Non siamo capaci di scegliere? Non siamo cresciuti? No, semplicemente non abbiamo coraggio. Abbiamo paura di osare. Non abbiamo il coraggio di essere intelligenti, cioè di farne la nostra essenza. Questo sapere aude, che Kant indica come il motto dell’Illuminismo, rivela un fascino tutto da spendere, e forse oggi ancora di più, perché – aggiunge Kant – «pigrizia e volontà sono le cause per cui tanta parte degli uomini, dopo che la natura li ha da lungo tempo liberati dell’altrui guida, rimangono tuttavia volentieri minorenni a vita; e per cui riesce tanto facile sugli altri erigersi a loro tutori. È così comodo essere minorenni!»2.

È comodo restare minorenni come stato esistenziale, perché c’è sempre qualcuno che si ergerà a nostro tutore e che sceglierà per noi, senza che ci si debba sforzare. Non pensiamo, non ci assumiamo responsabilità, non ci preoccupiamo di nulla, tanto ci sarà qualcun altro che lo farà per noi. Questo lavoro difficile e “pericoloso” lo farà qualcuno che benevolmente si sostituirà a noi «dopo aver accuratamente impedito che queste placide creature osassero muovere un passo fuori dal girello da bambini in cui le hanno imprigionate»3.

Eppure, cadendo di qua e di là – come fanno i bambini –, in breve tempo potremmo imparare a camminare da soli. Un po’ di spavento varrà la fatica e lo sforzo dell’impresa! Tuttavia c’è chi ama questi ceppi. C’è chi è realmente incapace di servirsi della propria intelligenza, non avendo mai avuto la possibilità o l’occasione di metterla alla prova.

Questo processo di emancipazione dalla minorità Kant lo definisce aufklärung, come una “uscita”, una modificazione del preesistente rapporto tra autorità e volontà di usare la nostra ragione. Siamo responsabili della nostra minorità, da cui possiamo uscire solo grazie ad un cambiamento che dobbiamo operare su noi stessi. Un atto di coraggio personale e collettivo, un cambiamento storico. Certo, se si è “pezzi di una macchina” bisognerà pur svolgere un ruolo nella società, adattando la propria ragione a determinate circostanze, ma quando non siamo “pezzi di una macchina” l’uso della ragione deve essere libero. Anche perché un uso illegittimo della ragione (propria ed altrui) genera illusione, dogmatismo.

Ed è in linea con tale logica operativa che Kant affronta il problema. Aufklärung è dunque un ethos di critica permanente del nostro essere storico. È un attualissimo filosofare del limite, un geniale atteggiamento maieutico del pensare in travaglio, una “chiarificazione”sulla nostra fragilità.

 

Lia De Marco

Laureata in filosofia presso l’Università degli Studi di Bari, abilitata in diverse classi di concorso per l’insegnamento nelle scuole superiori di I° e II° grado, ha insegnato dal 1999 in numerosi licei della Puglia. Attualmente è docente di filosofia e storia presso il Liceo “G. Bianchi Dottula” di Bari. Già progettista formativo ed europrogettista, ha maturato un’ampia esperienza nel campo della formazione professionale. Componente del gruppo Buone Prassi della Società Filosofica Italiana (S.F.I.) – Sezione di Bari, si occupa di sperimentazione di attività di didattica integrata della filosofia. Promuove ed organizza eventi culturali e collabora con diverse riviste specialistiche.

 

NOTE:
1. I. Kant, Che cos’è l’Illuminismo, Mimesis, Milano-Udine 2012, p. 9.
1. Ibidem.
I. Kant, op. cit., p. 10.

[Photo credits Marty Finney su unsplash.com]

La filosofia del kamikaze: l’esteta dell’uccido ergo sum

Turchia, 16 ottobre 2016: un uomo decide di farsi saltare in aria in un campus universitario a Gaziantep, città vicino alla frontiera con la Siria. Durante il blitz della polizia turca contro la cellula dormiente, sono rimasti uccisi 3 agenti e ferite altre 8 persone. Quel giorno, a causa di un’esperienza di volontariato, mi trovavo solo a pochi km di distanza dall’esplosione. Immobilismo e incredulità sono state le prime reazioni. E sebbene siano state diverse le domande a cui non ho trovato una risposta che potesse colmare ormai l’origine di una lacuna esistenziale, è riuscita a dipanarsi una certezza: la definizione di kamikaze.

Il termine kamikaze si attribuisce agli autori di attentati suicidi. È una parola di origine giapponese formata dai kanji vento (kaze) e dio (kami). Il termine fece la sua prima comparsa nel racconto storico Annali del Giappone in cui si narra la storia di Kamikaze, lo spirito del vento. Inizialmente la pratica dell’azione-suicida era usata solo in strategie militari di guerra, ma negli ultimi anni con l’espressione kamikaze si evoca quella dimensione terroristica che mette in scena uno “spettacolo”.

È possibile delineare due livelli di comprensione dell’esperienza del kamikaze: esterno e interno. Da un punto di vista esterno il kamikaze, nell’essere così legato al mondo delle apparenze, è un essere estetico, come viene definito da Laurent de Sutter (Teoria del Kamikaze, 2017).
Nella sua azione il kamikaze rende invisibile tutto con un’unica eccezione: il flash di luce causato dall’esplosione. Un’apoteosi di luce che dura poco più di un istante e che si porta con sé il suo stesso fautore, lasciando unicamente distruzione e morte.
L’attenzione mediatica che ne deriva non fa altro che sottolineare lo scopo di questa dimensione: impressionare. Nel mondo contemporaneo il kamikaze diventa un essere delle immagini e dell’apparenza, il cui fine è danneggiare il nemico non tanto a livello fisico, bensì su un piano psicologico. Il risultato è un’immagine forte al punto di paralizzare l’avversario con un atto che è avvolto dall’atmosfera del sublime.

Nella visione kantiana il sublime è ciò che è eccessivo: qualcosa che superi l’ordinaria bellezza e identifica una dimensione estetica dove la paura dello straordinario – inteso come non ordinario – sia contenuta nel proprio piacere. Un qualcosa dunque che può riferirsi solo alla sfera del “divino”: montagne, vulcani, tempeste – come sostenuto dal Romanticismo.
In questo caso, nella sfera degli attacchi suicidi, invece, il sublime è l’esperienza della catastrofe dell’essere nella sua totalità. Da qui il “romanticismo” dei turisti attratti dagli scenari di desolazione causati dalle esplosioni.

Dal suo punto di vista invece, quello interno, l’uomo-kamikaze comprende che il sublime si riferisce solo allo straordinario, accetta la possibilità di essere attraversato da quest’ultimo arrivando così a identificarsi in un entusiasmo “divino”. Il fanatico kamikaze che porta all’esplosione di sé stesso esiste solo in quel preciso istante. Una vita a prepararsi per quel gesto che è unico e irripetibile, in cui prende forma il senso di tutte le cose. Rivisitando così la locuzione di Cartesio Cogito ergo sum è possibile attribuirgli un’espressione analoga: Uccido ergo sum.
La figura delineata assume i tratti di un essere complesso sia nella sua dimensione esteriore che interiore. È pertanto chiaro come la guerra contro il fanatismo e la sua espressione nei kamikaze non si possa svolgere su un piano meramente fisico, ma deve coinvolgere dimensioni più complesse, andando a scavare nelle coscienze e nell’etica.
Importante è offrire dunque un’alternativa a quello che pare essere l’unica possibilità di esistere: il kamikaze.

 

Jessica Genova

 

[Immagine di copertina scaricata da pixabay.com]

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Informare a tutti i costi? I confini etici dell’informazione mediatica

Nel 2000 il telegiornale nazionale israeliano (Israeli Broadcasting Authority) trasmise in prima serata un video, in cui venne mostrato integralmente lo stupro di una donna al fine di sensibilizzare il pubblico ad un fenomeno allora sempre più diffuso nella società israeliana. Una tale scelta è lecita, oppure avrebbe dovuto essere censurata? Quali sono i limiti della libertà di espressione?

Gli argomenti a favore della trasmissione del video sono molteplici. In primis, per dirla con le parole di un grande difensore ottocentesco della libertà, John Stuart Mill, «il divieto pubblico di esprimere un’opinione è un delitto contro l’intera umanità». Il comportamento della tv israeliana potrebbe essere poi giustificato sostenendo l’importanza di informare il pubblico su un fatto accaduto. I cittadini hanno il diritto di essere messi al corrente di ciò che succede intorno a loro così da diventare consapevoli dei pericoli che li circondano. Inoltre tale visione, secondo l’emittente, dovrebbe avere un valore pedagogico, utile per far riflettere gli spettatori sulla gravità dell’evento.

È evidente che un video, così come un’immagine, ha un impatto emotivo sulle coscienze più forte del semplice linguaggio verbale. L’altra faccia della medaglia, d’altronde, è che un certo tipo di filmato potrebbe ledere la sensibilità dei telespettatori, in modo particolare dei minori (ricordiamoci che siamo in prima serata!). Inoltre, teniamo conto del fatto che questa donna, prima ancora di essere la vittima di atroci violenze, è una persona, la cui dignità viene lesa riducendola ad un mero strumento di comunicazione. Rispetto a ciò dovremmo forse prestare ascolto a Immanuel Kant e alla sua celebre formulazione dell’imperativo categorico: «Agisci in modo da considerare l’umanità, sia nella tua persona, sia nella persona di ogni altro, sempre anche al tempo stesso come scopo, e mai semplicemente come mezzo».

Bisogna oltretutto tener presente il fatto che episodi di violenza di questo tipo, mostrati ad un largo pubblico, potrebbero generare un effetto contrario come l’emulazione (per così dire “la violenza genera violenza”). In merito a ciò, parafrasando Hannah Arendt, non rischieremmo forse di giungere a “banalizzare il male”? Essendo sottoposti continuamente a immagini di un certo tipo la violenza rischia di diventare routine. E allora l’indignazione, a cui mira l’emittente, non verrebbe compromessa?

Non si può non considerare che un video di questo tipo potrebbe essere scambiato per mero intrattenimento. L’emittente potrebbe sostenere che sia il pubblico stesso a richiedere la trasmissione del filmato; ma sono davvero gli spettatori a scegliere cosa guardare oppure sono i media stessi a influenzare le nostre preferenze? La tv potrebbe ribattere che si è pur sempre liberi di cambiare canale. Tuttavia il problema resta: di chi è la responsabilità della trasmissione? Del pubblico stesso, che attraverso lo share manifesta l’interesse, o dell’emittente che la manda in onda? E se a prevalere fosse l’interesse economico?

In fondo il pubblico è un’entità eterogenea e variegata; da un lato ci sono persone già sensibili a questo tema, a cui la visione non recherebbe alcun giovamento, dall’altro chi è già tendente a comportamenti violenti potrebbe prenderne esempio o entusiasmarsi.

Pur salvaguardando la libertà di espressione, temi sensibili come lo stupro, potrebbero essere trattati in altri modi come, ad esempio, promuovendo anche mediaticamente dei dibattiti e delle testimonianze per sensibilizzare le persone in tal senso. In sintesi, il focus della questione sembrerebbe essere il confine tra la libertà di informazione – che ha anche carattere pedagogico – e la censura di contenuti violenti. Pertanto è auspicabile proporre possibili modelli di intervento, tenendo in mente «una regola fondamentale: attendersi il peggio, e annunciarlo francamente, e nello stesso tempo contribuire alla realizzazione del meglio».

Innanzitutto, il problema della censura potrebbe essere ovviato attraverso l’autodisciplinamento dei media stessi. Riguardo a ciò, sarebbe importante attuare una rilettura dei codici deontologici di chi si occupa di informazione, che spesso non vengono considerati con sufficiente attenzione. Sarebbe consigliabile inoltre potenziare, o eventualmente istituire, degli enti nazionali o internazionali super partes – sul modello dei comitati bioetici – composti da diverse figure professionali (filosofi, sociologi, esperti di etica della comunicazione, psicologi, etc.).

Naturalmente, le precedenti misure non potranno essere del tutto efficaci senza l’introduzione, nel percorso di formazione dei cittadini, di un’educazione all’utilizzo delle tecnologie e dei media. Tali problemi, tra l’altro, non sono estranei al nostro quotidiano: siamo al centro di questo dibattito, sia da spettatori che da attori. Non siamo forse responsabili a nostra volta della visualizzazione e condivisione di certi contenuti, che ogni giorno incontriamo sui social media?

“Mi piace”, “Condividi”, “Blocca”, “Segnala”: non sono forse queste le azioni da non sottovalutare? In fondo basta un click. La scelta è nostra.
Elena Soppelsa, Ludovica Algeri, Francesca Steffenino, Stefano Strusi, Lorenzo Milano e Leonardo Diddi
Corso Etica Applicate – Università di Pisa 

 

Bibliografia:
– O. Ezra, Freedom of Expression in Academia and Media, in Moral Dilemmas in Real Life, Law and Philosophy Library, vol. 74. Spriger, Dordecht 2006.
– M. Horkeimer, Eclissi della ragione. Critica della ragione strumentale, tr. it. a cura di E. Vaccari Spagnol, Biblioteca Einaudi, Torino 2000.
– I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, a cura di V. Mathieu, Bompiani, Milano 2017.
– J. S. Mill, Sulla libertà, a cura di G. Mollica, Bompiani, Milano 2000.

Sul tema dell’informazione si è confrontato anche un altro gruppo di studenti dell’Università di Pisa in questo articolo.

Breve storia del dualismo per principianti

Vi siete mai chiesti in che relazione siano anima e corpo? Oppure, per dirla in termini più “scientifici” e attuali, mente e cervello? Esistono davvero entrambi, oppure tutto ciò che pensiamo, proviamo, facciamo è riducibile alla materialità della nostra corporeità?
I discepoli scientisti del “se non vedo, non credo”, ritengono che tutto ciò che esiste realmente sia solo fisico e tangibile.
Secondo me, invece, in questa prospettiva completamente materialista, c’è una riduzione ingiusta della natura e dell’uomo alla sua sola cosalità.
Niente di male, ci mancherebbe, nel vivere secondo materia: tutto ha un corpo e la corporeità è il nostro unico modo d’esistere, il corpo permette di relazionarci con il mondo. Ma se mancasse qualcosa, non necessariamente migliore, superiore o più sacro del corpo e della materia, ma che li completi? Spirito, anima, forma, mente, date all’invisibile il nome che più vi piace.

Ammettendo l’esistenza di questo non tangibile, in che rapporti sarebbe con il tangibile? La maggior parte, scommesse aperte, risponderebbe affermando due principi separati, anima da un lato e corpo dall’altro.
Persino molti cristiani – cattolici e non – che credono, in teoria, nella resurrezione della carne, in cuor loro immaginano l’anima immortale in Paradiso e il corpo dimenticato sottoterra chissà dove.
E la colpa, se consapevoli o ignari, pensiamo dualizzando è della filosofia. O meglio, di alcuni grandi filosofi.

Da Platone in poi, tutto fu due.
È dal più brillante dei discepoli di Socrate che per la prima volta, nella storia della filosofia, entra di gran carriera l’idea dell’esistenza di due mondi separati, il primo, per origine ed importanza, eterno, immobile, incorruttibile; l’altro, transeunte, in continuo divenire, sottoposto a generazione e corruzione.
Nessun vento contrario poté opporsi alla forza della navigazione portata avanti dalle braccia del filosofo, che avrebbe pronunciato la sentenza secondo la quale materia e spirito, sensibile e sovrasensibile, sarebbero ontologicamente differenti e l’uno subordinato all’altro.

Aristotele tentò di porre rimedio alla divergenza abissale tra materia e forma inserendo il concetto di sostanza, ma non bastò a risolvere la questione.
Sulla scia del neoplatonismo e del manicheismo, Agostino perpetuò l’idea di corpo impuro e materia malvagia, assunti che Tommaso rivide dicendo che l’anima, la carne e le ossa appartengono alla struttura stessa dell’uomo (d’altro canto Gesù diceva che il corpo è tempio dello Spirito!).

Ma la modernità s’affacciò prepotente e matematica sul pensiero medioevale al tramonto, fiduciosa dei suoi alambicchi  e certa delle sue equazioni.
Cartesio, con la sua celebre massima “Cogito ergo sum, pose la pietra tombale sulla possibilità di riunire anima e corpo nei secoli filosofici a venire. Res cogitans e res exstensa, pensiero e materia, nell’uomo così maldestramente collegate da una qualche ghiandola, costituirono la base della sua riflessione e di problemi che tutt’oggi non riusciamo a scrollarci di dosso. La materia, operante secondo leggi fisiche determinate, altro non era se non un guazzabuglio di qualità miste ad estensione e, nel caso del corpo umano o animale, le parti costituivano una macchina in tutto e per tutto insensibile di per sé, animata da un io pensante, una coscienza sicura solo della propria esistenza grazie a un percorso che parte dal dubbio iperbolico per approdare a una verità propria dell’attività noetica. Solo all’anima spettavano le sensazioni, le esperienze, la ricerca della verità.

Kant, sicuramente uno dei più grandi pensatori di tutti i tempi, riuscì solo a spostare il problema che, dall’ambito ontologico – ossia dell’essere – passò a quello conoscitivo (possiamo conoscere solamente i fenomeni, ma non potremo mai arrivare all’essenza delle cose!); e anche lo Spirito di Hegel, benché non immediatamente, si rivelò un buco nell’acqua ai fini della risoluzione del problema, che tutt’ora perdura se non proprio a livello accademico (un particolare tipo di approccio fenomenologico pare abbia tentato di sciogliere i principali nodi), almeno per il senso comune.

La scienza contemporanea, infatti, confonde ulteriormente le acque, tentando di mostrare come tutte le attività che prima attribuivamo all’anima o alla mente, non siano altro che particolari legami tra neuroni: questo non solo è improbabile da affermare alla luce delle attuali conoscenze, ma condiziona il senso comune già accennato: quanti agiscono come se avessero un’anima, ma, se viene chiesto loro cosa ne pensano a riguardo – si sa che con l’internet tutte le discipline sono diventate democratiche (ma giuste?) piazze di dibattito – , rispondono riponendo piena e totale fiducia nella ricerca scientifica che un giorno arriverà a dirci come il nostro cervello produca pure emozioni e coscienza e pensiero.

Come risolvere, dunque, la questione? Accogliendo a braccia aperte i grandi traguardi delle scienze naturali, per poi ritornare, con questi nuovi tesori tra le mani, alla filosofia, dove tutto ha avuto inizio. Troppo spesso l’approccio scientifico riduce e riduce, fino a conglomerare l’uomo e il mondo in una capocchia di spillo, come se potesse davvero esaurirsi tutto fisico, tutto lì.
Ed è qui che rientra in gioco la filosofia, come via preferenziale per capire l’uomo e non solo: essa è l’unico modo possibile per imparare a vedere il mondo nella sua interezza, è un esercizio faticoso ma che permette di conoscere il senso d’essere del mondo e di collocare le cose stesse all’interno di un orizzonte di senso.

 

Vittoria Schiano di Zenise

 

24 anni, studentessa magistrale presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, s’interessa particolarmente di Filosofia Teoretica e Bioetica.
Convita sostenitrice della dell’utilità pratica e quotidiana della Filosofia, s’impegna nella divulgazione di vario genere.
S’approccia allo studio della percezione, attraverso gli scritti di Maurice Merleau-Ponty, e a quello che ne consegue: filosofia della mente, estetica, psicologia e – soprattutto – lingua francese.

 

[Photo credits Cody Davis on unsplash.com]