Come trovare la totale libertà nella più assoluta solitudine

«Ci troviamo così bene nella libera natura perché essa non ha alcuna opinione su di noi»1 scriveva Friedrich Nietzsche, riferendosi a quel tipo di bene che l’uomo prova nel momento in cui riesce ad allontanarsi dagli altri, cioè coloro che ci giudicano e ci guardano, poiché, nel momento in cui veniamo guardati, noi non riusciamo più a essere noi stessi ma riusciamo a vederci solo attraverso le lenti, la prospettiva e le considerazioni altrui.

Quando gli altri ci guardano, non possiamo sottrarci, ma dobbiamo sottostare e ci sentiamo feriti nel nostro essere. Nel sentirsi oggetto dello sguardo altrui l’uomo prova vergogna, si sente vulnerabile, in quanto l’altro scopre la nudità del nostro essere. La vergogna, il pudore e la timidezza sono i mezzi con i quali gli altri ci danno forma, i mezzi con cui noi riusciamo a uniformarci alla comunità, sacrificando di fatto il nostro vero io e i nostri veri desideri. Bisogna ammettere che nel momento in cui gli altri decidessero di ignorarci noi non esisteremmo più come membri della società, dunque bisogna riuscire ad ottenere una posizione di non vergogna dallo sguardo altrui, comprendendo che il pregiudizio, purtroppo, sarà sempre nell’altro. L’unica via per sfuggire da esso sarebbe cercare rimedio nella solitudine, ma noi sappiamo che non potremmo sopravvivere nel momento in cui sfuggiamo dall’altro: la nostra ricerca allora sarà giungere all’equilibrio tra la socialità e la solitudine.

Comprendendo quanto sia deleterio il sentirsi osservati, giudicati, in modo negativo, possiamo comprendere appieno il significato di quell’inferno di cui parla Sartre, alla fine di Huis clos, in italiano A porte chiuse (1944). La sua frase, significativa, «L’inferno sono gli altri2» non mira a negare il carattere sociale dell’uomo, anzi, secondo Sartre l’uomo può conoscere se stesso solo mediante gli altri, perché essi hanno una specifica rappresentazione di noi. Solo che non potremmo mai sentirci veramente bene con il nostro essere in società, perché, appunto, siamo giudicati: noi dunque desideriamo, ricerchiamo la solitudine in un mondo in cui è necessaria, invece, la collettività. Si desidera la solitudine perché solo quando si è soli si può manifestare davvero il proprio essere.

Potremmo giungere a una differenza sostanziale tra Sartre e Kant. Secondo il sistema kantiano la comunità rappresenta un luogo sereno, dove l’individuo può pienamente realizzarsi. Ma davvero l’individuo può realmente realizzarsi se deve uniformarsi alla collettività? Forse l’uomo non sarà completamente libero assieme all’altro uomo, ma escludendo dalla sua vita l’uomo in sé, l’altro che cosa sarebbe? Il nulla. L’equilibrio risulta fondamentale per abitare assieme all’altro, ma non solo, anche per comprendere il motivo per cui ci troviamo all’interno di una comunità, giungendo a cogliere il giudizio dell’altro, valutandolo e ripudiandolo in caso non si mostrasse veritiero.

L’uomo dunque è condannato, secondo Sartre, alla libertà. La totale libertà disorienta l’individuo, poiché esso è fragile a causa dell’accadere del mondo; per sfuggire al senso di panico, all’angoscia, comincia a costruire credenze: possiamo spiegare da qui la nascita delle religioni o dei sistemi deterministici. L’uomo, in sostanza, è alla ricerca di un punto di riferimento in un universo scarno: proprio questo intende dire Sartre quando afferma che l’uomo si affida volontariamente a certi concetti che mirano a dare un ordine a tale esistenza caotica, che non prevede nulla di ordinario.

A questo punto si potrebbe pensare che per sfuggire all’incertezza del vivere la soluzione sia il suicidio fisico. Ma non è forse l’opzione più semplice? Sartre non la considera nemmeno una opzione concepibile, in quanto il suicidarsi significa perdere la propria libertà, cioè negare la propria esistenza divenendo mera cosa. Morire non ha senso alcuno, perché scomparsi noi, scomparsa la nostra coscienza, scompare il mondo intero: «la morte non è mai quello che dà il suo senso alla vita; è invece ciò che le toglie ogni significato3».

 

Marco Catania

Marco Catania, classe 2000. Studia attualmente storia e filosofia presso l’università di Palermo, impegnandosi nel mentre a scrivere su temi filosofici riguardanti l’esistenza, l’etica e la religione.
Interessato soprattutto ad autori francesi come Sartre e Camus, ma anche a tanti autori fondamentali della storia della filosofia, quali Spinoza, Nietzsche e Kant.
Amante del pensiero critico, del dialogo costruttivo e della chiarezza ritiene indispensabile un corretto uso della facoltà di giudizio per potere vivere al meglio all’interno della realtà sociale.

 

NOTE:
1. Cfr. F. Nietzsche, Umano troppo umano, 1878
2. Cfr. J-P. Sartre, A porte chiuse, 1944
3. Cfr. J-P. Sartre, L’essere e il nulla, 1943

[Photo credit Elton Yung su unsplash.com]

Una citazione per voi: Sartre e la condanna della libertà

 

 L’UOMO È CONDANNATO A ESSERE LIBERO 

 

L’uomo è condannato a essere libero è l’affermazione di Jean-Paul Sartre fulcro della sua opera filosofica maggiore, LÊtre et le Néant, ovvero L’essere e il nulla (1943), e della celebre conferenza L’existentialisme est un humanisme, L’esistenzialismo è un umanesimo del 1945.

Per comprendere meglio la profondità della teoria sartriana è bene partire dai due principi fondamentali di Sartre ovvero l’existence précède l’essence e la distinzione tra être en soi (essere in sé) e l’être pour soi (essere per sé), cardini della sua ontologia.

Per Sartre l’existence significa uscire da se stessi, essere in ricerca di se stessi, superarsi per realizzarsi in qualità di individui, l’essence è invece un concetto limitativo, l’insieme delle caratteristiche proprie determinanti l’individuo. L’uomo per Sartre esiste per Sartre in quanto uomo e si determina poi con le sue scelte e le sue azioni.

Attraverso l’analogia del taglia-carta, Sartre distingue gli objets, cose determinate, fisse e complete, dai subjets, liberi e responsabili, coscienti e senza un’essenza determinata. A differenza di Leibniz, per Sartre l’essenza dell’essere umano non può essere affermata perché questo sarebbe in contraddizione con la capacità dell’uomo di trasformarsi continuamente. Gli esseri umani sono liberi o meglio condannati a essere liberi ovvero a scegliere e a scegliersi: l’uomo infatti non ha una natura intrinseca o un’essenza ma una coscienza auto-riflessiva capace cioè di auto-determinarlo.

Eliminato Dio, figura deterministica, paternalistica o consolatrice, scagliati nell’esistenza, gli esseri umani sperimentano un senso di abbandono: la realizzazione di una totale libertà, di essere e di dare senso alla propria vita, e di una correlata responsabilità – scegliendo scelgo per me e per il mondo – dà luogo a un’esperienza, piuttosto che a uno stato emozionale, di angoscia.

Non ci sono scuse per eludere la libertà e comportarsi da objet, l’uomo è artigiano della propria vita cui la libertà dà l’impronta di autenticità. La libertà rende l’uomo degno di essere uomo, non la si sceglie, è parte dell’essere umano e questa condanna alla libertà è il senso dell’esistenzialismo sartriano.

 

Rossella Farnese

 

copertina-abbonamento-2020_nuovo

Il conflitto tra individuo e società: sguardo e riconoscimento in Rousseau

Jean-Jacques Rousseau è certamente noto ai più come colui che, andando contro la corrente dominante del suo secolo, influenzò notevolmente gli ideali anti-assolutistici e di eguaglianza della Rivoluzione francese. È dunque ricordato principalmente per essersi occupato di temi politici, ma Rousseau è un filosofo molto più sfaccettato di quanto si possa credere: egli non solo è considerato un precursore degli ideali illuministici, ma anche di quelli romantici. Scrive infatti pagine molto belle e interessanti riguardanti la questione del riconoscimento, inteso come l’insieme delle questioni antropologiche, psicologiche, sociali ed etiche che scaturiscono dalla dipendenza dell’uomo dalla considerazione altrui.

Questa tematica non era mai stata oggetto di un’indagine tanto approfondita, seppure fosse già stata trattata da Hegel attraverso l’elaborazione della dialettica.
Rousseau associava al concetto di “dipendenza dell’uomo dalla considerazione altrui” il termine amour-propre, ossia una passione in grado di sovrapporre all’autentica identità dell’io, quella derivata dall’incontro con le alterità, dalla considerazione che queste si fanno di noi e dunque dall’inevitabile interdipendenza tra coscienze. L’amour-propre si costituisce, quindi, nell’individuo attraverso una lotta tra ciò che egli è realmente e il modo in cui viene giudicato dagli altri.

Sappiamo bene quanto sia importante per gli esseri umani sentirsi riconosciuti dai propri simili e dalla società in cui vivono: si pensi a quante persone, oggi come ieri, si presentano agli altri identificandosi con il proprio lavoro, tralasciando l’aspetto più autentico del loro essere.
Tuttavia Rousseau afferma che oltre all’amour-propre, definito come sentimento relativo e artificiale che spinge gli individui a farsi del male e a sopraffarsi reciprocamente, esista anche un sentimento naturale che porta ogni uomo a vegliare sulla propria conservazione e che rappresenta la fonte delle passioni umane, chiamato amour de soi. Quest’ultimo si mantiene però in una dimensione solipsistica, manca cioè totalmente della consapevolezza dell’esistenza delle alterità ed è un sentimento primitivo ed autoreferenziale.

È evidente come la società in cui viveva Rousseau non si differenziasse molto da quella in cui viviamo oggi, che ci vuole sempre in un determinato modo e ci sta facendo perdere sempre più gran parte di quel sentimento primitivo e immediato che è l’amour de soi, auto-ingannandoci di essere autenticamente ciò che la società moderna ci impone di essere. È anche vero, però, che non è possibile vivere nel totale solipsismo, senza gli altri e senza essere soggetti a quell’inevitabile giudizio che prima Rousseau e poi Sartre, identificheranno nella metafora dello sguardo come emblema dell’intersoggettività.

Jean-Paul Sartre riprende infatti le posizioni rousseauniane nel Novecento e parla della funzione reificante dello sguardo altrui come qualcosa che trasforma metaforicamente il nostro vero essere, in un oggetto tra altri oggetti: il primo sguardo che l’individuo porge ai suoi simili lo porterà da quel momento in poi a paragonarsi inevitabilmente a loro e ad iniziare a volere ciò che quelle alterità vogliono, facendo venir meno i suoi bisogni più autentici che caratterizzano la sua coscienza.

Si crea dunque, all’interno della dimensione intersoggettiva, un sistema di bisogni artificiale che scaturisce dall’opinione altrui e che porta alle imposizioni culturali del “si deve fare” e “si deve pensare”, a cui i singoli si attaccano per spirito di autoconservazione, ma che intaccano la loro autenticità.
La soluzione prospettata inizialmente da Rousseau è interessante poiché sembrerebbe in contraddizione con quella che è stata la sua vita, a cavallo tra la sua estrema introversione e l’esigenza di vedersi riconosciuto dagli altri: egli invita gli uomini ad essere se stessi, anche se questo comporta una lotta interiore nei confronti dell’amour-propre, ma l’unico modo per lottare è sottrarsi fisicamente allo sguardo altrui, ossia rinchiudersi nella totale solitudine.

Ma assodato che i rapporti intersoggettivi siano fondamentali per gli esseri umani, il filosofo ginevrino ci prospetta anche un’alternativa alla solitudine: quella di trasformare la dipendenza dall’opinione degli altri, il riconoscimento appunto, stimolandolo con premi e distinzioni di merito, affinché possa tramutarsi in una forza aggregante e non più disgregante e competitiva e quindi in amore nei confronti dell’altro.
È quindi importante per l’essere umano fare “buon uso” dell’opinione altrui, la quale non deve andare a sostituire la sua vera identità, ma integrare il suo essere per far sì che possa costruirsi un’immagine di sé più completa in quanto abitante dei rapporti sociali: bisogna quindi essere in grado di affrontare gli sguardi altrui, conoscendo profondamente se stessi, senza dare eccessiva importanza alle opinioni, specie se queste sono volte a ledere la nostra autenticità, valutando ciò che può, invece, arricchire la nostra immagine all’interno della società.

Federica Parisi

 

Federica Parisi, classe 1991, ha conseguito la laurea in Filosofia e si è specializzata in Scienze filosofiche, presso l’Università degli studi Roma Tre. I suoi principali campi d’interesse riguardano la Filosofia morale e la Filosofia delle religioni. È inoltre una grande appassionata d’arte e letteratura.

[Photo credits Nijwam Swargiary su Unsplash.com]

copabb2019_ott

“Il Muro” di Jean-Paul Sartre e la sua esistenza scostante

Pochi mesi dopo la pubblicazione de La nausea, nel 1939 esce l’altra celebre opera narrativa di Jean-Paul Sartre: la raccolta di racconti Il muro. I cinque racconti sono narrazioni profondamente inquietanti e nelle quali i personaggi vengono scavati dall’interno, mettendo a nudo vergogne, velleità e viltà, che per il pensatore francese tutti noi condividiamo. Il Muro protagonista supremo è il simbolo d’impotenza e d’ostacolo, capace di chiudere all’uomo ogni possibilità di riscatto. Parliamo, quindi, di cinque piccole disfatte.

L’esistenzialismo sartriano può essere definito una filosofia della libertà, della scelta e della responsabilità. L’uomo deve inventare la propria vita e il proprio destino, deve costruire i propri valori. Non c’è un’essenza dell’uomo che prefiguri la sua esistenza, non ci sono norme, leggi, autorità che predeterminano il suo comportamento.
Infatti, soltanto coloro che rifiutano la responsabilità di un’esistenza libera, che credono in una necessità esterna all’uomo, in una stabilità delle cose, in un ordine metafisico che presiede alla vita della natura e della società, possono essere considerati non uomini.

Nel regno di Sartre, dunque, non di rado vige il caos; il nulla ne è l’ospite consueto, l’uomo la vittima. Lo possiamo già intuire leggendo le prime pagine dell’opera «Mi sentivo stanco ed eccitato a un tempo. Non volevo più pensare a ciò che sarebbe successo all’alba, alla morte. Questo non concludeva nulla, non m’imbattevo che in parole e nel vuoto. Ma non appena cercavo di pensare a qualcos’altro, vedevo delle canne di fucile spianate contro di me. Venti volte di seguito, forse, ho vissuto la mia esecuzione»1. Pablo, il protagonista del primo racconto, vede la sua morte «In quel momento ebbi l’impressione che tutta la mia vita mi fosse davanti e pensai: “È una sporca menzogna”. Essa non valeva nulla dal momento che era finita. Mi chiedevo come avessi potuto andare in giro, scherzare con le ragazze […] La mia vita era davanti a me, chiusa, sigillata come una borsa, eppure tutto ciò che vi era dentro era incompiuto»2.
Pablo però si salva per un colpo di fortuna e la prima cosa che fa è ridere. Ride, non solo perché è ancora vivo ma piuttosto per il paradosso al quale è stato sottoposto. Il dubbio esistenziale non può cessare d’esistere e il cruccio viene così irrimediabilmente rimandato. È un riso emblematico, reazione al paradosso al quale Pablo è stato sottoposto. Già Umberto Eco nel proprio capolavoro Il nome della rosa del 1980 ci propose questo concetto: il riso è critica e ironia, è decostruzione, magari per costruire ancora meglio. Il riso si presenta, così, profondamente diabolico e quindi umano.

Dietro alla nauseante precarietà dell’uomo però risiede la libertà: quasi paradossalmente l’effetto di disgusto dipana la libertà stessa come se fossero incatenati a vicenda. Per Sartre infatti il singolo è condannato ad essere libero per il fatto stesso di trovarsi gettato in un mondo senza senso. Nel racconto Pablo stava per essere condannato a morte e invece come d’incanto fu risparmiato: paradosso, non-senso, libertà inattesa.
Ed è ora che ci dovremmo chiedere se la fortuna basti. O meglio: è solo fortuna? Se noi stessi, senza eventi casuali, non riuscissimo a salvarci? Se non riuscissimo a trovare un senso ai nostri accadimenti, come ci comporteremmo? Come potremmo essere risparmiati? Insomma, com’è che si vive?

Forse faremmo come il protagonista dell’ultimo racconto di Sartre intitolato Infanzia di un capo. Luciano Fleurier rampollo di una ricca famiglia di provincia, che produce capi d’industria da quattro generazioni, è destinato ad essere un capo, e così sarà. Prima però Luciano passerà tra mille dubbi tra i quali la propria inesistenza.
Passa alla psicoanalisi freudiana dopo essere divenuto partner sessuale di un poeta pederasta, a far parte di un’organizzazione fascista giovanile e pestare brutalmente un ebreo. I dubbi su sé stesso lo spingeranno, dunque, a una perenne mutazione, passando da un interesse all’altro e da un’identità all’altra. Nulla di più caotico.
Finiti gli studi, passata l’adolescenza, non ha però più scuse: deve prestarsi a diventare uomo, prendendosi tutte le responsabilità e le libertà connesse. Leggiamo «La sua esistenza era uno scandalo e le responsabilità che avrebbe assunto più tardi a malapena sarebbero bastate a giustificarlo. […] Dopo tutto, non ho chiesto di nascere, si disse, ed ebbe un moto di pietà verso sé stesso. […] in fondo, non aveva mai smesso di sentirsi impacciato dal peso della vita, da questo dono voluminoso e inutile, e l’aveva portato fra le braccia senza sapere che farne né dove deporlo»3.

Non è pronto, e chi lo è in fondo?, si chiede Sartre. Decide allora un rifugio ultimo, prima di iniziare a vivere. «”Là dove mi cercavo” pensò, “non potevo trovarmi” […] Il vero Luciano, adesso lo sapeva. […] Tanta gente l’aspettava al varco: ed gli era, lo sarebbe stato, quest’immensa attesa degli altri. “È questo un capo” pensò»4. Sartre conclude l’opera quasi negando quanto scritto fino a quel momento. Così leggiamo infatti: «Esisto […] perché ho il diritto d’esistere»5. Svanisce ogni dubbio, ogni esitazione. Luciano ora è a tutti gli effetti un uomo-capo; ancora una volta come per magia.
È questo l’ultimo dubbio che ci rimane (è l’intero romanzo che ce lo impone nella propria costituzione): Luciano si salva perché si immette dentro a delle massime convenzionali, cioè all’interno di categorie d’essere più che d’esistere? Cioè: devo perché non voglio. Nulla di più lontano dallo stesso autore. Sembra rinunciare, potremmo dire, illudendosi in nome della serenità.

È difficile poter dare una conclusione esaustiva dell’articolo qui proposto. Forse perché ancora oggi non abbiamo compreso Il Muro fino in fondo. Sartre lo sapeva e forse l’intento era proprio questo. Non ci rimane che domandarci: esiste oppure no una via d’uscita al muro che ci sta dinnanzi?

 

Simone Pederzolli

 

NOTE
1. J-P. Sartre, Il Muro, Oscar Mondadori, Verona 1980, p. 40.
2. Ivi, p. 41.
3. Ivi, p. 169.
4. Ivi, p. 295.
5. Ivi, p. 295.

copabb2019_ott

Le Mur di Sartre e la rappresentazione sessuale della vita

Quando apparve nel 1939 (a pochi mesi da La Nausée), Le Mur provocò una ridda di commenti contrastanti, tanto in Francia quanto nel resto d’Europa; in generale, fu accolto meno favorevolmente del romanzo che lo precedeva. Non ne fu certo esente l’Italia, la nazione europea dove forse l’esistenzialismo ebbe meno presa e dove più pressante era la censura, anche giudiziaria, su testi e immagini.
L’accusa a questo libro fu, un po’ ovunque, la stessa: “oscenità”.

Prostitute, adultere, figli degeneri, galeotti: il peggio, il fondo del barile, condensato in un solo manuale a racconti, come un Index morum prohibitorum in cui lo “sporco” impersonava il ruolo da protagonista. Ma questo testo è, oggettivamente, così osceno?
In realtà, dipende da cosa s’intenda con quel termine.

Vi è, certo, in Sartre, un certo qual (macabro?, può darsi) gusto per la sessualità e le sue problematicità psicodinamiche, in particolare l’impotenza; ma chiunque conosca un po’ il Nostro, capisce perfettamente che sarebbe semplicistico tacciare questo interesse di sconcezza. Ciò che è osceno è ciò ch’è, in verità, immotivatamente esagerato. Ma come può essere turpe ciò che intende trasmettere verità filosofiche?

Ora, se Sartre ci insegna una cosa (in verità, ce ne insegna molte) è che la vita può essere studiata per immagini, e che essa, in quanto indiscutibile sconfitta, s’incarna in momenti e piccoli dettagli. Basta leggere La Nausée e L’âge de raison per capirlo.

Il sesso, dunque, come linguaggio privilegiato dell’esistenza umana, come la cosa che più ci fa uomini assieme alla morte. Come unica chiave ermeneutica del contatto del singolo col mondo e le cose, come luogo di studio privilegiato delle nostre (effimere) vittorie esistenziali – le sadisme – e delle nostre inevitabili decadenze – le masochisme.

Dal punto di vista filosofico, dunque, un pene che non s’alza, al pari d’una vagina che non s’inumidisce, non vogliono essere giochi logo-iconici per guardoni: sono eminentemente descrizioni di verità d’esistenza, incarnate (di volta in volta) da donne o uomini: la frigidità, insomma, non è altro che la trasposizione di una certa qual nullità della vita.

È dunque un’immagine filosofica, il sesso. Pene e vagina sono teoresi esistenzialista.

Certo, le descrizioni sartriane non mancano talvolta di volgarità:

– Apri le gambe.
Lei esitò un attimo poi obbedì; io le guardai tra le cosce e tirai su col naso. Poi scoppiai a ridere così forte che mi vennero le lacrime agli occhi. […]. Me ne andai, lasciandola nuda in mezza alla camera, col reggipetto in una mano e cinquanta franchi nell’altra. Avevo sbalordito una puttana.

Ma se leggessimo tutto il testo (dal racconto Erostrato), risulterebbe evidente che questa persino questa risata ha una spiegazione esistenzial-psicologica non secondaria: non la rivelerò.

Ma torniamo al sesso come immagine fattiva. Nell’economia generale di Le Mur esso rivela la verità d’un mondo senza valori, legami, sincerità. Insomma: un mondo di condanna alla solitudine.

È infine il sesso il luogo in cui le castranti costruzioni della nostra esistenza prendono forma: le nostre fisime diventano tendenze, i nostri desideri divengono perversioni, e le sconfitte si fanno impotenza.

È dunque, Le Mur, un libro pornografico? Assolutamente sì, perché usa la nudità e l’atto come un “linguaggio”: Le Mur (invero tutta la pornografia) incarna (chiamiamola) l’arte di esprimere un ragionamento attraverso l’amplesso.
Naturalmente, un film porno tenderà a veicolare l’immagine della possibilità d’un godimento fine a se stesso, mentre una narrazione esistenzialista metterà più decisamente in luce la vita come eterno scacco e sconfitta, e necessiterà quindi di una più lunga esposizione.
Differenti fini non negano la comunanza di mezzo: in questo senso, dato che si pone un certo obiettivo (sia esso l’eiaculazione, o l’idea in sé del piacere) neppure il pornografico è osceno.

Nel sesso, Sarte lo sapeva bene, e nell’uso che facciamo d’esso, emergiamo come verità. Conseguentemente, nel suo tentativo di veicolare razionalmente il sensum vitæ, tutto si può dire delle opere di sartriane, meno che siano oscene; molto più osceni sono quelli, per esempio, che affermano acriticamente (né potrebbe esser altrimenti) che la vita è bella. O quelli che dicono “ministra” e “sindaca”.

 

David Casagrande

[Immagine di copertina: Egon Schiele, L’abbraccio, 1917]

 

banner-pubblicitario-abbonamento-rivista-la-chiave-di-sophia-03-03

Spesso il mal di vivere…

Una delle caratteristiche più interessanti delle scienze umane è la permeabilità: filosofia, letteratura, musica, pittura non costituiscono discipline separate, ma realtà complementari.

In questo senso, bisogna dire che v’è una strana alleanza tra esistenzialismo e poesia novecentesca; uso l’aggettivo “novecentesca”, nella volontà di ricondurre all’interno d’esso tutta una serie di correnti letterarie tra loro anche molto diverse.

La questione su cui vorrei concentrarmi è: se la permeabilità tra discipline umanistiche esiste, è possibile che la poesia del ‘900 (italiano), abbia risentito della temperie esistenzialista che, come si sa, fu la più importante corrente di pensiero del secolo scorso?

L’aria che si respirava in Europa (almeno dal 1943, anno di pubblicazione di L’Être et le néant di Jean-Paul Sartre) era esistenzialista de facto.
L’esistenzialismo divenne addirittura un fenomeno di massa, la cui diffusione giocò un ruolo da protagonista ovunque e in ogni campo artistico.
Naturalmente, la filosofia che sottintendeva (a volte molto vagamente) le espressioni artistico-culturali europee tra gli anni ’40 e ’60 era conosciuta (sul fatto che fosse compresa, ho dubbi) se non altro perché, nel secondo dopoguerra, sembrava essere la linea ermeneutica che più si adattava all’esplicazione d’un presente difficile in un’Europa prima in crisi, e poi in crescita socio-economica quantomeno problematica. Senza contare che gli esistenzialisti erano, per la maggior parte, d’ultra-sinistra… e questo piaceva.

Conseguentemente, le questioni tipiche dell’esistenzialismo erano non solo importantissime per la vita culturale, ma addirittura divennero moda: è dunque più che comprensibile che la poesia risentisse di questo modus vivendi atque cogitandi, e ne assumesse le tematiche.
E la tematica principale dell’esistenzialismo − in particolare sartriano − è ben nota: la vita è dolore, nausea, ostilità.
Ora la poesia, rispetto alla filosofia, non intende dare soluzioni a, né tantomeno spiegare la sofferenza; i poeti che si interrogavano sulla vita dell’uomo, si limitavano a prendere atto della verità del dolore, senza analizzarlo.

Ovviamente, non tutti i poeti parlano allo stesso modo.
Ognuno di essi, infatti, parla del dolore a seconda del grado di espressività che, d’esso, hanno la convinzione di poter dare.
Di varie modalità espressive e di sterminati autori, ne scegliamo tre che ci sembrano rappresentativi di altrettanti modi di poetare la sofferenza.

 

CLASSICISMO

Montale è il maestro della poesia muta: innanzi alla verità-del-dolore, il premio Nobel guarda senza commentare, ma parla ampiamente e con parole cristalline:

Non chiederci la parola che squadri da ogni lato
l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco
lo dichiari e risplenda come un croco
perduto in mezzo a un polveroso prato.

[…]
Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.

Un vero e proprio canto negativo.
Ciò che colpisce in Montale è la chiarezza vivida, i paragoni e le metafore evidenti. Il dolore non è, per Montale, un trascendentalis inesprimibile; è quotidianità, e la mente poetica, pur rifiutandosi di comprendere, verbalizza:

Spesso il male di vivere ho incontrato
era il rivo strozzato che gorgoglia
era l’incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato.

Bene non seppi, fuori del prodigio
che schiude la divina Indifferenza:
era la statua nella sonnolenza
del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.

 

ERMETISMO

Vi sono, tuttavia, anche poeti che, pur comprendendo (e incarnando) il dolore, non riescono a comunicarlo completamente, ma solo attraverso immagini misteriose, richiami ancestrali, accostamenti reali e assurdi: pensiamo a Quasimodo, che del dolore fa la magia del verso:

Grato respiro una radice
esprime d’albero corrotto.

Io mi cresco un male
da vivo che a mutare
ne soffre anche la carne.

Nella consapevolezza che ogni gioia è del tutto effimera, che non esiste nulla che possa glorificare l’esistenza in quanto tale, l’uomo tenta di comunicare la sua sofferenza ma non vi riesce se non con dizioni che, purtroppo, solo lui comprende. Resta, quindi, tremendamente solo, e quando cerca conforto, non lo trova se non in se stesso. La grande sofferenza è dunque l’incomunicabilità:

Non una dolcezza mi matura,
e fu di pena deriva
ad ogni giorno
il tempo che rinnova
a fiato d’aspre resine.

E dunque, unica ancora di salvezza, si apre la certezza che il mal-di-vivere, è una volontà di Dio:

Non m’hai tradito, Signore:
d’ogni dolore
son fatto primo nato.

 

MINIMALISMO

Il grado di massima inesprimibilità del dolore si raggiunge con Ungaretti:

La mia squallida
vita si estende
più spaventata di sé

In un
infinito
che mi calca e mi
preme col suo
fievole tatto.

L’uomo soffre così tanto, che l’unica cosa che può dire è, di fatto, e mi scuso per il francesismo, che la vita fa schifo.
E non occorrono tante parole per dirlo: una “squallida vita”, credo (e così il poeta soldato), è espressione ben più che sufficiente a chiudere ogni discorso.
Ma otto versi sono ancora molti, si può esser ancora più brachilogici:

VIE

corruption qui se pare d’illusions.

 

L’esistenzialismo tenta di dare una spiegazione a tutto questo indicibile dolore. Non è compito della poesia, mi sembra chiaro, far tesoro della sua lezione. Il punto di partenza tematico sarà uguale, ma le destinazioni dei due viaggi (poetico-puro e filosofico-puro) sono evidentemente diversi.
E tuttavia, nulla impedisce a un poeta d’esser filosofo (e viceversa) e di tentare di spiegare.
Ebbe a dire Alda Merini:

«La vita non ha senso, anzi è la vita che dà senso a noi, basta che la lasciamo parlare, perché prima dei poeti parla la vita […] È bello accettare anche il male, non discutere mai da che parte venga il male».

In fondo, un filosofo esistenzialista non credo aggiungerebbe molte altre parole.

 

David Casagrande

[Immagine di copertina di Kevin Saint Grey]

banner-pubblicitario-abbonamento-rivista-la-chiave-di-sophia-03-03

 

Polifonia sulla legittimità del suicidio

– Morte spiran suoi sguardi!… A me quel ferro.
– A lei pria il ferro, in lei! Muori.
– Ah!… Tu pur morrai.
(V. Alfieri, Rosmunda, atto V scena 5)

 

È sempre il solito, vecchio e trito, problema shakespeariano:

«Essere o non essere, questo è il quesito. […] Morire, dormire, nulla di più, e con un sonno dirsi che poniamo fine al cordoglio e alle infinite miserie naturale retaggio della carne»1.

Come ho cercato di dimostrare parlando d’Anassimandro, nascere è una disgrazia: ci condanna alla sofferenza, alla contingenza, alla libertà, alle scelte, agli sguardi. Soprattutto alla solitudine. Resta da comprendere se questa disgrazia-lunga-una-vita sia sufficientemente dura da giustificare il suicidio. La risposta, lo vedrete, sarà volutamente gesuitica.
Per addentrarmi meglio nella questione, inizierò aggrappandomi al pensiero di Sartre e Leopardi.

Sartre ne L’essere e il nulla, afferma che la nostra condanna alla libertà si esplica attraverso la “progettualità” costante; ora, se l’uomo è pro-getto (cioè gettatezza nel futuro, nell’avanti), la morte rappresenta l’evento antiumano per eccellenza, perché interrompe lo scagliarsi-innanzi della coscienza. Questa antiumanità è, naturalmente, centuplicata dall’atto suicidario.
Data la natura temporale dell’uomo, e la necessità di pro-gettare ogni azione nell’avvenire, ne consegue che gli atti hanno senso solo se aprono alla possibilità di un alterità futura: il presente insomma, attraverso il pro-getto, si consegna alla possibilità del futuro per garantirsi senso; conseguentemente, un gesto che nega tout-court il futuro non ha significato.
Eo ipso, il suicidio (ammessa e concessa l’estrema dolorosità della vita) non ha senso:

«Se dobbiamo morire, la nostra vita non ha senso perché i suoi problemi non ottengono alcuna soluzione. Sarebbe inutile ricorrere al suicido per sfuggire a questa necessità. Il suicidio non può essere considerato come una fine per la vita di cui sarei il fondamento. Essendo atto della mia vita, richiede anch’esso un significato che solo l’avvenire gli può dare; ma siccome è l’ultimo atto, esso si priva di  avvenire»2.

Leopardi argomenta in modo più complesso: leggendo lo Zibaldone e le Canzoni del suicidio, risulta essere è una via praticabile e gli animi grandi riconoscono in esso una vittoria sul dolore, una situazione preferibile. E da un certo punto di vista, non vi è nulla di più ragionevole di questo gesto, essendo anzi la ragione causa precipua dell’eventualità suicidaria:

«La speranza non abbandona mai l’uomo in quanto alla natura. Bensì in quanto alla ragione. Perciò parlano stoltamente quelli che dicono che il suicidio non possa seguire senza una specie di pazzia, essendo impossibile senza questa il rinunziare alla speranza ecc. Anzi tolti i sentimenti religiosi, è una felice e naturale, ma vera e continua pazzia, il seguitar sempre a sperare»3.

Insomma, il suicidio non è che il frutto consequenziale di una scelta sociale operata dal pensiero imperante nel mondo occidentale a partire dall’Illuminismo:

«Quando le illusioni e le fede fossero scomparse dal suo orizzonte, il moderno fruitore di un’esistenza geometrica e disincantata si sarebbe ammazzato da sé stesso»4.

Nel Dialogo di Plotino e Porfirio il tema è trattato diffusamente: il propugnatore del suicidio è Porfirio; Plotino, suo maestro e difensore della vita, obietta al suicidio seguendo una doppia linea di ragionamento. La prima, è dettata dal pragmatismo:

«[Uccidendoci] non avremmo alcuna considerazione degli amici; dei congiunti di sangue»5.

La seconda è, invece, più sottile: Plotino invita 1) ad assumere su noi stessi il dolore di tutto il mondo, e 2) nota che l’autoeliminazione è un atto, per quanto eroico, certamente manchevole d’amor proprio: compito del saggio è comprendere che:

«La vita è cosa di tanto piccolo rilievo, che l’uomo, in quanto a sé, non dovrebbe esser molto sollecito né di ritenerla né di lasciarla. […] Viviamo, Porfirio mio, e confortiamoci insieme»6.

Una strana chiusa, rispetto a quanto sostenuto nello Zibaldone, dove il suicidio è visto come il succo della mentalità contemporanea; forse, nel pensiero di Leopardi, è in atto, negli anni di stesura delle Operette Morali, una certa  evoluzione, che culminerà nella poetica de La Ginestra, nella quale viene riconosciuta la «social catena»7 degli uomini riuniti in fratellanza il ruolo d’ultimo baluardo contro la paura e la distruttività insita nella rerum natura.

Insomma: Sartre dice no, Leopardi dice no, ma … E chi scrive che dice? A livello umano sarebbe portato a dire “No”. A livello filosofico, invece dire che non si può escludere il suicidio dall’orizzonte teorico della possibilità esistenziale.

Se il buio davanti a noi è torbido, il pensiero del suicidio non può essere scartato a priori dalla mente (che, anzi, è fondamentale abituare a pensare (il) tutto). Tuttavia, se da un lato è necessario affrontare il fantasma razionale della morte (anche nella sua forma ectoplasmatica suicidaria), dall’altro è doveroso rimarcare che pensare questa possibilità non vuol dire attuarla!

La vita (eterna scelta tra odio e amore) comprende anche il pensiero del suicidio, ma nella pratica esso resta un assurdo e, proprio in virtù della vocazione esistenziale alla scelta, lo è sia dal punto di vista dell’odio che da quello dell’amore. Chi odia, infatti, perché mai dovrebbe liberare della propria fastidiosa presenza gli altri che tanto detesta; e chi ama come può accettare di vivere un’eternità senza quell’alterità che egli così profondamente dilige? L’amore e l’odio sono verità che non si modificano sub speciem desperationis.

Insomma: sì alla teoria, no alla pratica del suicidio. Pensare il suicidio ci fa crescere (e ci insegna a rifuggirlo), praticarlo ci annulla senza, peraltro, risolvere nessuno dei nostri problemi. Ricordatevi dell’esempio di Vittorio Alfieri, dei suoi eroi tragici (che s’ammazzavano all’arma bianca) e del fatto ch’egli morì di malattia.

 

David Casagrande

 

NOTE:

1. W. Shakespeare, The tragedy of Hamlet, act III, scene 1.
2. J.-P. Sartre, L’essere e il nulla, Il Saggiatore, Milano 1997, p.600
3. G. Leopardi, Zibaldone 183 (23 luglio 1820).
4. R. Damiani, L’impero della ragione. Studi leopardiani, ed. cit., p. 114.
5. G. Leopardi, Operette morali, in: G. Leopardi, Tutte le prose e tutte le poesie, Grandi Tascabili Economici Newton, p. 508.
6. Ivi, p. 509.
7. G. Leopardi, La Ginestra o il fiore del deserto, v. 149, in: G. Leopardi, Canti, in: G. Leopardi, Tutte le prose e tutte le poesie, ed. cit., p. 204.

 

banner-pubblicitario_abbonamento-rivista_la-chiave-di-sophia_-filosofia