Nizza. La sofferenza e la domanda di senso

Io chiedo come può un uomo uccidere un suo fratello.[…]

Io chiedo quando sarà che l’uomo potrà imparare a vivere senza ammazzare

F. Guccini

Parigi, Bruxelles, Istanbul, Dacca, Nizza: la spada di Damocle del terrorismo incombe sulle nostre esistenze. Posti di fronte a questi tragici eventi, dai cuori piangenti e dalle menti pensanti sorgono forti e spontanee le domande che interpellano l’uomo dalla notte dei tempi. Lame affilate che squarciano “il velo di maya” della superficiale quotidianità. Perché il dolore? Perché il male? Perché la violenza? Perché la sofferenza? Interrogativi che assumono un contorno ancor più straziante e incomprensibile, quando è l’uomo stesso a uccidere l’altro uomo, a provocarne la morte e l’annientamento.

Tali domande si fanno largo fra le nostre vite, reclamano risposte concrete, interpellano le nostre coscienze. “L’umanità – scrive Salvatore Natoli – in tutta la sua storia è stata attanagliata dall’esperienza del dolore e ad essa ha voluto dare un senso, di essa, in qualche modo, ha tentato una giustificazione”.1

Al di là dell’inconsistenza di certe risposte, l’uomo si sente chiamato a dare un senso alla sofferenza, in mancanza del quale ogni cosa assumerebbe le grigie tinte del non senso, con la conseguente svalutazione di ogni valore umano. Il dolore è quanto di più proprio, peculiare, individuale possa darsi nella vita degli esseri umani, i quali non potrebbero vivere la sofferenza se in qualche modo non le attribuissero un senso. Scrive Natoli:

Il dolore […] si fa experimentum crucis, sottopone a prova l’individuo che lo vive e si erge a controprova del senso dell’esistenza. […] il dolore è un’esperienza a suo modo originaria. L’umanità, provata dal dolore, si cimenta con esso e tenta risposte: ora lo sublima, ora lo subisce, ora lo vanifica come apparenza, ora lo percepisce come ineluttabilità. Il dolore, come contrassegno di ciò che esiste, diviene allora occasione di prova e di giudizio per l’intero senso dell’esistenza.2

Come Natoli, anche Viktor Frankl ha l’indiscusso merito di aver posto al centro della sua riflessione filosofica e psicologica, il senso della sofferenza a partire dal dolore. La singolarità di quest’esperienza, la solitudine di ogni soffrire segna e in qualche modo anticipa la più peculiare e solitaria delle esperienze umane: la morte. Per questo, una fenomenologia della sofferenza è possibile solamente alla luce di una profonda e strenua ricerca del suo significato.

Di fronte a un destino tragico e ineludibile, l’uomo si coglie come una struttura ontologica attraversata dal male e dalla sofferenza. Si coglie, non più come homo sapiens o homo faber, ma come homo patiens. La sofferenza diviene concreta possibilità di significato. Frankl sostiene che, anche nella tragedia, ciascuno di noi può trovare un senso alla propria vita, proprio nella misura in cui sottrae creativamente spazi di dominio  alla sventura e alla sofferenza.

L’uomo, anche rispetto alle gravi sciagure di questi giorni, è posto di fronte ad una sfida: affrontare il male a testa alta o soccombere. Egli può imparare a soffrire solo se non rinuncia alla sua dignità e alla sua responsabilità di fronte alla vita e al dolore irreversibile. Frankl, nella baracca del lager, cerca di aiutare i propri compagni a riscoprire il senso della vita. Proprio lì, proprio all’inferno:

Parlai delle molte possibilità di dare un senso alla vita. Raccontai ai miei compagni […] che la vita ha sempre, in tutte le circostanze, un significato, e che quest’ultimo senso dell’essere comprende anche sofferenze, morte, miseria e malattie mortali. […] li pregai di mantenere il loro coraggio […] perché la nostra lotta senza via di scampo aveva un senso e una sua dignità. Dissi loro che in queste ore difficili qualcuno guardava dall’alto, con sguardo d’incoraggiamento, ciascuno di noi, e specialmente coloro che vivevano le ultime ore: un amico o una donna, un vivo o un morto – oppure Dio. E questo qualcuno s’attendeva di non essere deluso, che sapessimo soffrire e morire non da poveracci, ma con orgoglio!3

Il compito dell’uomo è dunque quello di contrastare e superare interiormente il dolore inevitabile che lo colpisce dall’esterno. Un vita contrassegnata dalla sofferenza, può essere inondata di senso quando il singolo trova una ragione di vita idonea a sopportare la sofferenza stessa. Scrive Frankl: “è possibile affrontare la sofferenza e coglierne tutta la portata significativa solo se si soffre per amore di qualcosa o di qualcuno. […] Una sofferenza ha senso quando è sofferenza ‘per amore di…’. Mentre la si accetta, non solo la si affronta ma, attraverso di essa, si ricerca qualcosa che non è ad essa identica: la si trascende”.4

Imparare a dare un senso alla sofferenza è un lungo e faticoso cammino che richiede la capacità di soffrire. L’uomo non possiede questa capacità “deve acquistarsela, deve guadagnarsela: se la deve soffrire”.5 Essa rientra fra le doti con un alto valore umano e spirituale. Può essere acquisita dal singolo a partire da una libera scelta interiore. La sofferenza diviene così occasione di maturazione psicologica per l’uomo. Una maturazione che conduce alla riscoperta della libertà interiore, la quale anche di fronte agli eventi più tragici rimane sempre libera di scegliere come disporsi dinnanzi agli eventi stessi. Proprio per questo Frankl sostiene che “l’uomo è libero di dominare – almeno – interiormente il proprio destino”.6 Forse, questa è l’unica possibile risposta costruttiva e positiva alle domande suscitate dalle immagini di morte e disperazione, che in queste ore scorrono sotto i nostri occhi attoniti.

Alessandro Tonon

Note

1 S. NATOLI, L’esperienza del dolore, Milano, Feltrinelli, 20105, pp. 12-13.

2 Ivi, pp. 8-13.

3 V. E. FRANKL, Uno psicologo nei lager, tr. it di N. Schmitz Sipos, Milano, Edizioni Ares, 200113, p. 138.

4 V. E. FRANKL, Homo patiens, tr. it. di E. Fizzotti, Brescia, Queriniana, 20012, p. 86.

5 Ivi, p. 77.

6 Ivi, p. 83.

“Se ti distrai, rischi grosso”. Intervista ad un incursore

Intervista tratta dalla tesi di laurea “Il tempo nella sofferenza” di Valeria Genova [acquistabile qui o su Amazon]

Siamo il primo mezzo della colonna, ogni metro potrebbe essere l’ultimo, ma non ci pensi. La testa è troppo impegnata a scorgere nel terreno qualcosa di anomalo […]. 1

Questa frase proviene dalla lettera che il caporalmaggiore Matteo Miotto aveva inviato, due mesi prima di morire, dall’Afghanistan, al Gazzettino, per descrivere l’esperienza della Brigata Julia cui apparteneva; qui si intuisce subito che il presente è lo stato temporale in cui si svolge l’intera missione di questi soldati. Non ci pensi è la frase che ho più sentito pronunciare anche durante l’intervista con il Maggiore M., un incursore dell’Aeronautica Militare che ha svolto più volte missioni all’estero, in Afghanistan e in Iraq. Dalle sue parole ci arriva il messaggio forte di uomini che svolgono il loro dovere per la Patria e riescono comunque ad avere il tempo da dedicare alle famiglie; un tempo scandito dall’attesa del ritorno, dall’ansia per quello che si è lasciato in Italia e dalla speranza di compiere il loro dovere nel migliore dei modi.

Corrono giorni in cui identità e valori sembrano superati, soffocati da una realtà che ci nega il tempo per pensare a cosa siamo, da dove veniamo, a cosa apparteniamo…2

– M., cosa succede quando qualcuno dall’alto vi dice ‘tra un mese devi partire’?

Ci prepariamo. Il nostro motto è ‘addestrati duro combatti facile’: si cerca di ricreare in territorio Nazionale le condizioni della realtà Internazionale, cosa, oggi come oggi, difficile da realizzare, perché alcune simulazioni non sono simili alla realtà che poi troveremo nelle zone ‘calde’.
Vedi, quando arrivi in teatro operativo dovresti essere già pronto, ma soprattutto devi riuscire a non perdere l’obiettivo ed essere sicuro di quello che fai: ecco perché occorre arrivare con il massimo addestramento, ma non capita spesso e questo è dovuto ai tempi di recupero, tra una missione e un’altra, che sono sempre troppo brevi, lasciando così le persone spaesate poiché non riescono a trovare un equilibrio nel tempo da dedicare a tutte le cose, lavoro e famiglia.

– Ecco, hai introdotto tu stesso il concetto di ‘tempo’: come riuscite a gestirlo?

La gestione tempo per noi è divisa: vi è l’attesa di partire, quindi sai che devi partire e cominci a sintonizzare tutti i tempi della vita quotidiana, per cercare di non lasciare nulla in sospeso, cioè devi ottemperare gli impegni per il lavoro e lasciare una condizione di tranquillità emotiva alla tua famiglia e di conseguenza a te stesso. È proprio nella fase di pre- deployment, infatti, che la gestione del tempo è complessa: per esempio, se non hai pagato una bolletta in tempo e sai che chi rimane potrebbe non essere in grado di farlo, parti con una preoccupazione che si può ripercuotere poi in teatro operativo.

– Quali sensazioni avete in questa fase di pre-deployment, periodo in cui tutto si sottomette all’attesa della partenza?

Questa concezione del tempo così particolare ti crea uno stato emotivo di ansia, ma poi, una volta partito, paradossalmente ti tranquillizzi. Ansia perché stai andando in un territorio difficile, stai lasciando la tua famiglia per dei mesi, e stranamente non vedi l’ora di partire, forse per limitare la sofferenza tua e dei parenti…proprio per questo quando sto partendo sono in attesa, in ‘muta attesa’ 3, un tempo infinito e indeterminato che scaturisce dalla mia voglia di andarmene il prima possibile. Ecco perché non appena metto i piedi sull’aereo che mi porterà in missione mi tranquillizzo: ormai ci sono, me ne sto andando e non resta che impegnarsi a sopravvivere.

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– Come si vive l’esperienza nei teatri operativi?

Ogni turno che ho fatto è stato di non più di quattro mesi e mezzo e in quel periodo ero completamente concentrato solo nella mia attività e, paradossalmente, nonostante il rischio avevo tutto il tempo per riuscire a gestire al meglio l’operazione non avendo gli input continui della società che sono tantissimi, dagli obblighi legali a quelli morali: è proprio questo il vantaggio e, se vogliamo, il paradosso, perché chi pensa che una volta in teatro operativo non abbiamo più il tempo di fare nulla o non c’è la libertà di pensare alle cose proprie, sbaglia; infatti, è vero che prima di un’operazione la fase di pianificazione è lunga e l’operazione reale dura solo una frazione del tempo totale, ma è proprio questo che ci permette di gestire bene il nostro tempo in ogni sua fase e ci rende tranquilli. Quindi, quando arrivi al target devi solo mettere insieme i tasselli che hai studiato perfettamente prima. Inoltre, essendo ripartiti in team di dodici operatori l’addestramento intenso, fatto in Patria, ti consente di sapere esattamente cosa farà ogni operatore: questi, infatti, deve fare una cosa specifica nelle modalità previste dalla pianificazione.

La gestione tempi, dunque, in teatro operativo, consiste nel pianificare alla perfezione ogni cosa, stando sicuri che tutti abbiano capito quello che devono fare.

– Quando uscite dalla base e andate in missione, come avvertite il tempo? Cosa provate?

Quando andiamo in missione e stiamo fuori una settimana la pianificazione deve essere non solo finalizzata all’esecuzione dell’obiettivo, ma anche completa di tutta la parte logistica, cioè sai che sei con dodici persone e magari tre mezzi e per una settimana devi essere autonomo per cibo, acqua, tenda ecc.; è tutto tempo avvertito come attesa, dell’arrivo del rifornimento, dell’ok per spostarsi da un posto ad un altro, del completamento della missione: anche in questo caso noi viviamo ‘appesi’, il tempo non dipende solo da noi, ma si blocca e aspetta che qualcosa accada. In queste situazioni lo stato d’animo possiamo dire si trovi in una bassa frequenza, cioè tutti i ritmi si abbassano e paradossalmente -ripeto sempre paradossalmente perché alle persone che non svolgono questo lavoro può apparire strano quello che dico!- quando sei costretto ad attendere qualcosa ti rilassi: non so se è una forma di autodifesa ma trovi il tempo di riflettere, cominci a pensare, la tua mente vaga, nei ricordi, nella nostalgia di quello che hai lasciato ma soprattutto pensi a quello che ti fa stare meglio, quando rientrerai -ok sto facendo questa esperienza, ma ha un termine, magari non bene definito, ma in linea di massima devono passare 4-5 mesi, e alla fine tornerò.-. Ognuno, in questo modo, si crea uno spazio mentale e passa, dunque, il tempo cercando di pensare a quello che è stato e a quello che sarà: oscilliamo dal passato al futuro, vediamo il primo come appiglio per trovare il sorriso anche nelle difficoltà più estreme e il secondo come ancora di salvezza dall’angoscia che in alcuni momenti si può provare. Passato-futuro ti danno la forza giusta e la tranquillità emotiva per proseguire al meglio la missione. Chi, invece, ha fretta di tornare a casa e pensa esclusivamente ai giorni che mancano, non è ben predisposto per espletare questo compito; chi si trova in difficoltà, infatti, non parte proprio perché in una situazione del genere in cui si sta una settimana intera senza contatti telefonici con la famiglia, lo stato emotivo non è idoneo a sopportare un’eventuale operazione delicata

in cui si deve pensare solo a quello.
Certo che nel futuro riponiamo, però, anche tanti interrogativi, perché noi tutti sappiamo che dopo 4-5 mesi di lontananza troveremo cambiati i nostri affetti, le persone a cui vogliamo bene, è fisiologico.

– In che senso dici che trovate i vostri famigliari cambiati una volta rientrati in Patria?

Devi pensare che quello che ci rende tranquilli, anche se abbiamo lasciato una famiglia a casa, è il fatto di svolgere missioni con altre persone in una piccola cellula di dodici persone: ciò ti fa rendere conto che vivi con un’altra famiglia il cui scopo non è crescere i figli ma ha il compito di portare la pelle a casa, quindi ognuno svolge il suo lavoro per raggiungere l’obiettivo e difendersi a vicenda. Questo ti rende tranquillo.
Mentre, l’unica mia preoccupazione è quella di non poter telefonare a casa per una settimana, ma non per il fatto di sentire quella persona, che comunque fa sempre bene, ma ho la preoccupazione che quella persona non sentendomi stia male: io vivo con le persone con cui lavoro anche in operazione, quindi c’è una continuità tra territorio Nazionale e l’estero, la mia vita si riempie e rimane sempre piena; la persona, invece, che lascio e che è abituata a starmi vicino e a condividere tutto con me poi all’improvviso mi vede partire per sei mesi, quando torno la trovo inevitabilmente cambiata e poi ci vuole del tempo per recuperare. Questo accade perché quella persona passa dalla routine, da un tempo quasi monotono, sempre uguale a se stesso, statico, ad una vita in cui la velocità del tempo viene raddoppiata perché deve pensare a compiere quegli obblighi che magari prima divideva con me. È quasi un trauma per la persona che resta perché, anche se abituata, anche se consapevole del mio lavoro, si ritrova improvvisamente sola. Infatti, credo che per noi che lavoriamo in territori operativi il tempo passi molto più velocemente rispetto alla persona che attende il nostro ritorno; perché noi sappiamo che oggi dobbiamo fare questo, domani quello ecc., le nostre giornate sono continuamente scandite dagli impegni ed ogni obiettivo raggiunto diminuisce la distanza dal ritorno. Mentre chi aspetta a casa non ha la minima percezione di quello che noi facciamo e abbiamo da fare, risulta pertanto difficile avere un punto di riferimento per contare i giorni che restano…certo c’è il calendario e il solito ‘conto alla rovescia’, ma è una cosa che sconsiglio perché rallenta in modo impressionante lo scorrere del tempo.

– Il pericolo, tu, l’hai mai incontrato? Come ci si sente davanti a ciò che minaccia la tua vita?

Ciò che è considerato pericolo per noi è diverso per voi.

Capita a volte che ci si trovi a passare per delle località in Afghanistan e magari dal tetto di una casa ti tirano due colpi: per voi è pericolo, per noi significa reagire tempestivamente. Per voi il tempo si blocca nell’istante dello scoccare del primo colpo, per noi il tempo non esiste, o meglio è frazionato in millesimi di millesimi di secondo con una precisione che pare impossibile: il millesimo prima che arrivi il colpo noi sappiamo già che sta per arrivare. Non è prevedere, è il sapere dettato dall’addestramento. Infatti noi, mentre andiamo in missione, non pensiamo ‘e se adesso esce un cecchino e ci spara? E se troviamo una mina e saltiamo in aria?’ perché sono eventualità che noi abbiamo già considerato prima di partire e cerchiamo, dunque, solo di raggirare. Giochiamo in anticipo. Il tempo per noi è previsto, è ‘conosciuto’.

– L’operazione più complessa è per voi, forse, quella in cui dovete andare a catturare qualcuno: il tempo in questo caso è sempre previsto o può anche succedere che l’imprevisto mandi all’aria tutto e subentrino così l’angoscia, il panico perché per un attimo non sapete come giostrarvi?

Quando dobbiamo fare operazioni più complesse, in cui dobbiamo andare a prendere un personaggio, la preoccupazione sta solo nel cercare di rispettare la tempistica prevista: sarò in grado di entrare simultaneamente ad altri operatori che entrano dalla parte opposta? La risposta per noi è scontata: sono addestrato per questo.

Certo che non tutto va sempre come previsto, ecco perché in queste situazioni c’è l’agitazione perché tutti hanno l’adrenalina al massimo per il fatto della sincronizzazione dei tempi e, come si sa, non tutti hanno gli stessi tempi di reazione, ma, ripeto, noi ci addestriamo per questo, ed è difficile che capiti di non sapere cosa fare, perché in noi è ormai radicato l’automatismo che è ciò che spesso ci salva la vita quando non c’è tempo per pensare e agire -RAID: reazioni automatiche immediate-.

– Ti è mai capitato di dover soccorrere, durante un agguato, dei colleghi feriti? In quest’occasione, il tempo come ti è parso, veloce o lento?

A volte capitano le situazioni in cui oltre a tutelare noi stessi abbiamo dovuto assistere persone già ferite: in questo caso ci si deve allontanare dal punto di contatto e, contemporaneamente, si devono mettere in salvo delle persone. Quello che dobbiamo

81 sempre ricordarci è che quando dobbiamo portare via un ferito, lui non potrà contribuire al fuoco: ma è strano, anche in questa fase tu non pensi, perché anche qui viene tutto prima: se tu sai ciò che devi fare perché l’hai pianificato ti sale il livello di adrenalina e puoi reagire e anche quando non pianifichi qualcosa che poi però si verifica, se sei addestrato non hai proprio il tempo di avere paura intesa come panico che ti blocca! Questo lavoro ci tempra al punto che anche la gestione della paura è una gestione di qualcosa che sì è più forte di te ma che se sai gestire vai alla grande: quando tu fai qualcosa e non provi un minimo di timore è il momento più giusto che ci rimetti la pelle, mentre se hai paura e la sai gestire hai l’adrenalina a mille che è ciò che ti permette di stare tranquillo perché sai di poterti regolare. Quindi, anche se sei accanto al compagno ferito non c’è paura perché in quel momento il tuo unico obiettivo è di portarlo in salvo. Certo, poi magari a mente fredda ci pensi: se ci fossi stato io chissà…ma è un pensiero ipotetico che subito ti abbandona perché la tua mente si può concentrare solo sull’adesso. Quindi risponderei né veloce né lento mi pare il tempo in queste situazioni: non ci penso!

– Allora proprio per il fatto che non ci pensi il tempo vola via, quindi pare velocissimo…

Forse sì, sarà come dici tu, ma una cosa te la posso dire: per noi soldati in missione oggi, esiste certamente un passato, fatto di ricordi, a cui pensiamo con nostalgia, esiste assolutamente un futuro, fatto di certezze e di dubbi, ma vi è solo il presente. Noi viviamo solo il presente. Solo in questo modo possiamo sopravvivere e riuscire a ricucire il nostro passato con l’avvenire. Il presente è quello che ci salva la pelle, perché in quel determinato giorno, a quella precisa ora noi dobbiamo agire in un certo modo e la nostra mente pensa esclusivamente a quel preciso istante.
Se ti distrai rischi grosso.

Come ho potuto notare dopo questa intervista, i tempi sono decisamente cambiati rispetto a quelli delle guerre mondiali: il soldato in trincea viveva giustamente la guerra con maggiore paura, perché spesso non c’erano gli addestramenti che ci sono invece oggi, e comunque la vita in trincea era decisamente più pericolosa. Le due guerre mondiali hanno causato più vittime tra i soldati rispetto alle missioni di oggi, e questo ha reso la concezione del tempo molto diversa: per i primi c’era l’attesa estenuante del ritorno, accompagnata dalla speranza quindi di sopravvivere, il futuro era allora incerto; oggi i nostri soldati vivono il presente senza tornare troppo al passato e senza pensare al futuro, per motivi di concentrazione da cui dipende la loro salvezza. I soldati di allora vivevano il presente con l’angoscia di quello che sarebbe potuto succedere e si proiettavano verso l’avvenire per poter dire ‘sono ancora vivo’ o si rifugiavano nel passato per sconfiggere la malinconia: il presente era solo un passaggio, ma talmente lento che

sembrava eterno e da cui ci si voleva allontanare il prima possibile.

Valeria Genova

1-2: Caporalmaggiore Matteo Miotto, lettera inviata dall’Afghanistan al Gazzettino, Giovedì 11 Novembre 2010

3: Cfr. Turoldo David Maria, In muta attesa, in Ultime poesie, Garzanti, Milano, 1999, p. 13

[Immagini tratte da Google Immagini]

Nella testa di una jihadista – Anna Erelle

“Fratelli del mondo intero, lancio la fatwa contro questo essere impuro che si è preso gioco dell’Onnipotente. Se la vedete, ovunque siate, rispettate le leggi islamiche e uccidetela. A condizione che la sua morte sia lenta e dolorosa. Chi si fa beffe dell’Islam ne pagherà le conseguenze col sangue. Essa è più impura di un cane, violentatela, lapidatela, finitela. Insciallah”.

Leggo la fatwa lanciata da Abu Bilel verso Anne Erelle nel luglio 2014 e sento pervadere il mio corpo da brividi di orrore e al tempo stesso da una repulsione che contengo a fatica.

Famosa giornalista d’inchiesta francese, Anne Erelle si è sempre definita interessata all’indagine sui comportamenti devianti; poco importava quale ne fosse l’origine, la sua ricerca è sempre andata ben oltre i fatti, cercando di cogliere i motivi per cui i destini di moltissime giovani fossero fatalmente caduti in trappola. E’ fenomeno estremamente attuale quello che vede protagoniste le adolescenti europee: vengono reclutate tramite internet per scappare dai loro paesi d’origine e dirigersi in Siria ed affrontare la guerra santa per lo Stato Islamico. E’ molto forte il proselitismo jihadista, non ha nulla a che fare coi metodi più vecchi: la “Jihad 2.0” è efficace, moderna, accattivante.

La vicenda riportata in “Nella testa di una jihadista” ha inizio nel marzo 2014. La giornalista d’inchiesta francese Anne Erelle, durante una delle sue indagini, entra in contatto attraverso un profilo fake in cui si fa chiamare Melanie con Abu Bilel, importante mujahiddin di origine europea. L’uomo si invaghisce della ragazza già dai primi scambi di messaggi, ritrovando in lei un bersaglio ideale per il reclutamento di giovani convertite, e in meno di ventiquattro ore le chiede già di incontrarsi su Skype, offrendole un matrimonio e un futuro in cui poter combattere per uccidere gli infedeli, per contribuire alla trasformazione dell’Islam in unico sovrano mondiale.

Un uomo che chiede a Melanie del profumo che porta e al tempo stesso esalta i suoi luoghi di battaglia in cui si vede ancora il sangue dei corpi uccisi.

E’ un lavoro duro quello di uccidere gli infedeli, mica sono in un villaggio turistico“: così afferma con fierezza, rimarcando tratti di fanatismo che non rendono giustizia all’umanità, che offendono il concetto stesso di vita per qualsiasi religione o culto che meriti di chiamarsi tale.

Dopo settimane di chat, Anne Erelle e la sua sete di indagine la portano ad accettare la proposta di matrimonio di Abu Libel e a dirigersi in Siria: al confine viene però scoperta e costretta a tornare immediatamente in Francia. Su di lei viene lanciata la fatwa mortale, un esito che la porta ad essere costretta a vivere sotto copertura e falso nome, nascosta per sopravvivere.

E’ una storia di coraggio ed indagine, è un diario di lotta e determinazione. Una donna che lotta per comprendere un fenomeno che è ancora troppo distante dalle nostre concezioni, pur avvicinandosi a noi sempre più pericolosamente. Cosa affascina le giovani donne che lasciano famiglie, parenti e amici per una vita ad estremo contatto con la violenza in cui alternano continuamente gli status di vittime sottomesse e carnefici spietati?

E’ un meccanismo complicato ed avvincente quello degli jihadisti, che considerano più facile conquistare l’Occidente avvicinandosi alle donne, perché il sesso più debole ed influenzabile.

“Voi donne europee siete maltrattate e considerate oggetti. Gli uomini vi esibiscono al loro fianco come un trofeo. E’ necessario che l’IS raggiunga il maggior numero di persone, ma prima di tutto quelle più maltrattate, come le donne”.

Abu Libel offre a Melanie la salvezza, sembra volerla portare via da un mondo che non la considera abbastanza. Abbastanza importante. Abbastanza persona. Abbastanza donna. Le prospetta importanza, ma al tempo stesso il suo tono non è soltanto autorevole, ma piuttosto autoritario. Un’autorità che non lascia dubbi sulla differenza tra oggettività o soggettività di una donna. Un’autorità che affascina troppe donne indifese, perché alla ricerca di considerazione. Un’autorità che preoccupa le donne che lottano ogni giorno per essere considerati tali. Un’autorità sfrontata, che non conosce limiti e riserve.

L’esperienza di Anne Erelle è quella di una donna che lotta per le donne. E’ quella di una passione talmente forte da mettere a rischio la propria vita. E’ quella di chi ha talmente tanto coraggio da poter rinunciare alle paure più comuni e giustificate. Un diario d’inchiesta da leggere d’un fiato per aprire gli occhi su una realtà terribilmente in prospettiva e – ancor prima di tutto – per raccontare una storia di coraggio.

“La storia dell’Uomo è anzitutto e soprattutto una storia di coraggio: la prova che senza il coraggio non fai nulla, che se non hai coraggio nemmeno l’intelligenza ti serve”. Oriana Fallaci

Cecilia Coletta

[immagini tratte da Google Immagini]