Arte ed esperienza: l’artistico nella vita quotidiana

Nel 1961 Allan Kaprow riempì il cortile retrostante alla Martha Jackson Gallery di New York di vecchi copertoni d’auto. Moltissimi, tutti accatastati l’uno sull’altro. Con questo nuovo e inaspettato spazio, i visitatori della galleria, inizialmente disorientati e perplessi, hanno cominciato ad interagire: hanno corso sopra i copertoni, li hanno spostati, ci si sono distesi, ci hanno giocato, ci sono saltati sopra, hanno creato delle costruzioni e poi le hanno distrutte.
Allan Kaprow era un artista e quella appena raccontata un’opera d’arte in piena regola e con tanto di titolo: Yard, 1961.

Se dovessi chiedervi a bruciapelo di definire il concetto di arte, sono certa che di primo impulso mi parlereste di oggetti: la Venere di Milo, la Monna Lisa, il Taj Mahal; magari a qualcuno verrebbe giustamente da citare la nona di Beethoven e una poesia di D’Annunzio, o magari altri si spingerebbero addirittura a nominare pure il proprio MacBook Pro fino al disegno che ha fatto a scuola il nipotino. Se ne potrebbe discutere in tutte le salse, ma tutto sommato non ci troveremmo nulla di troppo strano. A pensarci bene, però, l’arte ha a che fare con la nostra vita quotidiana in una quantità pressoché infinita di modalità, e dunque non riguarda solamente gli oggetti che la popolano, ma anche le esperienze che facciamo di essi. Arte, per esempio, è l’esperienza di Michelangelo che scolpisce la Pietà vaticana, ma anche quella del visitatore di San Pietro che se la trova davanti: è dunque un’esperienza sia del creatore che del fruitore. Per qualcuno può essere anche la Pietà vaticana stessa perché in effetti, se ci pensiamo, sarebbe difficile stabilire se l’opera d’arte sia la partitura del notturno di Chopin oppure la sua esecuzione.

Quello che gli Environment di Allan Kaprow (come il sopracitato Yard) hanno voluto dimostrare, e con loro tutta la performance art e in particolare la vivacità degli happening degli anni Sessanta, è che l’arte non si limita a essere oggetto d’arte, e nemmeno solo l’esperienza che facciamo di quell’oggetto: arte può essere l’esperienza stessa. Anche sdraiarsi su un ammasso di vecchi copertoni.

Certo, parliamo di una tipologia molto specifica di esperienza. Considerando l’esperienza come la continua interazione dell’uomo con l’ambiente in cui è inserito, il filosofo americano John Dewey ha voluto distinguere la routine, intesa come un susseguirsi di avvenimenti che rimangono impressi come mera successione, da una esperienza compiuta – traduciamo noi –, una consumatory experience – scrive Dewey, quindi letteralmente consumata, vissuta fino alla fine e interiorizzata, come si consuma del cibo. Poiché l’interazione dell’uomo con il mondo è di tipo qualitativo, dunque dipendente da percezioni, sensazioni e suggestioni, l’esperienza ordinaria viene intensificata dall’arte diventando appunto esperienza “consumata” (compiuta). Scrive infatti il filosofo ne L’arte come esperienza (1934) che «è questo grado di compiutezza della vita nell’esperienza del fare e del percepire che fa la differenza tra ciò che è arte e ciò che non lo è».

Per Dewey allora l’arte (work of art) non si esaurisce nell’opera d’arte (art product). Se volessimo proprio rispondere all’impossibile domanda “che cos’è l’arte” diremmo dunque che, almeno secondo Dewey, l’arte è proprio nell’esperienza generata dall’opera d’arte. Per esempio dunque l’arte si compie nel momento in cui io leggo il romanzo e non nel romanzo stesso.

L’esperienza artistica si “stacca” dalla routine, dall’esperienza ordinaria e appena abbozzata (contrariamente alla consumatory experience), ma da essa deve partire, da essa si sviluppa: l’arte deve permeare la nostra quotidianità e dunque ha valore soprattutto nella propria contemporaneità. La riflessione di Dewey infatti va ancora più a fondo, arrivando a sostenere che senza la sua connessione al sociale, l’arte viene snaturata. Per fare un esempio chiaro, il Partenone che svetta sull’acropoli di Atene per noi non può essere altro che un work of art: gli manca quel valore politico e sociale che aveva per gli antichi greci e che noi oggi possiamo riconoscere ma non vivere sulla nostra pelle. Questo anche perché l’arte non si dà solo in un’esperienza “subita”, dunque recepita, ma è ugualmente fondamentale la dimensione del fare e dell’agire; recepire e fare devono essere in perfetto equilibrio affinché si possa parlare di arte.

Chissà cosa avrebbe detto John Dewey dei copertoni di Allan Kaprow…?

 

Giorgia Favero

 

[Photo credit arttribune.com]

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Dewey e la democrazia radicale, tra complessità e intenzionalità comune

La società umana si evolve nel segno della complessità. I saperi diventano più settorializzati e corrispondentemente meno accessibili e possiamo raffigurarci la crescita della complessità come una moltiplicazione di vocabolari i quali, a mano a mano che si sviluppano, diventano reciprocamente intraducibili, se vogliono mantenere la propria specificità. Una delle conseguenze più lampanti di tale processo è la frammentazione dell’opinione pubblica, cristallizzata in spaccature politiche a tratti mai tanto evidenti, che trova casa nell’individualismo montante nelle nuove generazioni, che si spinge fin nel cuore di quei mezzi che, idealmente, rispondono a un crescente bisogno di connessione e comunicazione (leggi: social media, ma anche l’internet in generale), ma che finiscono per rimanere intrappolati nelle distorsioni cognitive che ci portiamo appresso.

Parallelamente a tale frattura, possiamo riconoscere un trend interno al processo democratico che ha progressivamente allontanato l’elettorato dal legislatore e (a tratti) dalla figura dell’esperto, alleanza sempre più frequente e ben esemplificata dai numerosi governi tecnici cui abbiamo assistito nel recente passato.

Il tema fu portato al grande pubblico grazie al dibattito tra il filosofo americano John Dewey e il giornalista Walter Lippmann: quest’ultimo negava che il pubblico avrebbe potuto mantenere il proprio ruolo privilegiato all’interno della democrazia, poiché l’avvento dei mass media lo stava rendendo sempre più manipolabile e di conseguenza incapace di prendere decisioni autonome. La soluzione? Virare verso la tecnocrazia.

Nulla di tutto ciò suonerà particolarmente nuovo al lettore; Dewey fu un accanito difensore della democrazia, e propose utili riflessioni in proposito: nel suo Comunità e potere1, egli si concentra in particolar modo sulla transizione tra ciò che egli chiama «Grande Società» e la «Grande Comunità». Nel prosieguo dell’esposizione, tenterò di rendere intelligibile questo passaggio e di come questo si agganci alle tematiche attuali.

Innanzitutto, la democrazia per l’autore americano è da intendersi come etica, riprendendo l’idea greca di ethos come insieme di costumi, norme, atteggiamenti, sentimenti e aspirazioni che caratterizzano la vita di un popolo. Lo Stato non deve le proprie origini a una qualche causa trascendentale, bensì al fatto che la comunità di persone, diventando più numerosa e di conseguenza più vulnerabile alle manchevolezze dei propri membri, decide di tutelarsi dalle conseguenze indirette delle azioni individuali; vengono eletti dei pubblici ufficiali affinché gli interessi comuni vengano protetti e gli ufficiali, a loro volta, vengono vigilati dal pubblico, il quale controlla i loro appetiti egoistici attraverso il meccanismo dell’elezione periodica.

Il processo decisionale, tuttavia, non è riuscito a tenere il passo di una crescente complessità. Quella natura processuale della democrazia, ben descritta da Tocqueville nel suo La democrazia in America, si è ridotta progressivamente alla conta delle preferenze degli elettori, come su di un pallottoliere. Non che la democrazia come calderone di tutto ciò che porta alla definizione, sempre dinamica e a circolo aperto, di quelle opinioni sulle quali gli elettori si esprimono, sia venuta a mancare; ma il battage dell’expertise ha oscurato ulteriormente tale processualità, spostando i riflettori sulla figura dell’esperto e lasciando al pubblico il “mero” esercizio del voto.

Questo scollamento tra policy makers e pubblico annebbia la visione d’insieme: in primo luogo, come il recente caso Trump ammonisce, problematiche scientificamente ovvie – il riscaldamento globale – possono essere così lontane dalla coscienza del pubblico, che la sola conoscenza accademica non riesce a smuovere l’impasse. Rischiamo di alimentare un intellettualismo privo di braccia. In seconda battuta, la figura stessa dell’intellettuale e dell’esperto è stata a tratti sopravvalutata, non quanto alla risoluzione di teoremi o ad avanzamenti nanotecnologici, bensì quanto alla risoluzione di problemi pratici; attualmente, impieghiamo risorse mentali vergognosamente insufficienti per rispondere alla difficoltà dalle sfide contemporanee.

Allontanandosi da qualsiasi contrattualismo semplicistico, la società per Dewey non è un aggregato di individui, non una necessaria frizione di soggetti: si tratta di un organismo che agisce, guidato da intenzioni comuni. All’intenzione è pregiudiziale la comunicazione; di conseguenza, un volere diviso si rispecchia in una trasmissione di saperi altrettanto frammentaria. «Abbiamo strumenti materiali di comunicazione che non abbiamo mai avuto nel passato; ma i pensieri e le aspirazioni conformi a tali strumenti non si comunicano e quindi non diventano comuni a tutti. Senza tale comunicazione d’idee il pubblico rimarrà oscuro e informe, cercandosi spasmodicamente, ma afferrando e trattenendo la sua ombra anziché la sua sostanza. Finché la Grande Società non si convertirà in una Grande Comunità, il Pubblico rimarrà in uno stato di eclisse. […] La nostra non è una Babilonia delle lingue, bensì dei segni e dei simboli, in mancanza dei quali è impossibile un’esperienza comune»2.

Queste parole sono cariche di suggestioni e lasciano aperte molte questioni. Quali sono “i pensieri e le aspirazioni” dell’interconnessione contemporanea, forse la comunicazione universale, oltreché istantanea ed efficiente? Quali le forme che realizzano un’esperienza comune, oggi che abbiamo innalzato algoritmi a cementare le nostre tensioni monadiche? La complessità avanza, la velocità incalza, ma la dimensione dell’umano ci richiede di ritornare pazientemente sui nostri passi e di confrontarci con le questioni che ci toccano più da vicino: la nostra capacità di costruire in comune, accordando l’intenzione dei singoli a una visione più ampia, smuovendo le coscienze dal proprio torpore individuale, stando attenti a non sacrificare la ricchezza della particolarità singolare.

 

Alessandro Veneri

Mi piace pensare. Cerco di distillare i contenuti che mi attraversano la coscienza, affaccendandomi talvolta per metterli su carta o codici binari. 
Un mantra di questo periodo è sperimentare se le scelte difficili rendano la vita un po’ più facile. In attesa di scoprirlo, le giornate si arricchiscono di studio filosofico, copywriting, passeggiate, e della presenza di cari amici.

 

NOTE:
1. Cfr. J. Dewey, Comunità e Potere, La Nuova Italia, Firenze 1971. L’edizione originale in inglese, dal titolo The public and its problems, è del 1927.
2. J. Dewey, Op. cit., p.112.

[Immagine tratta da Google Immagini]