IL REPUBBLICANO CHE È IN NOI

A settant’anni dal referendum del 2 giugno 1946

Michael Sandel, una delle menti filosofiche più brillanti sulla scena mondiale e professore ad Harvard, ci ha ricordato, di recente (in Giustizia. Il nostro bene comune, Feltrinelli 2010), che accanto ai doveri naturali e universali, come rispettare l’altro o non commettere ingiustizie, che avvertiamo come esseri razionali, e agli obblighi che assumiamo volontariamente, ci sono doveri di solidarietà, che non abbiamo scelto o contrattato, ma che discendono dall’appartenere ad una comunità specifica e dalla responsabilità di essere concittadini. Oltretutto, questi doveri sono fondamentali per una narrazione di noi stessi e delle nostre vite, per rintracciare il senso delle nostre azioni e aspettative nella storia o nelle storie di cui ci troviamo a far parte. Infatti, solo astrattamente possiamo considerarci soggetti monadici che si limitano a negoziare interessi e diritti con gli altri. La memoria storica è appunto uno di questi doveri, anche quando è terreno di conflitti o tensioni latenti e non solo di condivisioni e pacificazioni.

Come tutte le feste nazionali, ma forse più di altre, la festa del 2 giugno serve a rinsaldare la memoria condivisa della comunità e a fornire alcune coordinate morali alle nostre esistenze di membri di quella comunità; a ricordare il primo rito democratico che, col referendum del 1946, la nazione italiana celebrava dopo la ferita del trauma totalitario e la lacerazione di una guerra civile, che si era intrecciata con la guerra di liberazione. Per noi, “Repubblica” significa lealtà al nuovo corso democratico e pluralista imboccato dopo la guerra e il rifiuto di una monarchia che scelleratamente aveva aperto le porte al fascismo, si era compromessa con il suo progetto di distruzione degli istituti liberali e con le velleità belliciste, che, soprattutto, dopo l’8 settembre 1943, determinarono quel collasso della nazione che gli storici non tardarono a chiamare “morte della patria”. Anche se con la fragilità e la mestizia di una “creatura povera”, come Corrado Alvaro ebbe a definire l’Italia in quell’anno, la patria cominciava a rinascere proprio dopo l’esito referendario a favore della repubblica, nonché dopo il varo della costituzione repubblicana e le prime elezioni politiche del 1948.

Prima congelati e intossicati dalla retorica patriottica e imperialista della dittatura fascista e, poi, andati in frantumi all’indomani del 25 luglio e dell’8 settembre, Stato e identità nazionale si rimettevano in piedi e si riconfiguravano con gli ideali repubblicani dell’autodeterminazione popolare e della trasformazione consapevole e democratica della società, il cui elemento strutturante sarebbe stato negli anni avvenire, nel bene e nel male, la mediazione dei partiti di massa. Seguendo l’onda del secondo dopoguerra ma sicuramente in modo più rapido e profondo di altre nazioni europee, a causa del senso di colpa di aver creato nel cuore dell’Europa, dopo la Grande Guerra, un modello politico autoritario alternativo allo Stato liberale, l’Italia repubblicana si apprestava a liquidare il nazionalismo e a sostituirlo con un “patriottismo costituzionale”, che venne rinforzato con un nuovo mito fondativo: la Resistenza. Nel 1946, Alberto Moravia scriveva che “la sconfitta ha definitivamente respinto nel passato D’Annunzio e Gentile, l’eroismo nicciano e il nazionalismo barresiano, l’idea di Impero di Roma e quella dello Stato etico”[1]. Si può cogliere l’occasione del settantesimo anniversario della Repubblica italiana, per chiederci più in generale: cosa significa essere ‘repubblicani’ e cosa significa esserlo oggi, agli inizi del XXI secolo?

Nel giro di un secolo e mezzo di storia europea e mondiale, dalla Rivoluzione francese alla Seconda guerra mondiale, l’idea di nazione ha suscitato, allo stesso tempo, il risveglio e il più tremendo sonno della ragione. Lo Stato-nazione moderno è stato l’impasto dialettico di due correnti: il repubblicanesimo e il nazionalismo. Il repubblicanesimo ha immaginato una nazione di cittadini che si riconoscono liberi ed eguali nella formazione della volontà collettiva; il nazionalismo ha immaginato una nazione come comunità di destino, fondata sulla discendenza dallo stesso ceppo etnico, cioè su legami prepolitici.  Il primo ha incoraggiato il senso civico, il sentimento della libertà e della partecipazione, ha legittimato la democrazia; il secondo ha incoraggiato la disponibilità a combattere e a morire per la patria, ma anche il senso dello Stato e della sua indipendenza. Durante l’Ottocento romantico, come testimoniano anche i movimenti risorgimentali, il nazionalismo è stato un potente vettore del repubblicanesimo e dell’affermazione dei principi universalistici della democrazia. Emblematica di questa convergenza è la figura di Mazzini, ad esempio. Ma questa complementarietà è stata drammaticamente spezzata dalla strumentalizzazione del mito nazionale, messo prima al servizio dell’imperialismo e della politica di potenza dalle élites politiche europee tra il 1871 e il 1914 e, poi, da Mussolini e Hitler, al servizio di un progetto totalitario, totalmente incompatibile con i principi repubblicani.  Nella seconda metà del Novecento, dopo i disastri del nazionalismo bellicoso e totalitario e con l’avvento di società multiculturali e multietniche, l’idea di democrazia repubblicana si è sganciata da un concetto “romantico” di nazione intesa come entità naturalistica, che ha conosciuto un progressivo declino.

Nella misura in cui si è legato storicamente all’affermazione dello Stato nazionale, il repubblicanesimo deve fare i conti oggi con la crisi irreversibile che ha investito lo Stato nazionale nel mondo globalizzato. Cionondimeno, nel dibattito filosofico e politico americano, alla fine del secolo scorso, ancora molti intellettuali, tra cui lo stesso Sandel, hanno difeso un’idea ‘repubblicana’ ovvero communitarian di politica in opposizione ad un’idea neoliberale di politica. Se per i secondi, il processo democratico ha senso sostanzialmente in funzione della difesa delle libertà negative e dei diritti privati dall’ingerenza dell’apparato amministrativo dello stato, per i primi ha la funzione principale di garantire i modi, istituzionalizzati e informali, con i quali tutti i cittadini ragionano e determinano il bene comune, con un orientamento etico e non solo mirato strategicamente ai propri interessi. Ora, in un mondo nel quale la globalizzazione commerciale, produttiva, finanziaria, dei rischi militari ed ecologici, pone problemi che travalicano le capacità di intervento dello Stato nazionale e richiede l’azione coordinata degli Stati o di organizzazioni superstatali, le sfide che attendono il repubblicanesimo del futuro riguardano la possibilità che i processi democratici funzionino anche al di fuori dei confini dello stato nazione (una scommessa  ancora per l’Unione europea, come sappiamo) e funzionino anche in una collettività non etnicamente omogenea, cioè in una società multiculturale, che è anche la conseguenza di una politica di accoglienza di migranti e rifugiati. Così come riguardano l’esigenza crescente di forme di direttezza della politica, come le ha chiamate Nadia Urbinati (in Democrazia in diretta. Le nuove sfide alla rappresentanza, Feltrinelli 2013), che si sono affacciate contestualmente alla crisi dei partiti e con le potenzialità comunicative e orizzontali del web e che sembrano cercare una risposta bottom up alla crisi d’impotenza dello stato nazione, in corrispondenza a quella top down degli organismi internazionali o confederali.

Queste sfide future e le loro importanti poste in gioco, non devono far dimenticare però che lo spirito repubblicano rimane l’antidoto al ritorno regressivo di pulsioni nazionalistiche mai sopite del tutto, come dimostrano l’Ungheria e la Polonia e le elezioni presidenziali in Austria. Nel suo ultimo libro, scritto proprio in quel cruciale 1946 e col titolo significativo Il ritorno alla ragione, il filosofo e storico delle idee Guido De Ruggiero, antifascista, liberale e poi azionista, metteva in guardia sul fatto che, per quanto potesse sembrare assurda la sopravvivenza dei nazionalismi dopo la catastrofe che essi avevano provocato con il nazifascismo e con due conflitti mondiali, non era da escludere la loro riemersione, trattandosi di “una realtà, che riposa sul fondo irrazionale della nostra natura, ed è mantenuta in vita dagl’impulsi istintivi e passionali che muovono da essi”. In contrapposizione al nazionalista che è sempre in agguato in noi, allora, bisogna che resti vigile il repubblicano che è in noi, quello a cui faceva appello nel Contratto sociale Jean-Jacques Rousseau, allorquando invitava il cittadino a radicare nel suo “cuore” i principi democratici e le leggi e a “ragionare nel silenzio delle passioni su ciò che l’uomo può esigere dal suo simile e su ciò che il suo simile può esigere da lui”.

Francesco Bellusci

Note

[1] (citato in Emilio Gentile, La Grande Italia. Il mito della nazione nel XX secolo, Laterza 2006)

La Patria delle trivelle

In seguito alle votazioni di ieri, mi è giunta forte fortissima la riflessione su un concetto tanto semplice quanto denso di significato, quello di Patria.

Nella modernità troppo spesso si è utilizzato il socialismo marxista per demolire l’amore di patria, infatti, si cercava di diffondere l’idea che se la patria è qualcosa di  ereditato dagli antenati attraverso la tradizione, allora il lavoratore dipendente, che non possiede nulla di suo, non trae alcun vantaggio dalla patria, quindi va respinta come mero vuoto sentimentalismo che le classi dominanti sfruttano per meglio assoggettare i popoli e di cui i proletari  è meglio che si sbarazzino per il progresso del mondo.

Questo pensiero per molto tempo è stato alla base di ogni più stupida e ridicola denigrazione dell’ideale della Patria e purtroppo si sente ripetere ancora troppo spesso da alcuni di vergognarsi di essere italiani, di non sentirsi italiani se rappresentati da una determinata fazione politica: questo non è essere patrioti!

La politica non deve mai compromettere il sentimento che si prova per la propria terra! Un sentimento, appunto, che non svanisce solo perché non si concorda con una determinata politica; l’amore per la propria Nazione deve trascendere questo puro materialismo, anzi, a causa di questo dovrebbe aumentare l’orgoglio patriottico.

La denigrazione del proprio Paese non ci rende degni di esso, di questo ne sono certa.

Concordo con Fichte, esponente dell’idealismo tedesco, quando afferma:

Ma dove mai si può trovare una garanzia per queste aspirazioni e questa fede dell’uomo bennato nell’eternità e perpetuità dell’opera sua? Evidentemente solo in un ordine di cose che egli possa riconoscere eterno in sé e capace di accogliere in sé l’eterno. Tale ordine è quella speciale forma spirituale dell’ambiente umano, che non si può chiudere in un concetto e tuttavia esiste realmente, da cui egli è uscito fuori con la sua attività e la sua mentalità e colla sua stessa fede nell’eterno: il popolo da cui è nato, in cui fu educato e crebbe qual è ora.

[…] Ecco dunque il significato della parola “popolo”, dal punto di vista di un mondo spirituale: quel complesso di uomini conviventi permanentemente e permanentemente riproducentesi sia naturalmente che spiritualmente, stando esso sotto una speciale legge di sviluppo dell’elemento divino che esso ha in sé. La comunanza di questa “speciale legge” è appunto ciò che cementa questo complesso di uomini nel mondo eterno e quindi anche nel mondo temporaneo, facendone un tutto organico e tutto! pervaso di sé. […] Quella legge di sviluppo dell’elemento primitivo e divino determina e compie ciò che si è chiamato il carattere nazionale di un popolo.”

Il concetto di popolo nell’idealismo si fonda con quello di spirito, visto come dimensione metaindividuale alla quale il singolo appartiene: attraverso questa identificazione l’uomo è in grado di oltrepassare i suoi limiti perché entra a far parte di un processo infinito ed eterno. In questo modo risulta chiaro che la Nazione è la vera dimensione dell’individuo in cui può effettivamente realizzarsi.

Ho scelto Fichte perchè a mio avviso esprime proprio il sentimento, la dimensione spirituale che lega l’uomo al proprio Paese: la Patria è ciò in cui vige un legame di partecipazione profonda, di vera e propria identificazione  mediante la quale l’individuo supera la propria particolarità per sentirsi un’unica realtà con gli altri.

La Patria è ciò che ci fa conoscere l’eternità nella nostra finitezza terrena, è

il fiorire del divino nel mondo, sempre più puro, più perfetto, più prossimo al limite nel suo infinito perfezionarsi. Perciò l’amor di patria deve governare lo Stato come suprema incontrollata istanza”.

La voglia di Unità d’Italia deve riguardare tutti gli italiani ogni giorno dell’anno, attraverso la riscoperta dell’universale ideale della Patria che è ciò che ci rende forti e pronti a combattere ogni tipo di sistema che non ci vada a genio, altrimenti, se questo sentimento lo manteniamo sopito dentro di noi o, anzi, lo deturpiamo, beh non lamentiamoci di chi siamo ora e di quello che saremo domani.

Valeria Genova

“Una giornata particolare”

Una bellissima regia di un grande maestro del cinema italiano, Ettore Scola, da poco scomparso; una trama profonda e vera, spoglia di retoriche e ipocrisie. Una Giornata Particolare si svolge nell’arco di poche ore, è il 6 maggio 1938, giorno della visita di Adolf Hitler a Roma. La città è in fermento e riempie le strade per l’arrivo del dittatore tedesco. In un comprensorio di case popolari Antonietta (Sophia Loren), madre di sei figli, rimane sola in casa dopo aver salutato la famiglia pronta per la parata. Nel palazzo quasi deserto incontra Gabriele (Marcello Mastroianni), suo vicino di casa. L’incontro tra i due, seppur della durata di una giornata, sarà profondo, smuoverà le coscienze afflitte e sole di entrambi.

In questo film ci si trova immersi in un universo molto piccolo, muovendosi tra le scale, gli appartamenti e la terrazza di uno dei più classici e comuni condomini italiani; eppure Scola riesce a svelare e a trasmettere la complessità del momento storico, portandola allo spettatore tramite lo sguardo triste e rassegnato dei protagonisti. La fotografia color seppia avvolge la scena in modo ovattato, caricandola di attesa e portandola in un contesto che sembra fuori dal tempo, come se l’incontro tra Antonietta e Gabriele rappresentasse una timida parentesi. Ai dialoghi tra i due, che si fanno di volta in volta sempre più teneri e intimi, si oppone la vera radiocronaca dell’incontro tra Hitler e Mussolini, che irrompe nella storia, sottolineando ancor di più un senso di oppressione.

Mastroianni e la Loren sono magistrali; ancora una volta recitano in coppia ma la loro bravura lascia sempre sorpresi, come se mostrassero qualcosa di nuovo in ogni singolo lavoro. Sono perfetti nell’incarnare la solitudine e l’inadeguatezza dei due protagonisti. Vivono una discriminazione diversa ma che li avvicina. Il loro sguardo, inizialmente inconciliabile, arriva per fondersi in uno solo. Sono le personificazioni delle voci che il regime soffoca, quella della donna discriminata, relegata a guardiano del focolare, vittima incosciente. E la seconda voce, quella dell’intellettuale impotente seppur consapevole, timido, visto come diverso e pericoloso.
Questi percorsi, così differenti tra loro, si intrecciano, arrivando alla fine della giornata a coincidere; c’è un solo punto di vista, un’equivalenza di solitudine che lega i due in un abbraccio di coscienze sofferenti.

Una Giornata Particolare si dimostra un film straordinariamente acuto nel denunciare gli aspetti più subdoli e ipocriti del fascismo; qui è visto non solo come aberrante ideologia politica, ma come progetto di asservimento socio-culturale. Una macchina bieca che annulla le diversità e appiattisce gli spiriti. Antonietta e Gabriele sono lo specchio e l’esempio delle tante discriminazioni del regime, persone comuni, normali, costrette ad abbandonare le proprie idee e il proprio io.

Lorenzo Gardellin

[Immagine tratta da Google Immagini]

Sulla maternità surrogata e il concetto di dono

Sulla questione della maternità surrogata ho già dato un mio contributo con l’articolo del mese di settembre: “La maternità surrogata e il turismo procreativo dell’occidente”, ma le affermazioni che si sono susseguite nelle ultime settimane, relativamente alla possibilità di considerare la maternità surrogata un dono, hanno alimentato il mio desiderio di riproporre l’argomento.

Sono due le dichiarazioni che prenderò in considerazione; la posizione espressa all’AdnKronos Salute dall’oncologo Umberto Veronesi in data 19 febbraio 2016: «l’utero in affitto è un gesto nobile, è una donazione», alla quale è seguita dieci giorni dopo quella della senatrice Emma Bonino a Bergamonews: «Posso fare una domanda: se posso donare un rene in questo Paese perché non posso donare un utero? Io non lo farei, ma non capisco perché non si deve fare».

Se rifletto sull’utilizzo della parola donazione nelle due dichiarazioni ritrovo un forte legame con l’intenzione di esercitare un gesto solidale e il proporsi di portare avanti una gravidanza per altri è una generosità che forse, ripeto forse, posso comprendere quando riguarda persone che sono legate da una profonda amicizia o che intrattengono tra loro legami di sangue (sorelle). In questi casi ci si offre di aiutare una persona cara a realizzare un desiderio di genitorialità che altrimenti non potrebbe concretizzarsi.

Ritengo alquanto difficile poter fare la stessa valutazione qualora si tratti della decisione di una donna di mettere il proprio corpo a disposizione di sconosciuti senza richiedere nulla in cambio.

Di sicuro si tratta di una tipologia di generosità e solidarietà che difficilmente concorderebbe con studi antropologici, psicologici e sociologici che, a partire da Marcel Mauss[1] si sono dedicati allo studio delle dinamiche della fenomenologia del dono.

Questi studi sostengono che il dono sarebbe uno dei modi più comuni ed universali per creare legami sociali e relazioni umane.

Il meccanismo del dono si articolerebbe in tre tappe fondamentali basate sul principio della reciprocità: dare, ricevere (l’oggetto deve essere accettato) e ricambiare; di conseguenza, il dono davvero gratuito non esisterebbe. In questa prospettiva, il dono comporta sempre l’aspettativa e l’obbligo morale di una restituzione. Il valore del dono ricevuto sta proprio nell’assenza di garanzie per il donatore, un’assenza che richiede una buona dose di fiducia negli altri.

Alla luce di tali considerazioni, può rientrare in questo schema la maternità surrogata a favore di terzi, estranei, spesso destinati a rimanere tali?

La donazione del rene, chiamata in causa dalla senatrice Bonino, con tutte le distinzioni del caso, può aiutare ad orientarci.

In Italia, dal 2010, il Consiglio Superiore di Sanità ha autorizzato la cosiddetta “donazione samaritana”, ovvero la possibilità di donare un rene ad una persona sconosciuta che verrà ovviamente sottoposta a tutti gli accertamenti fisici e psicologici del caso. Il parere del Consiglio Superiore di Sanità prevede che il donatore ed il beneficiario rimangano nell’anonimato sia prima che dopo l’intervento.

Difficile da immaginare l’identità della persona tanto generosa da farsi espiantare un organo vitale e che agisce solo per un dovere morale senza nulla in cambio (un autentico soggetto morale kantiano).

Da ritenersi fondamentale la valutazione psicologica e psichiatrica del donatore per evitare che dietro tale aspirazione si nascondano la necessità si espiazione, spesso diffusa tra i soggetti subalterni (uno dei primi a proporsi per un espianto di rene fu un detenuto), o la pulsione narcisistica a compiere un atto eroico in grado di riscattare una vita “sbagliata”. Mi chiedo se anche i casi di maternità surrogata per solidarietà verso estranei non si prestino ad un simile lettura.

Ritengo che il problema stia a monte e riguardi la moralità del gesto che si va a compiere. A differenti livelli e con differenti implicazioni, sia donare un rene, sia portare a termine una gestazione per terzi sono esperienze non prive di conseguenze sul piano fisico e psicologico. La grande differenza tra le due pratiche risiede nel fatto che la donazione di un rene salva vite umane, la maternità surrogata soddisfa un desiderio, non si tratta di un’esigenza vitale e avere un figlio non può essere risolto nel desiderio e nel capriccio dell’io individuale costi quel che costi.

Silvia Pennisi

NOTE

[1] MARCEL MAUSS, Saggio sul dono. Forma e natura dello scambio nelle società arcaiche, Einaudi, 2002.

La danza: l’arte contro il pregiudizio. Intervista a Leon Cino

Siamo abituati a guardare la televisione in modo passivo, ad osservare delle immagini che si muovono, sempre pronti a giudicare con la convinzione che il telespettatore abbia sempre ragione; non ci soffermiamo mai a capire chi si celi davvero dietro le persone che vediamo lavorare dentro quella scatola di fronte a noi, a conoscere le loro storie, i motivi che le hanno spinte ad addentrasi in un mondo dorato quanto spietato, capace di darti tanto ma anche di toglierti tutto.

Noi de La chiave di Sophia abbiamo avuto il piacere di conoscere più da vicino Leon Cino, ballerino, famoso ai più per avere vinto la terza edizione di Amici ed essere stato uno dei professionisti di ballo della trasmissione per diversi anni. Abbiamo scelto proprio lui perché si è sempre dimostrato una persona ligia al senso di dovere e responsabilità, mettendosi in gioco con umiltà e rimanendo sempre al suo posto con discrezione. Qualità che lo hanno aiutato nella vita come nella professione e che devono essere da stimolo per i giovani di oggi qualunque ambito lavorativo vogliano intraprendere.

1- Leon Cino, classe 1982, ballerino. La tua terra d’origine è l’Albania, paese che spesso si sente nominare per i flussi migratori che investono l’Italia: come hai vissuto, appena arrivato qua, l’essere albanese con i pregiudizi delle persone ipnotizzate dai mass media?

I media hanno un ruolo molto importante come anche le statistiche, credo però che tocchi a noi informarci più a fondo. Dico questo per esperienza personale: finché sei parte di una statistica la gente giudica a seconda della notizia/statistica; dopo averti conosciuto, ti apre le porte della sua casa.

2- La danza è la tua passione: quando e come è nata?

Non sapevo che questa sarebbe stata la mia passione: una sfilza di eventi mi hanno portato ad amare il ballo. La prima di tutte e forse la più ovvia è che la danza può essere tutto: divertimento, amore, spettacolo… e di questo te ne rendi conto da solo. Poi aggiungi la passione trasmessa da chi prima di te l’ha amata ed ecco che la fai tua per sempre.

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3- Purtroppo a volte chi non conosce il mondo della danza da vicino, vive con pregiudizio il binomio danza-uomo. Tu hai mai avuto difficoltà nella vita a causa di questo sciocco pregiudizio? Se sì, come hai reagito?

Sì, qualche evento qua e là, ma non di grande rilevanza; ho imparato che con chi ha una piccola fiamma di pregiudizio basta soffiarci sopra ed essa si spegne. Anche perché in fondo tutti da adolescenti portiamo l’amica a ballare alle feste delle medie o delle superiori o in discoteca…quindi perché avere pregiudizi?

4- In Italia hai partecipato ad un talent show, Amici: perché un ballerino di talento sceglie una trasmissione televisiva piuttosto che un teatro per esibirsi?

Sempre per una serie di eventi e un misto di: voglio provare un’avventura nuova, voglio allargare le mie vedute e così via!

5- La danza in televisione viene, secondo te, capita fino in fondo dal telespettatore che la guarda oppure è semplice e puro spettacolo?

Credo che la televisione, come il teatro e come il cinema, sia una sorta d’intrattenimento: fa passare il tempo al pubblico. Il telespettatore poi guarda all’intrattenimento in modo personale interpretandolo a modo suo, dunque capendolo o meno. Certo, però, che la televisione non posso metterla a confronto con un’esibizione dal vivo.

6- Cosa ti ha lasciato quell’esperienza?

Tra le molte cose, posso parlare del bagaglio professionale che mi porto dietro da Amici: avere conosciuto e avere lavorato con persone che fanno il mio stesso mestiere, ognuna con particolarità diverse! Questo ti arricchisce moltissimo.

7- Il talento: c’è chi dice che sia innato e pochi ce l’abbiano, chi, invece, ritiene che sia qualcosa che tutti possiedono, basta scoprirlo e allenarlo. Tu cosa pensi e perché?

Ho letto un articolo che parla dei geni: tutti noi abbiamo qualcosa che ci portiamo dietro fin dalla nascita e gli effetti ambientali e culturali ci plasmano; la ricerca sui geni non è stata ancora completata, per questo al momento si pensa che l’effetto ambientale sia quello predominante. Io sono d’accordo: nasco ballerino? Forse sì o forse no, ma se sin da piccolo il contesto in cui vivo mi offre la possibilità di fare alcune cose basilari per il ballo (per esempio la spaccata) allora sono “portato” a ballare, perché gli elementi ambientali che mi circondano mi conducono spontaneamente verso quella disciplina, se invece sono io a decidere di fare il ballerino allora devo imparare a fare quelle cose e la spontaneità lascia il posto al dovere.

8- In Italia quanto conta l’essere raccomandati e quanto invece il merito?

Ci sarebbe molto da dire. In un investimento senza criterio su una persona la raccomandazione vale molto più del merito, in un investimento con criterio senza dubbio vince il merito.

9- La danza è dare forma allo spazio vuoto che ci circonda, riempiendolo di emozioni e sensazioni del proprio vissuto. Tu quando balli porti te stesso che rappresenta il personaggio da interpretare o diventi un tutt’uno con il personaggio stesso?

Entrambe! È proprio per questo motivo che la nostra professione porta dietro molte difficoltà! Per trasmettere quello che è il personaggio lo devi interpretare diventando quel personaggio; se hai dei dubbi e ti mostri esitante il pubblico se ne accorge subito.

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10- La danza è pensiero e permette di riflettere su molti temi delicati con la sola forza del corpo. La filosofia è anch’essa pensiero e permette di riflettere sulla vita con la sola forza della mente. Danza e filosofia sembrano entrambe discipline così astratte da non essere minimamente prese in considerazione dalle persone concrete e pragmatiche. Perché, a tuo avviso, la gente è riluttante nei confronti di tutto ciò che permette di riflettere, come la danza e la filosofia?

A causa dei tempi che corrono. Le persone ora hanno bisogno di concretezza e devono toccare con mano; io lo capisco molto bene e non posso dar loro torto, credo, però, che si possa ancora cercare di riflettere un po’ di più e, perché no, frequentare i teatri un po’ più spesso…non sarebbe per niente male.

11- Sei sempre stato molto discreto, umile e professionale. Credi che queste tre cose ti abbiano aiutato nel tuo percorso artistico? Perché?

Il percorso artistico cresce con il lavoro e il lavoro porta ad essere professionale. Essere discreto e umile fa parte dell’uomo e sono ciò che mi rendono umano ed ho imparato che chi ti apprezza come persona ti apprezza anche come professionista.

12- Come spiegheresti la magia del teatro e del contatto diretto con il pubblico?

Incredibile: senti IL profumo a teatro, profumo di sudore e di fatica.

13- Per un ballerino conta di più la propria soddisfazione o quella del pubblico? Perché?

È un cerchio perfetto: il pubblico è la verifica di quanto bene uno faccia sul palco. Se è soddisfatto il pubblico, sei soddisfatto anche tu.

14- Pensi che dietro ad ogni corpo danzante, ad ogni vostro gesto che plasma l’aria e ad ogni passo che racconta storie ci sia un pensiero, una riflessione profonda che vada al di là della tecnica e della semplice esecuzione?

Credo sia un misto perché alcune storie ti toccano più nel profondo di altre e ti invitano ad una  maggiore riflessione; questo, però, non è detto che ti porti a fare meglio o peggio.

15- Cosa pensi della Filosofia al giorno d’oggi? Può essere utile per vivere (o forse sopravvivere)?

Se la filosofia è il campo che porta l’uomo a riflettere, allora oggi è assolutamente necessaria perché  l’uomo molto spesso è portato a essere banalmente una pecora che segue la pecora davanti a sé. E noi invece siamo uomini con il dono del pensiero.

Il movimento del corpo può raccontare l’Uomo, la sua interiorità si esplicita attraverso disegni nell’aria.

Con la danza l’Uomo scopre se stesso e il mondo, interpretando situazioni diverse, personaggi opposti tra loro, propri simili o completamente dissimili.

Tutto diventa un viaggio che si sviluppa passo dopo passo e che si rivela comprensibile solo alla fine, col senno di poi, perché viene interiorizzato in modo soggettivo da ogni spettatore.

Chissà quanti mondi diversi e possibili vengono creati durante l’esibizione di un ballerino!

“La danza è scoperta, scoperta, scoperta.” Martha Graham

Tutto questo è ciò che Leon ci ha trasmesso durante le sue esibizioni e che ci ha insegnato con le parole di questa intervista, tra cui traspaiono il senso di sacrificio e lo spirito avventuriero che devono caratterizzare un vero professionista di qualunque mestiere.

Valeria Genova

[Immagini di proprietà di Leon Cino]

Apocalisse all’italiana

Prendete una novità, farcitela con almeno un ‘è sempre stato così‘ e un ‘non è mai stato così‘, aggiungete un pizzico di scarsa conoscenza storica quanto basta, innaffiate con voci di corridoio, siate generosi con notizie dalla dubbia provenienza, e cuocete all’estremo per un arco di tempo variabile cercando di rasentare la follia. Diffondete a ripetizione il verbo nelle vostre bacheche copiando e incollando solo se siete indignati.  Avete così ottenuto panico con contorno di paura.

È il piatto preferito dagli italiani, subito dopo la pizza s’intende; una ricetta tanto semplice quanto efficace. Se ci pensate un attimo compare ogni volta che un argomento di natura sociale infiamma la pubblica piazza, in brevissimo tempo raccoglie manipoli di fedeli schierati nettamente tra i pro e i contro.

Bisogna tuttavia premettere che comportamenti simili la nostra Storia ne annovera parecchi. Il facile ascendente che uomini di potere, ecclesiastico o temporale, avevano sul volgo permetteva loro di condurre una politica basata soprattutto sulla superstizione e sul timore di incorrere in pene capitali sia per il corpo che per l’anima. In che altro modo spiegare, ad esempio, la persecuzione delle ‘streghe’, o degli ebrei cannibali e avvelenatori di pozzi, o dei ‘figli eretici del demonio’ guidati da Lutero?

Attualmente alcune credenze della tradizione popolare che ci appaiono ridicole, le indichiamo – erroneamente – come ‘medievali’, sinonimo di ‘oscurantiste’, appartenenti ai famigerati ‘tempi bui’. Tutto questo ci è concesso perché abbiamo scoperto la loro natura legata ai miti. Sappiamo anche che i nostri avi non sapevano leggere o scrivere, miti e leggende servivano dunque a spiegare l’inspiegabile.

Ignoranti e creduloni diremmo noi, ma sotto certi punti di vista, nonostante l’introduzione della scuola dell’obbligo fino alla maggiore età, non ci siamo molto allontanati dal contadino beneventano che, nel ‘300, scongiurava la visita di una Janara, facendole contare i fili di una scopa posta davanti all’uscio di casa. Siamo infatti capaci di farci leggere le carte, chiamare a pagamento una trasmissione televisiva per farci togliere il malocchio rappresentato dal sale che non si è sciolto nel bicchiere, cadere disperati nel tranello di un fantomatico santone in grado di curare mali tremendi con l’ausilio delle pietre.

E non è finita…

Il Terzo millennio è cominciato ormai da quindici anni, la rivoluzione tecnologica ha messo nelle nostre mani strumenti straordinari da cui attingere informazioni, strumenti assolutamente inimmaginabili che ci permettono di leggere in tempo reale quel che accade dall’altra parte del mondo. Possiamo smascherare bufale simili in ogni momento e in ogni luogo… sul treno, al bar, addirittura mentre siamo sotto la doccia.

Eppure eccoci, ignoranti ingiustificabili che ai quiz proponiamo un Hitler cancelliere nel 1979 ( magari accompagnato dalle note di “Funkytown”? E’ uscita nello stesso anno, quindi è possibile ) o Livorno città tipica dell’Emilia­Romagna.

Certo, fino a quando si tratta di contesti leggeri, chi sbaglia in questo modo non incorre nella Santa Inquisizione, al massimo strappa un sorriso di sconcerto… della serie: si ride per non piangere. Cosa accade invece se il contesto rimanda a quelle novità che coinvolgono l’intera società, il nostro avvenire, e quello delle prossime generazioni? Ultimamente tutte le attenzioni sono rivolte a queste unioni civili, che creano scompiglio, imbarazzo, ‘vendetta tremenda vendetta‘ ( cit. Rigoletto ), e sciolgono le lingue delle genti in parole con picchi di ordinario marasma.

Senza un motivo preciso, dalle unioni civili anche ( non solo ) tra persone omosessuali, si è passati direttamente alla surrogazione di maternità. La televisione ha fatto faville, indici di ascolto alle stelle, manifestazioni che a gran voce hanno chiesto la cancellazione del decreto di legge Cirinnà, perché i bambini non si comprano e non si vendono. Partiti politici, intenti nella perenne caccia dei voti, hanno costruito le loro battaglie contro il mercimonio dei minori, che a quanto pare avviene unicamente se a farlo sono gli omosessuali. Il dibattito si è trasformato in rissa mediatica, e si sono aggiunte le voci ironiche ( o forse no ):“Se permettono agli omosessuali di sposarsi, allora anche uomini e animali potranno farlo…” Mancano all’appello la pioggia infuocata e l’invasione delle cavallette per completare il quadretto.

Cosa fare per esprimere un’opinione che non puzzi di ridicolo?

Se utilizzassimo un motore di ricerca chiamato ‘Google‘, non solo per scaricare film ma per capire se effettivamente è tutto come appare, scopriremmo per esempio che il disegno di legge Cirinnà, consultabile da chiunque, non prevede neanche lontanamente la maternità surrogata. La permettono invece, anche a scopo di lucro, paesi come Russia o Texas, considerati da molti come veri e propri simboli da seguire per le politiche familiari.

Il problema, a mio avviso, si risolve non tanto nella forte presa di posizione grazie al ‘sentito dire’ – capace di sviare le menti in fin troppo facili contraddizioni o di basarle su convinzioni senza fondamento alcuno – quanto nel cercare l’indipendenza di opinione, ogniqualvolta si presentano situazioni simili, attraverso gli strumenti che abbiamo ma non sappiamo usare oppure usiamo male.

Continuare a camminare nella nebbia come se fossimo personaggi danteschi nella bolgia degli ingenui, alla continua ricerca del sensazionalismo grottesco, conviene solo ai profeti di un’apocalisse, nascosta, dicono, ad ogni angolo di questo nostro strano mondo.

Alessandro Basso

L’Italia e la sindrome di Calimero

Ogni Capodanno si ripete la stessa storia: tutti parlano di cambiamento. Ogni anno che si appresta a passare sembra lo spartiacque pronto a segnare un nuovo inizio e in effetti la “fine” dell’anno è un evento carico di un potente valore simbolico. Eppure questo 2016 che si appresta a venire sembra segnato inevitabilmente da due atteggiamenti molto differenti, c’è chi guarda ad esso con maggiore speranza e positività mentre c’è chi in esso non vede che un futuro più fosco.

In Italia l’atteggiamento segnato dall’azione e dalla voglia di mettersi in gioco sembra sempre più scontrarsi con una spinta al lamento, all’inerzia e alla disperazione. Nel nostro Paese si potrebbe parlare per una certa parte della popolazione di una vera e propria “Sindrome di Calimero”, ve lo ricordate il pulcino nero dei cartoni animati che esordiva ad ogni puntata dicendo: “Sono Calimero, sono piccolo e nero”?. Calimero appare per la prima volta nella trasmissione televisiva Carosello, la trama è abbastanza semplice: essendo caduto nella fuliggine il pulcino si sporca e diventa nero, per questo motivo non verrà più riconosciuto dalla madre. Si susseguiranno poi molteplici avventure, nelle quali Calimero verrà sempre colpito negativamente, ma grazie a un noto detersivo torna bianco, lindo e contento. Il vero problema oggi in Italia è che coloro che si sono soffermati troppo a lungo a rotolarsi nella fuliggine sembrano ormai goderne quasi in modo masochistico, d’altra parte sembra ancora distante il trovare un detersivo che “sbianchi” molte persone che sembrano ormai deluse e che si sono votate all’inazione.

La “Sindrome di Calimero” porta in seno il fenomeno ormai ampiamente noto fin dalla mitologia greca della profezia che si autoavvera, in sostanza l’asserzione per cui tutto va male implica in definitiva che le cose vadano davvero così. Esempi noti a tutti sono nella mitologia greca le vicende che investono Edipo, mentre nel teatro inglese vi è la figura di Macbeth.

Per profezia che si autoavvera riprendiamo le parole di Robert K. Merton che introdusse il concetto nel 1948:

“INTENDIAMO PER PROFEZIA CHE SI AUTOAVVERA UNA SUPPOSIZIONE O PROFEZIA CHE PER IL SOLO FATTO DI ESSERE STATA PRONUNCIATA FA REALIZZARE L’AVVENTIMENTO PRESUNTO, ASPETTATO O PREDETTO, CONFERMANDO IN TAL MODO LA PROPRIA VERIDICITA”.

Prendiamo poi il teorema di Thomas:

“SE GLI UOMINI DEFINISCONO CERTE SITUAZIONI COME REALI, ESSE SONO REALI NELLE LORO CONSEGUENZE”

La dinamica che ne consegue è che se le persone si abbandonano al lamento ripetono ossessivamente che le cose non vanno alla fin fine è proprio ciò che accade. L’atteggiamento derivante dalla “Sindrome di Calimero” ha anche profonde ricadute comportamentali e psicologiche: i discorsi sono dominati dalla critica degli altri, si crede di sapere tutto, si indulge sempre sul lato negativo delle questioni, vi è dell’egocentrismo misto a picchi di insicurezza, pessimismo cosmico, si ripete che la vita è sempre uno schifo. La qualità della vita si abbassa notevolmente e si ricade nella spirale dell’invidia che finisce per consumare molto più l’invidioso che l’oggetto dell’invidia, alla fine chi è affetto dalla “sindrome di Calimero” finisce per forgiare negativamente una esistenza priva di stimoli e votata alla rivendicazione.

Se l’Italia nel 2016 sarà dominata per l’ennesima volta da questa “Sindrome di Calimero” non potremo che aspettarci un anno scarno di opportunità e di prospettive perché come in una battuta di un vecchio film “la vita che vuoi è l’unica che avrai”, il rischio è che questi compagni di viaggio lamentosi e per i quali la colpa è sempre degli altri tirino a picco anche coloro che invece guardano all’oggi come a una base sulla quale costruire un domani migliore.

Matteo Montagner

X Factor: the sound of silence

Premessa: guardo X-Factor, e mi piace. Ricordo di aver visto la prima stagione su Rai 2, un po’ delle successive stagioni, e poi quasi tutte le puntate da quando è una produzione Sky – Freemantle Media. Lo guardo perché mi diverte, è un prodotto curato, ben confezionato – e soprattutto: avvincente, estremamente avvincente.
Tuttavia, non parliamo di musica. La musica è un elemento talmente marginale in questo programma da risultare quasi un elemento accidentale, superfluo. Come di fatto è. Il modello del “Talent Show” è tale da potersi plasmare a qualsiasi prodotto commerciale in grado fare audience: canto, ballo, moda, scrittura, tutto. Perché di questo si tratta – di un prodotto perfetto e convincente della più grande macchina da soldi che il mondo dell’intrattenimento abbia mai visto: l’industria dello ShowBusiness.
La musica commerciale non è necessariamente “la musica che vende”: non direi che The dark side of the moon dei Pink Floyd sia un album commerciale, nonostante i 50 milioni di copie vendute (è il terzo album più venduto di sempre). La musica commerciale è piuttosto la musica “fatta per vendere”, e cioè la musica inizialmente concepita come prodotto commerciale, e non artistico. Oggi (ma possiamo dire da trent’anni a questa parte) il mondo della musica è stato permeato e soppiantato dall’industria dello ShowBusiness, e diventando una delle tante “componenti” del mercato, non è più essenzialmente un mondo artistico. Non a caso si parla di “producers”: si producono canzoni e album, come si producono maglie, piastrelle o qualsiasi altro bene di consumo. Canzoni scritte con lo stampino, da alcuni bravi manager che sanno cosa vende e cosa no, perfettamente impacchettate per essere trasmesse dalle radio e dalle emittenti un tempo musicali e oggi più interessate a problemi di peso e ragazze madri, ed affidate alle star del momento. Per trovare qualcosa di artistico bisogna cercare tra le etichette indipendenti e sparuti casi di artisti prestati allo ShowBusiness – e qui si può trovare del bello e dell’originale, solo che molto spesso, per dirlo alla scolastica: ciò che è bello non è originale, ciò che è originale non è bello.
Ma allora perché da anni si sente dire che l’industria discografica è in crisi? Semplicemente perché, per dirla con una proporzione matematica, le case discografiche stanno allo ShowBusiness come le botteghe dei falegnami stanno all’Ikea. Oggi non si guadagna più sui dischi venduti: si guadagna con le visualizzazioni su Vevo o su Youtube, con il merchandising, con i download di iTunes dei singoli, con le pubblicità, con le comparizioni in TV, eccetera. Non è un caso che le tre più grandi “etichette” del momento (Sony, Warner Bros. e Universal) facciano parte di multinazionali che si occupano di elettronica, telefonia, cinema, videogame, televisione.
In tutto ciò, uno dei migliori modelli commerciali all’interno dello ShowBusiness è il Talent Show, grazie alla sua presa mediatica che coinvolge TV, Social Network, radio, etichette, insomma tutte le componenti dell’industria, le mette in moto e le fa fruttare. La mossa geniale di questo format è la spudorata autodenuncia che viene messa in luce ed esaltata ad opera degli stessi produttori. Potremmo descriverla così: io, multinazionale dell’entertainment, dimostro che sono talmente interessato alla componente artistica da andare a scovare giovani talenti genuini, farli competere e produrre un album al migliore di tutti, facendogli saltare la famosa gavetta. Se non che, in questo modo metto in luce che il successo o l’insuccesso di un talento oggi è interamente deciso non dalla qualità della sua arte bensì da un investimento o un non investimento economico o mediatico da parte dell’industria. E così, in trasmissioni di più di tre ore di diretta, il totale delle esibizioni musicali non supera la mezz’ora, i veri protagonisti sono i giudici, il presentatore, le coreografie, gli ospiti internazionali che vengono a promuovere le nuove uscite di proprietà degli stessi produttori della trasmissione, e così via. Al pubblico piacciono i siparietti, piace vedere cosa fanno i concorrenti durante la settimana, piace scoprire chi vince e chi perde. E questi talenti, che fino al mese prima suonavano nei bar o alle feste di paese, portando i propri pezzi, senza coreografie, soli con la propria autenticità, questi talenti dicevo sono un perfetto esercito di penny stock per i Jordan Belfort dello ShowBusiness, che con un investimento pari a zero possono sfruttarli finché fan comodo, magari produrre anche un paio di canzoni, venderli finché vendono, e cambiarli ogni anno, prima che il pubblico si annoi. Quello che resta, anno dopo anno, è la grande macchina, il grande show. Va tutto benissimo, ma non parlatemi di musica.
PS. Il motivetto pubblicitario della appena conclusa edizione di X-Factor Italia era un adattamento (orribile) di una delle più belle canzoni mai scritte: The sound of silence di Simon and Garfunkel. E’ talmente superflua la componente artistica in questi talent che i produttori forse non hanno neanche letto il testo della canzone. Voglio riportare qui una strofa particolarmente significativa.

And in the naked light I saw
Ten thousand people, maybe more
People talking without speaking
People hearing without listening
People writing songs that voices never share…
And no one dare
Disturb the sound of silence

Alessandro Storchi

[immagine tratta da Google immagini]

C’era una volta un re

Nelle settimane che precedono il Natale i preparativi coinvolgono inevitabilmente un po’ tutti.
Cambiano le strade e le piazze, illuminate da una sovrabbondanza di luci; cambiano le vetrine dei negozi, pronte ad accogliere i cacciatori di regali; cambiano le stazioni dei treni e gli aeroporti, in cui compaiono abeti carichi di colore.

Magia direbbe qualcuno, e come per magia non tutti sono contenti.
Sembra davvero incredibile, ma anche il Natale è diventato un pretesto per rispolverare dei punti imprescindibili che reggono buona parte del dibattito pubblico.

Aiutare chi non ha nulla?
Cercare di vivere serenamente dimenticando i malumori di un anno intero?

Niente di tutto questo; la diatriba si dipana attorno al Crocifisso e al presepe.
Ebbene sì, due simboli del tutto innocenti stanno portando scompiglio tra social e televisione; a onor del vero è ridondante, non un’esclusiva ‘Inverno 2015’.
Quando al minestrone mediatico si aggiungono elementi religiosi, politici e sociali, il risultato è assicurato: prese di posizione, strafalcioni storici, discorsi senza capo né coda… insomma, chi più ne ha più ne metta.

Davanti ad una situazione del genere ho spesso provato a spiegare in termini essenziali cosa volesse dire il termine ‘laico’, ma nonostante gli sforzi, ogni appello al ragionamento cade inevitabilmente nel vuoto.
Affermare che l’Italia non ha una religione di Stato dal 1948, riconoscendo tutte le usanze e i culti purché non violino la legge, dovrebbe portare a pensare che, di conseguenza, esporre un qualsiasi simbolo in luoghi statali segna di fatto una preminenza, una superiorità, legata alla religione da esso rappresentata.

Eppure tutto questo passa in secondo piano, ma perché?

Perché “l’Italia ha radici cristiane” (cit.), “Roma è nata cristiana” (cit.), “noi, quando andiamo nei Paesi arabi, non possiamo pregare o ci uccidono” (cit.), e tante altre risposte in cui le frasi fatte abbondano più delle ciliegie a Maggio.
Un misto tra rivendicazioni storiche e giustificazioni che portano i simboli cristiani ad essere usati non come tali, ma come ripicca nei confronti altrui.

Ho voluto provare anche io a portare avanti delle obiezioni simili, su un argomento legato a doppio filo con il Crocifisso.
La norma a cui mi sono ispirato e che regge la presenza dello stesso, risale al regio decreto n° 965 del 1924, articolo 118, leggermente modificato nel corso degli anni ma nella sostanza immutato.

“Ogni istituto ha la bandiera nazionale; ogni aula, l’immagine del Crocifisso e il ritratto del Re.”

Entrando in un’aula di un istituto scolastico statale, troviamo il simbolo cattolico ma non il ritratto del Re.
Siamo una Repubblica, direte voi.
Certo, siamo una Repubblica tanto quanto uno Stato laico.
Ma, come detto in precedenza, abbiamo radici cristiane.
Abbiamo radici cristiane tanto quanto monarchiche…

Facciamo qualche esempio.

Quando raccontiamo la Storia di Roma, elenchiamo ben sette re e ottantacinque augusti imperatori.
Studiando le intricate vicende dell’Alto Medioevo troviamo altri re, imperatori franchi e germanici, duchi, principi e sovrani bizantini.
Nell’epoca delle Signorie annoveriamo famiglie nobiliari, casate da nomi altisonanti, dinastie da cui ebbero origine gli Stati Italiani quasi totalmente retti da monarchie o da oligarchie.
Parliamo di feudi meridionali, le nostre fiabe narrano di castelli e cavalieri.
Tutto molto lontano dalla democrazia che oggi conosciamo.

Duemiladuecento anni totali di sovrani contro milleseicento di cristianesimo ( dall’editto di Tessalonica del 380 d.C in cui il Cristianesimo divenne religione ufficiale dell’Impero Romano ), se i numeri non mentono la nostra cultura è stata molto più suddita di un monarca che fedele alla Santa Romana Chiesa

Ecco spiegato il mio “stupore” all’assenza del ritratto del Re nelle aule scolastiche, nonostante la vastissima scelta da cui attingere, per ricordarne alcuni: Augusto, Totila, Carlo Magno, Napoleone, Vittorio Emanuele II.

No, non sono uno sprovveduto, so benissimo che avere un regio ritratto in aula stonerebbe con la natura politica del nostro Paese.
E poi, in Italia, non mancano certamente luoghi in cui possiamo immergerci nel glorioso passato; abbiamo fortezze, musei, gallerie d’arte… di sicuro non ci preoccupiamo di esporre queste profonde radici anche nei luoghi statali.
Allo stesso modo, secondo la mia visione, la fede religiosa può esprimersi tra le migliaia di chiese, luoghi di culto, cappelle, immagini votive ed edicole che costellano le nostre bellissime città.

Per fare una giusta critica a coloro che, come me, hanno qualche riserva sulla contraddizione laico-religiosa in atto, devo dire che non c’è bisogno di provare empatia giocando la carta del disagio, l’ho vista usare troppo spesso e la trovo fondamentalmente errata e forviante.

Perché al di là di tutte le considerazioni logiche, razionali e storiche che possono sembrare poco divertenti e decisamente pesanti, dovremmo forse dimenticare la nostra (im)maturità, spesso sconsiderata e deleteria, e provare a vivere il Natale – così come il resto dell’anno – un po’ come fanno i bambini, lontani dalle fissazioni degli adulti, dalle lotte contro i mulini a vento, dalle croci usate come spade nelle furiose ed inutili battaglie senza quartiere.

Alessandro Basso

Luigi Meneghello, Fiori italiani

“Che cos’è un’educazione?” La domanda con cui si apre Fiori italiani (1976) potrebbe riassumere il tema che Luigi Meneghello (1922-2007) sviluppa in tutta la sua opera: la formazione e le esperienze di un giovane nell’epoca fascista e nel dopoguerra. In Libera nos a Malo (1963) interrogandosi sul ruolo dell’ambiente rurale vicentino e della vita di paese; in Pomo pero (1974) approfondendo l’esperienza del linguaggio (dialetto, italiano letterario e inglese compongono l’originale impasto linguistico di molte sue opere). E poi, tra altre opere, I piccoli maestri (1964) racconta la Resistenza e Il dispatrio (1993) il trapianto in Inghilterra, dove l’autore ha trascorso gran parte della sua vita insegnando letteratura italiana all’università di Reading.

In questa ricerca, Fiori italiani è il tassello dedicato alla scuola, e riassume la carriera scolastica di un ragazzo brillante, S. (l’iniziale sta per “studente” o “soggetto”: è l’alter ego dell’autore). Ma non aspettiamoci un racconto nostalgico, una collezione di ricordi: l’autore analizza, intreccia il racconto con la riflessione sul senso della sua esperienza; e soprattutto istituisce un confronto serrato tra il sé stesso che viene formato dalla scuola fascista e ciò che diventerà successivamente.
Il primo trauma che S. affronta uscendo dal paese è la lingua italiana, e soprattutto il suo uso mistificatorio; i libri di testo, col loro linguaggio artefatto, cercano infatti di sminuire la realtà e di proporre un mondo ideale modellato sugli ideali fascisti: “Il fatto è che per questo casello non passavano treni, neanche uno! Un racconto di ventiquattro pagine intitolato Casello ferroviario N.793 e non ci si trova la parola “treno”! Per quanto ne sapevamo noi, il termine giusto in italiano potrebbe anche essere truogolo”.
Al ginnasio e poi al liceo classico – col passaggio all’ambiente cittadino – si approfondisce una lingua “alta”, depositaria di un’idea di cultura e di tradizione: “Era parte dello statuto della cultura che essa venisse esposta come la Sindone, non trattata come un servizio pubblico. La cultura vive, splende e minaccia per conto suo: in senso stretto non c’entra con la gente”. Lo studente viene solo addestrato a esercitarsi su temi dati, a ripetere con eleganza le idee ricevute.
All’università (Padova, prima lettere poi filosofia) S. cerca un senso generale della sua cultura (senza possedere, vista l’educazione ricevuta, la capacità di compiere un’operazione così complessa), e cerca un ruolo “ufficiale” come intellettuale riconosciuto, attraverso strutture sostenute dal regime, come il GUF o i Littoriali.
Ma proprio qui – sono gli anni della guerra – avviene finalmente la svolta: S. – dopo tanti insegnanti – incontra un vero maestro, Antonio Giuriolo. È un intellettuale brillante, da sempre oppositore del regime, che sopravvive dando lezioni private e si circonda di giovani ai quali apre per la prima volta la mente: una figura maieutica, che non offre soluzioni ma pone domande, che mette i suoi “allievi” a contatto con idee nuove e li lascia liberi di decidere… È un’esperienza decisiva, un cambiamento di paradigma da cui deriverà il gruppo partigiano che Meneghello racconta nello splendido I piccoli maestri.
Fiori italiani si svolge tutto nell’interiorità del protagonista, segue con passione lo sviluppo di una consapevolezza; e lo fa con un linguaggio straordinariamente preciso, duttile, capace di rendere qualunque sfumatura con piccoli tocchi, rinunciando all’impasto linguistico tipico di altre opere dell’autore a favore di forme più lineari. L’autore si rivela uno straordinario ritrattista (“Quanto a Tapanez, certo parlava nel naso. Era piccolino, nervoso, arcigno, introverso, stridulo. Ma era tagliente quella vocetta; stringata la figuretta; e (ora lo so) onesta la sua concezione del proprio mestiere”), e ricorre molto all’ironia – sulla scuola come su sé stesso – e spesso al sarcasmo, specie quando analizza le forme più sfacciate di indottrinamento. Solo nell’ultimo capitolo, la rievocazione di Giuriolo, il tono cambia: e diventa alto, solenne, commosso e severo, passando dalla terza alla prima persona.
E siamo costretti a notare che quest’opera dice molto su noi, sulla nostra mentalità di italiani, sulla nostra scuola: per la lungimiranza dell’autore, ma forse – purtroppo – anche per l’immobilità della nostra cultura.

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Luigi Meneghello, Fiori italiani, Milano, Rizzoli, 2006 (nella collana “BUR – scrittori contemporanei”)

Giuliano Galletti

[immagini tratte da Google Immagini]