Italia sì, Italia no, Italia…

Data siderale: giorno dopo le calende di dicembre.
Anno duemilasedici della nostra era.
Sempre meno ore all’Armageddon.

A chiunque leggerà queste righe,

ho trovato un posto sicuro, ma non lo sarà a lungo perché mi stanno cercando.
Sono dappertutto, loro intendo, quelli che ti propinano la domanda sibillina “E tu cosa voti al referndum?”, quelli che ti danno del folle o dell’eroe a seconda della risposta.
Ed io per interi mesi ho dato una risposta superficiale, l’ho cambiata più volte nella mia mente ma solo perché ho perso tempo per informarmi, per documentarmi, per cercare di capire meglio cosa sarò chiamato a scegliere.
Il punto è che non posso dire queste cose ad alta voce, devo sussurrarle qui, dove rimarrò anonimo per non mostrare il fianco ma soprattutto per confessare impunemente: ebbene sì, non so ancora dove porrò la fatidica ‘ics’; fosse per me aggiungerei un quadratino con la dicitura ‘Forse’.
Legittimo no? Lo facevamo alle elementari quando scrivevamo il biglietto alla ragazzina che ci piaceva, perché dovrebbe cambiare qualcosa? Perché sottovalutare la terza via?
A me non dispiacerebbe sapete, non dispiacerebbe esprimere il mio dubbio.
Ma come spiegarlo a quelli lì? Sì, sempre quelli che mi stanno ancora cercando e che non si daranno per vinti almeno fino a lunedì.
Quante ore sono? Ancora troppe… ancora troppe, un’infinità per un latitante.

Analizzando bene la situazione – tanto per ingannare il tempo, magari per velocizzarlo – sono pochi quelli che me ne parlano tranquillamente, che mi danno addirittura delle spiegazioni sostenute da idee. No, non sono loro a preoccuparmi, non sono loro a darmi la caccia.
Sono gli altri… voi non potete nemmeno lontanamente immaginare cosa sono capaci di fare, non vorrei avvilire queste pagine con inchiostro macchiato di calde lacrime, ma non posso nemmeno starmene zitto senza denunciare.
Ti trovano, ti parlano e dicono cose.

Hanno dei superpoteri, prendetemi per pazzo se volete ma non cambio idea, so cosa ho visto.
Il primo è quello di fare discorsi sconnessi senza capo né coda: serve a disorientare, a confondere, in modo da poter colpire più agevolmente la vittima; ma sarebbe troppo facile tramortirla immediatamente; no… il loro gioco è appena cominciato.
Gliel’ho visto fare migliaia di volte, posso considerarmi veterano in questo, e forse è il motivo per cui sono una primula rossa, un uccel di bosco, sì insomma, uno sbandato.
Rafforzano il tutto con la storia dell’enigmatico complotto architettato dai poteri forti.
Ho cercato questi poteri forti, ho trovato: cultura personale, informazione libera, obiettività, confronto. Me la sono vista davvero brutta perché a loro non andavano bene.
Loro intendevano banche, case farmaceutiche, scie chimiche, Bilderberg, gli abeti della Val di Fiemme, l’associazione bocciofila di Busto Arsizio e altre malvagità che non rammento.

Una volta ho provato a ribattere dicendo che in qualsiasi caso sarà il popolo a scegliere, e che sarà in grado di scegliere anche in futuro indipendentemente dal risultato; ho detto che ci vorrà sicuramente più partecipazione, più interessamento… ho persino detto che avremmo dovuto rinunciare a qualche spritz e che avremmo dovuto imparare ad usare lo smartphone in modo intelligente.
Mi hanno rivelato beffardamente che loro a certe cose non credono, perché “quando c’era Lui”…
Di nuovo ‘Lui’, il famigerato, onnipresente ‘Lui’, talvolta scritto LVI.
Sono arrivato alla conclusione che il più pericoloso superpotere a disposizione di costoro sia il viaggio spazio-temporale.
Vedo già la vostra incredulità dipinta sul volto, ma è tutto vero: loro possono.
Si aggirano tra noi… sì, ormai ci siete dentro fino al collo quindi uso la prima persona plurale, passeggiano da un capo all’altro della Storia e sanno molte più cose di quel che può sembrare: sanno come si viveva in un’epoca molto lontana dalla loro nascita, sanno cosa volesse dire non poter votare, o esprimere la propria opinione sotto una dittatura.
Forse sanno anche com’era Dante da vicino, anzi no, questo è sicuro visto il primo superpotere dei discorsi sconnessi; però potrebbero dirci com’era Giulio Cesare da vicino, la peste nera, i lanzichenecchi… chissà!

Tuttavia sanno cosa avrebbe votato Gandhi o Cavour; me lo vedo Gandhi presentarsi con la tessera elettorale al seggio di Pescasseroli, ma vaneggio… è sicuramente colpa della paura.
Conoscono la Costituzione a memoria – almeno così dicono – sono politologi consumati, esperti giornalisti d’inchiesta, s’intendono di diritto internazionale, diplomazia, geopolitica, calcio, cucina e ricamo.
Ma la cosa più importante è che…

Aspettate, sento dei rumori.
Sono loro.
Non mi avranno.
Non mi avranno mai.

Passo e chiudo.

Alessandro Basso

Cronache di ordinaria migrazione

<p>Lawrence, ,Jacob</p>

“C’è un’invasione”, “Ci rubano il lavoro”, “Dormono in hotel di lusso”, “Arrivano e non se ne vanno più”, “Sono incivili e non rispettano le nostre leggi”, “Con gli immigrati aumenta la criminalità”: queste sono solo alcune delle false credenze che aleggiano nell’immaginario di una buona parte della società italiana.

Centinaia di migliaia di uomini, donne e bambini, in fuga da conflitti, violazioni dei diritti umani, hanno attraversato il Mediterraneo in cerca di un luogo sicuro, di una vita migliore e di un po’ di pace. Un flusso di persone che, in assenza di canali sicuri, ha viaggiato nell’illegalità. Persone che identifichiamo sotto la categoria ‘immigrati’.
Umberto Eco apportò una distinzione tra immigrazione e migrazione.
Si parla di ‘immigrazione’ quando alcuni individui si trasferiscono da un paese all’altro. È un fenomeno che ha riguardato la modernità dalle sue origini ed è da essa imprescindibile. Inoltre, i fenomeni di immigrazione possono essere controllati politicamente, limitati e accettati.
Dall’altra parte troviamo le cosiddette ‘migrazioni’, le quali sono paragonabili a fenomeni naturali: sono incontrollabili.
Oggi, in un clima di mobilità internazionale, è possibile distinguere l’immigrazione dalla migrazione?
Non lo possiamo sapere, ma quel che è certo è che parlare di ‘emergenza immigrazione’ risulta errato.
Gli arrivi del 2016 sono in linea con quelli dell’anno precedente. Non un’emergenza, ma un flusso di carattere ormai strutturale di migranti.

L’emergenza reale inizia il giorno dopo.
Sono 160.000 le persone ancorate ai sistemi di accoglienza; di cui 123.000 restano per mesi in centri ‘straordinari’, i ‘non-luoghi’ dove i migranti passano dall’essere profughi a fantasmi.
Oggi il 60 per cento delle richieste d’asilo viene rifiutata. Questo vuol dire che 6 migranti su 10 diventano ‘nessuno’.
Perché questa drammatica goffaggine nell’affrontare tale situazione?
I governi, anziché promuovere la solidarietà tra gli stati membri dell’Unione Europea, hanno investito le loro risorse per tutelare i confini nazionali.
Una delle rappresentazioni di questi fallimenti è l’approccio hotspot mascherato dalle parole chiave ‘controllo’ e ‘condivisione delle responsabilità’. Il suo obiettivo è quello di associare maggiori controlli sui rifugiati e migranti all’arrivo e distribuire una parte dei richiedenti asilo in altri stati membri.
Per raggiungere tale fine, le autorità italiane si sono spinte ai limiti di ciò che è ammissibile secondo il diritto internazionale dei diritti umani.
Detenzione prolungata, l’uso della forza fisica, trattamenti disumani e degradanti sono le modalità che spesso vengono utilizzate.
L’approccio hotspot prevede, inoltre, uno screening anticipato e rapido dello status delle persone sbarcate, separando i richiedenti asilo da coloro ritenuti ‘migranti irregolari’.
Ancora oggi, tuttavia, la componente di solidarietà del suddetto piano ha sembianze utopiche.

Eppure la solidarietà è l’unica via di uscita per svincolarsi da questo impasse.
Per Bauman «i problemi globali si risolvono con soluzioni globali». La vera cura va oltre il singolo Paese, per quanto grande e potente che sia. E va oltre anche una ricca assemblea di nazioni come l’Unione Europea.
Infine, in un mondo in cui «i confini non vengono delineati per gestire le differenze, ma sono queste ultime che vengono create perché sono stati delineati i confini»1, è doveroso cambiare la nostra mentalità.
Occorre abbandonare una volta per tutte la separazione, le barriere e l’alienamento che ci siamo autoimposti in questi ultimi anni creando un alto muro chiamato ‘noi’ e ‘loro’.

Jessica Genova

NOTE:
1. F. Barth, Ethnic Groups and Boundaries. The Social Organization of Culture Difference, Oslo Universitetsforlaget, 1969.

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Hic sunt leones: l’immunità nei social

Nel 2016 gli italiani che adoperano quotidianamente i social network sono circa 21 milioni ovvero il 35% dell’intera popolazione del Bel Paese, un dato non indifferente se consideriamo di come nell’autunno di otto anni fa si aggirava attorno al milione di utenti. Un boom che ha portato a considerare la piattaforma più usata: Facebook, come una sorta di nuova piazza, capace di far interagire tra loro persone non solo di tutta Italia, ma anche di tutto il mondo. Si tratta di un’ulteriore evoluzione della comunicazione di massa?

Guardando brevemente la storia della stessa possiamo rispondere tranquillamente che sì, i social network hanno sintetizzato le passate esperienze della radio e della televisione; dalla prima hanno ereditato l’interazione – sebbene la maggior parte degli apparecchi potesse solo ricevere, non di rado si potevano incontrare appassionati smanettoni capaci di costruirsi la propria stazione radio in grado anche di trasmettere e quindi di comunicare: da metà anni ’70 si assiste infatti alla diffusione delle “radio libere” – dalla seconda invece hanno ereditato la componente video.

Esistono dei benefici, degli aspetti positivi nell’uso di questi veri e propri strumenti, specialmente in ambito mediatico o della conoscenza, eppure sotto la superficie esiste un intricato labirinto oscuro capace di mostrare la parte più recondita – e forse più sincera – delle persone. Quello che si percepisce è un grosso divario tra ciò che si potrebbe e ciò che invece si fa con l’internet del XXI secolo; ognuno di noi per esempio potrebbe incrementare la propria capacità di critica, di analisi e di confronto, nel concreto invece si assiste ad un fenomeno diametralmente opposto: più aumentano i presupposti del progresso sociale, più le persone costruiscono un muro di ottusità oltre il quale si estendono diversi ettari di occasioni perdute.

Così i pensieri espressi si omologano al pensiero-matrice della personalità legata al mondo della politica, o dell’opinionismo spiccio, oppure del mondo fittizio della “bufala”; il risultato sono centinaia e centinaia di frasi ripetute all’infinito prive di fondamenti concreti, orfane di fonti o addirittura inserite a caso nei più svariati contesti.

Come se non bastasse, a questa babele informatica si aggiunge il fattore cattiveria.

La “cyber diffamazione” amplifica l’antica derisione all’ennesima potenza: se in passato il proprio raggio di socializzazione era limitato ad ambienti locali e quindi per ricostruire la propria reputazione, messa in pericolo da qualche buontempone, bastava semplicemente cambiare quartiere o frequentazioni, oggi la propria vita privata è esposta a rischi ben più profondi poiché il raggio di socializzazione si è prolungato a dismisura raggiungendo un numero considerevole di persone con la conseguenza evidente che i rimedi del passato risultano totalmente inefficaci. I risultati sono tristemente noti: suicidi per cyber bullismo o traumi riconducibili ad esso e ripercussioni sulla salute psicologica della vittima.

Oltre all’accanimento contro una persona specifica assistiamo sempre di più alla violenza espressa, sempre attraverso frasi di cattivo gusto, nei confronti di comunità straniere – senza risparmiare i bambini – o nei confronti di determinate categorie di persone perché non annoverabili nella “normalità”.

Sebbene venga spontaneo chiedersi se gioire della morte di qualcuno o auspicare gratuitamente stragi efferate sia il metro di giudizio della normalità, è interessante il diverso atteggiamento che gli stessi individui utilizzano nei social network e nella realtà del quotidiano. Siamo tutti affetti da una sorta di bipolarismo confuso? Più probabilmente è la diretta conseguenza del nostro snobbare le parole.

Esse infatti, come dice un antico proverbio, feriscono più della spada, ma dato che non hanno la forma di un’arma e non sono consistenti tanto quanto un’arma, vengono il più delle volte sottovalutate, non tanto da chi le legge, ma da chi le pronuncia. Lasciano segni interiori, quindi invisibili ai più, ed il confine tra invisibile ed inesistente è così labile che spesso e volentieri lo si varca senza preoccuparsi troppo.

Negli ultimi anni in particolare è proprio la piattaforma Facebook ad averci regalato punti davvero bassi per quel che concerne la qualità del dialogo tra utenti. Si è via via trasformato in un’arena dove ci sono i leoni, quelli da tastiera ovviamente, convinti di vivere in un mondo ultraterreno, dove le conseguenze – in particolare quelle penali – sono incorporee, e forse non hanno nemmeno tutti i torti.

Tirando le dovute somme la domanda si pone un dubbio fondamentale. Ripartendo dai dati forniti all’inizio, proprio perché ormai il 35% degli italiani usa i social network, proprio perché le conseguenze dell’errato uso degli stessi provocano danni spesso irreversibili alle persone, quando verrà il momento di regolamentare, anche attraverso sanzioni più concrete, il comportamento degli utenti? Quando verrà finalmente il momento in cui tutti i fruitori della rete dovranno, per legge, prendersi la responsabilità di ciò che dicono pubblicamente?

Non resta che aspettare, speriamo non troppo, ulteriori sviluppi e approfondimenti sul tema.

Alessandro Basso

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Pordenonelegge 2016: festa del libro, festa della vita

PNLegge 1 - La chiave di SophiaHo scelto questo titolo un po’ retorico perché in realtà è stata proprio questa l’impressione generale che ho tratto da questo festival, che dal 14 al 18 settembre ha festeggiato la XVII edizione tingendo Pordenone di giallo. Un giallo solare e vitale – “acuto”, direbbe Kandinskij, punzecchia – che sventolava a festa su ogni strada, sopra le teste di tutti, ma anche il giallo negli occhi del gattone nero Proust che dalle vetrine dei negozi osservava sornione passanti curiosi ed organizzatori indaffarati.
Sì, la città tutta era attiva ed entusiasta: gli “angeli” volontari, i cittadini e gli ospiti affamati di eventi, la cameriera della locanda con il suo librone dove da anni colleziona le dediche degli autori di passaggio. E poi sì, anche gli autori, e tutto quello che ci hanno lasciato nella mente e nell’anima.

C’è vita nelle storie di suor Rosemary Nyiumbe, che con ago e filo ricorda alle donne d’Uganda sfuggite alle grinfie dei ribelli che una dignità l’hanno ancora e che è preziosa; la vita, secondo lo psichiatra Eugenio Borgna, va ricercata in parole silenziose e sguardi invisibili; c’è vitalità e amore nella musica di Francesco De Gregori e nel segno di Luigi Boille – perché nemmeno le mostre d’arte mancano in questa edizione del festival. C’è un mondo di spunti da scoprire nel racconto di vita di Dacia Maraini, c’è la vita dell’arte raccontata dal sociologo Alessandro Del Lago, e c’è l’architettura che dà la vita negli scenari di guerra, come quella dell’architetto Raul Pantaleo. Ci sono i valori della vita quotidiana che la cruda modernità sembra spingerci a dimenticare, come ci fa notare la filosofa Roberta De Monticelli, ed allo stesso PNLegge 3 - La chiave di Sophiamodo un altro filosofo, Leonardo Caffo, c’invita a ricordare la dignità degli animali e a dare più valore alle loro vite. Poi ci sono le storie dall’Arabia Saudita di Raja Alem con la sua piccola Khatem, una bambina divisa tra un corpo femminile ad una sessualità maschile, così come il cucciolo di tigre siberiana uscita dalla penna di Susanna Tamaro si ribella ad una vita che si declina entro schemi fissi e ripetitivi; la giornalista Concita De Gregorio dà voce alle ragazze, dai 5 ai 90 anni, ai loro pensieri più o meno inaspettati ma assolutamente autentici. Il giornalista Bruno Arpaia ci spalanca gli scenari di vita futura, quella durissima vita che ci toccherà se non prenderemo sul serio il cambiamento climatico, quella che stanno già subendo i migranti di cui ci parla anche la giornalista Lilli Gruber; cambiamenti di cui pure il meteorologo Luca Mercalli offre una prospettiva. Il letterato Nuccio Ordine ci ha ricordato come i classici della letteratura possono trovare vita e valore anche nella nostra quotidianità, un po’ come lo psicoanalista Massimo Recalcati ha elogiato la lettura come conoscenza del sé e degli altri, principio che vale per noi adulti così come per i bambini e i ragazzi: molti eventi erano dedicati proprio a loro, che sono infinite fonti di energia e creatività – e l’hanno dimostrato.

C’era anche, e giustamente, molta attualità: si è parlato di “caos geopolitico” causato dalle guerre e dalle migrazioni, calandole nel contesto attuale senza marginalizzare la memoria storica e senza dimenticare i cambiamenti che tutto questo provoca all’interno della nostra visione d’orizzonte, il modo in cui essi toccano il PNLegge 4 - La chiave di Sophianostro sentire, la nostra coscienza; ugualmente per il terrorismo, quel mondo islamico che comincia a farci paura e al quale invece dovremmo rapportarci con più coscienza, con forza di spirito e non fisica, viscerale. Non a caso il festival ha richiamato voci straniere (e voci italiane a parlare di cultura straniera), perché il confronto con l’altro possa aiutarci a convivere più serenamente su questo pianeta. La prospettiva mondiale poi è stata giustamente affiancata da quella locale, dunque sono state condivise storie legate al nostro territorio, il suo paesaggio, geografia, politica, gastronomia. Si è parlato molto anche di tecnologia e del modo inevitabile in cui ha modificato le nostre vite, perciò è stato spesso evidenziato il pericolo nel nostro modo di usarla ma anche quanto sia scorretto demonizzarla come strumento.

Ad intervenire sono stati davvero in tanti, fare una selezione è davvero complicato. Citerei però per concludere la docente della LUISS di Roma Francesca Corrao, che ci ha offerto un po’ di conoscenza dell’Islam citando in particolare Le mille e una notte, questa storia terribile di un re persiano che fa giustiziare le sue spose perché spaventato dal genere femminile, a lui estraneo – finché non arriva Shahrazad: con i suoi racconti, lei gli insegna che esiste anche un mondo bello e delle persone buone: il racconto, la condivisione e la conoscenza sbriciolano i muri della paura ed anche il re finisce per cambiare idea – in un certo senso, guarisce. Noi siamo quel re, e per sbriciolare la paura dobbiamo continuare a cercare storie.

Parlare di cultura è parlare di vita. E quando la cultura si raccoglie insieme, con tutte le sue innumerevoli sfumature e in un’atmosfera di festa, non puoi fare a meno di sentirti più vivo, ed anche più ricco.

Giorgia Favero

Invito al pensiero di Ernesto De Martino

Il concetto di esistenzialismo si accompagna spesso alle immagini della Parigi anni ’30, a mondani personaggi posati e sempre vestiti di nero, ai caffè e alla musica jazz. Eppure anche da questa parte delle Alpi, vari pensatori sono stati raccolti, forse troppo in fretta, sotto questa etichetta per poi essere velocemente messi da parte.

Uno di questi è Ernesto De Martino. Cresciuto nel clima culturale della Napoli di Croce, con un solido retroterra filosofico, voltosi all’antropologia, rappresenta, con le sue analisi sul campo, un eccellente esempio di ibridazione di diverse influenze filosofiche quali l’idealismo, la psicoanalisi, e la fenomenologia. I suoi libri sono per lo più rielaborazioni di indagini svolte sul campo, con la collaborazione di un team variabile di esperti di medicina, storia della musica, psicologi, avvenute per lo più nel sud Italia tra gli anni ’50 e ’60. In questi anni, in questa parte d’Italia, il processo di industrializzazione, analizzato così finemente da Pasolini, che ha coinvolto gran parte del nord e centro Italia, trova le ultime resistenze di forme di ritualità millenarie, destinate presto a sparire lasciando tracce vaghe. De Martino in sintesi procede all’analisi di riti, tra cui la Taranta e il pianto rituale, nel momento del loro tramonto.

Il tempismo di queste ricerche ha permesso di registrare comportamenti umani che appaiono oggi incomprensibili, se non ridicoli, nella loro irrazionalità apparente, ma che contemporaneamente illuminano l’immagine dell’uomo di una ricchezza nuova, da poco scomparsa e già dimenticata.
La domanda che anima le ricerche di De Martino è volta a individuare l’utilità fondamentale, nell’economia della psiche e dell’esistenza umana, dei riti. Il fatto che ogni cultura ne sia ricca così come lo scrupolo con cui essi vengono osservati sono sintomi di un ruolo effettivo da essi svolto.

La chiave di lettura proposta, espressa qui sommariamente, consiste nella tesi secondo cui le diverse forme rituali di ogni civiltà siano tutte in qualche modo un’operazione collettiva di autodifesa psichica. Di fronte ad eventi che l’uomo non può controllare e che mettono in luce tutta la fragilità e inconsistenza del suo essere al mondo, egli troverebbe riparo nella ripetizione di gesti che riportano il passato nel presente, stabilendo una continuità consolatrice. Così facendo egli afferma di esserci ancora, afferma un nesso tra la situazione passata e quella presente, afferma che, in fin dei conti, non tutto è cambiato. Inoltre, nel rito, alle paure e alle difficoltà vissute dall’individuo viene donato un senso, del cui valore e solidità si fa carico tutta la comunità. E attraverso essa la situazione traumatica viene inquadrata, rielaborata e superata. Un esempio di questa mediazione comunitaria è rappresentato dal coro delle lamentatrici che si uniscono alla parente del defunto e attraverso la professionalizzazione dell’atto del piangere liberano la parente dal suo ruolo facendola diventare una lamentatrice tra le altre. L’irrigidimento dell’elaborazione del lutto indirizza in questo modo il dolore per vie sicure attraverso cui sfogarsi senza rischiare che esso prenda il sopravvento.

Come si esprime lo stesso De Martino, i riti sono necessari a far morire (in noi) ciò che è morto. Espressione che ha valore letterale se si pensa al caso di decesso di una persona cara, ma che in generale significa far passare ciò che passa, accettare il divenire, senza rimanere patologicamente aggrappati a fantasmi del passato. De Martino tende a non tematizzare il contenuto della crisi nelle sue analisi più teoriche, nelle osservazioni sul campo essa si presenta però come recesso della presenza dell’uomo a sé stesso, perdita di lucidità, fino ad arrivare a veri e propri disturbi psicotici.

All’alba di un’epoca in cui l’invito a pensarsi privi di ogni limite, capaci di tutto, è ripetuto insistentemente, le ricerche di De Martino ci aiutano a ricordare il senso dell’appartenenza dell’essere umano ad una certa cultura, ad un certo mondo. Quest’appartenenza che viene sempre più spesso vista come una gabbia, è invece, per il nostro autore, il punto di appoggio grazie a cui l’uomo attraversa la vita saldo e solido.

Francesco Fanti Rovetta

[Immagini tratte da Google Immagini]

Je suis Charlie, moi non plus

Il terremoto che ha colpito il centro Italia i giorni scorsi non ha mancato di attirare gli usuali sciacalli mediatici, e non si è certo tirata indietro la controversa rivista francese Charlie Hebdo, fino a poco fa considerata da molti italiani il simbolo della libertà di pensiero e di espressione. Stavolta, però, la reazione al disegno firmato Felix è stato di indignazione quasi unanime e, salvo una schiera di strenui difensori che insiste a leggere nella vignetta una “fine satira sociale e politica” penalizzata da “giochi di parole intraducibili dal francese”, i corpi di morti e feriti trattati con la solita, dissacrante ironia ha provocato stavolta un’alzata di scudi generale, anche a livello istituzionale.

Curioso, visto e considerato come anche la vignetta che ironizzava sull’attacco al Bataclan o quella sulla strage di Nizza erano state accolte come esempi di “autoironia”. Il pubblico sdegno, che non si era scomodato neanche per i vergognosi disegni sul piccolo Aylan Kurdi, interviene solo quando nel bersaglio dei vignettisti finisce in prima persona chi legge. Forse, finalmente, si è in grado di capire oggi quali sentimenti suscitino normalmente i disegni “satirici” della rivista francese, gli stessi che avevano fatto commentare perfino a Papa Francesco: «Se il dottor Gasbarri, che è un mio grande amico, dice una parolaccia contro la mia mamma, gli aspetta un pugno [sic]. È normale».

Anche il regista premio Oscar Hayao Miyazaki, non certo un leader religioso, aveva dichiarato che a suo avviso la satira dovrebbe occuparsi di politica, possibilmente la propria, mentre quella a danno di credenze e culture altrui non ha ragione di esistere; la redazione rispose con un raffinatissimo «Cabu, qui détestait le manga, et qui a passé sa vie à caricaturer les hommes politiques, te dit merde!».

Sia Bergoglio che Miyazaki hanno messo in luce quella che è la pietra della discordia delle polemiche di ieri e di oggi (e che si traducono sempre e comunque in pubblicità per il giornale), un dibattito intorno alla definizione stessa di “satira”. Basta che una cosa sia scioccante per essere considerata satira, come molti hanno sostenuto in questi giorni? Allora Charlie Hebdo è un campione del genere, così come lo sono di diritto anche gli snuff movie o i reality sugli incidenti stradali. La satira deve veicolare un messaggio, farsi portavoce di una critica mirata a un dato sistema ideologico o sociopolitico? Ecco allora che le opinioni divergono.

Una vignetta su Benedetto XVI o Papa Francesco che mette in ridicolo parole o atteggiamenti può essere satirica, una che raffigura la Trinità impegnata in sesso di gruppo no; un disegno che mette in ridicolo al-Baghdadi può essere satirico, uno che ritrae il Profeta Muhammad in posa per un servizio fotografico porno no. Esiste un confine neanche troppo sottile tra il deridere una persona per le sue convinzioni e ridicolizzare le convinzioni stesse. Nel caso delle religioni, poi, il discorso si fa ancora più delicato, perché si va a toccare una sfera estremamente intima della vita personale; una fede non è un’ideologia politica, una regola di condotta morale, un sistema di credenze: rientra piuttosto nella categoria delle relazioni personali, nel caso specifico una relazione tra il credente e Dio. Il paragone usato da Bergoglio nel 2015 tocca precisamente il cuore della questione: si può parlare ancora di satira quando non si cerca di criticare o correggere, ma semplicemente di indignare, offendere, scioccare, senza alcun riguardo per la sensibilità altrui e senza curarsi minimamente di ciò che per altri è il sacer?

Se la risposta è negativa, allora non è possibile non indignarsi per ogni singola provocazione da parte di Charlie Hebdo e colleghi, ma piuttosto che fornire pubblicità gratuita con dibattiti infiniti, sarebbe bene seppellire la fonte del malcontento sotto una coltre di indifferente silenzio. Se la risposta invece è positiva, e la libertà non deve avere come limite neanche quella altrui, allora si lasci passare tutto: l’idea di rispetto della vita umana rimanda direttamente al sacro, ed eliminato questo, è solo ipocrisia indignarsi per uno sbeffeggiamento di troppo alle vittime di qualsivoglia tragedia.

Giacomo Mininni

[Immagine tratta da Google Immagini]

Festival della Mente: un’Italia che vuole la Cultura

Il 4 settembre 2016 si è concluso il Festival della Mente di Sarzana in Liguria, il primo festival europeo dedicato alla creatività e giunto alla sua XIII edizione.

Il tema comun denominatore di tutte e tre le giornate è stato lo “spazio”: dallo spazio cosmico a quello architettonico, dallo spazio delle relazioni allo spazio pubblico.
Un concetto, quello scelto per questa edizione del Festival, che coinvolge e rappresenta ogni individuo perché ingloba l’intera sfera del nostro vivere.

La chiave di Sophia ha avuto la fortuna di partecipare a questo Festival, entrando in contatto con una realtà quasi surreale.
Per tutta la città di Sarzana si respirava cultura, ogni scorcio nascondeva un luogo in cui potere ascoltare un dibattito, un convegno, partecipare ad un workshop o ad un laboratorio.
L’organizzazione precisissima dell’intero staff e di tutti e 600 i volontari ha contribuito ad una riuscita ottimale dell’evento.
Puntualità, disponibilità e professionalità di tutti hanno permesso uno svolgimento lineare e senza intoppi del Festival.

Festival della mente_La Chiave di Sophia_2016-01Naturalmente, però, a rendere il Festival accattivante, utile e appassionante, sono stati gli ospiti con i loro incontri che si sono susseguiti in queste tre giornate: 91 protagonisti italiani e non tra scienziati, matematici, filosofi, architetti, letterati, poeti e creativi.
Un nome più altisonante dell’altro, da Piergiorgio Odifreddi a Guido Tonelli, da Giacomo Rizzolatti a Paolo Boccara, da Jonathan Safran Foer a Cino Zucchi e così via. Nomi che hanno segnato e continuano a segnare la nostra storia culturale, scientifica e letteraria.

La partecipazione del pubblico è stata importante ed è questo che colpisce ad ogni Festival culturale: la gente vuole la cultura, la ama, l’apprezza, l’ascolta, la segue.
Vedere le sale e le piazze gremite anche alle 23.30 per seguire una conferenza sulle Guerre di Indipendenza (di Alessandro Barbero) è stato emozionante.Festival della mente_La Chiave di Sophia_2016-04

La chiave di Sophia ha partecipato con grandissimo interesse al Festival, avendo l’occasione di conoscere più da vicino alcuni dei protagonisti ed entrando in contatto con discipline che sembrano lontanissime dalla filosofia, potendo, in tal modo, constatare che la filosofia è davvero alla base di ogni professione o scienza.

Questi eventi, fondamentali momenti di aggregazione e di condivisone, sono la testimonianza di un’Italia culla della cultura che ha voglia di coinvolgere le persone con il fascino delle parole, la bellezza della diversità dei punti di vista e di tramandare saperi che sembrerebbero di primo impatto molto di nicchia.

Grazie Festival della Mente per l’opportunità che dai ogni anno a chiunque di immergersi nel meraviglioso mondo della cultura.

Al prossimo anno!

Valeria Genova

[fotografie immagini di proprietà La Chiave di Sophia]

Amatrice, il peccato e la grazia

Che i disastri naturali siano stati interpretati come punizioni da parte della divinità di turno, offesa per questo o quell’affronto, è una storia che va avanti fin dai tempi del diluvio. Non suscita sorpresa, quindi, vedere come in seguito al catastrofico terremoto che colpì Lisbona nel 1755, molti filosofi e teologi, specie gesuiti, attribuissero la tragedia alla collera di Dio suscitata dai malcostumi portoghesi e dallo sterminio degli indios nelle Americhe; stupisce piuttosto, visto il contesto storico, leggere dei tentativi del giovane Kant di spiegare scientificamente il fenomeno, lontano da qualsiasi pietismo o superstizione.

A distanza di quasi trecento anni, si potrebbe pensare che non solo le conquiste scientifiche in campo di sismologia, ma anche i progressi umanistici e teologici nel cristianesimo, abbiano ormai spazzato via la perversa logica che vede nella natura che “si ribella” all’uomo il segno della collera di Dio. A quanto pare non è così, e per quanto le autorità ecclesiastiche, in primis quella papale, insistano su ben altre note, si trova sempre chi rispolveri dottrine dannose quanto profondamente anti-evangeliche (e, a ben considerare, anti-religiose in senso ampio).

Ha fatto comprensibilmente scalpore i giorni scorsi il post su Facebook di “Medjugorje: Casa della Tenerezza di Dio”, pagina ufficiale della Fondazione Cenacoli di Maria, realtà di assistenza familiare legata alla controversa cittadina bosniaca. Nel post incriminato si legge: “Nessuno stupore da parte nostra, prima o poi le profezie si avverano. Utero in affitto, matrimonio omosessuale, attacco alla famiglia, ateismo diffuso ecc. ecc. Le scosse servono per farci capire che bisogna tornare ai veri valori. CONVERTITI ITALIA”. Purtroppo non sono gli unici, seguiti a ruota da gruppi sedicenti cristiani come Militia Christi (“La tragedia del terremoto ci interroghi sui nostri peccati e sull’abominio delle unioni civili!”), La Bibbia Ogni Giorno (“La terra trema, Gesù è alle porte”) e troppi altri.

Senza stare a scomodare Papa Francesco, che nella Laudato si’ attribuisce sì responsabilità all’uomo per certi disastri naturali, ma solo come conseguenza dei danni ambientali provocati, o il poeta Rabindranath Tagore, che commentando alcune infelici parole di Gandhi sottolineava come i terremoti avessero cause esclusivamente fisiche, basterebbe rispolverare il Vangelo per mettere a tacere i militanti “cristiani”: in occasione del crollo della torre di Siloam a Gerusalemme, che aveva ucciso una ventina di persone, Gesù mette a tacere chi pensava che le vittime fossero state punite per i loro peccati in modo da non lasciare spazio a interpretazioni: “O quei diciotto, sopra i quali rovinò la torre di Siloe e li uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? In verità vi dico, non lo erano.” (Lc. 13,4-5). La natura ha leggi proprie, non ha intenzione, non ha malizia, e come Leopardi ricorda, non ha certo cura dell’uomo; Dio, da qualunque posizione si parta, è un’altra cosa, e nessuno dotato di minima logica potrebbe accostare formule giudaico-cristiane come “Padre buono” all’idea di un disastro come quello che ha colpito il Centro Italia la notte tra il 23 e il 24 agosto, anche e soprattutto se a fini “pedagogici”.

Se perfino in una situazione come quella in cui versano le zone colpite dal sisma Dio c’è (e c’è), è nei cuori e nelle mani di quanti, cristiani o musulmani, cittadini o profughi, prestano soccorso, dei volontari che rischiano in prima persona pur di portare aiuto e sollievo, di chi anche da casa manda donazioni, cibo e vestiti per non abbandonare chi ha perso tutto. Se si è cristiani, poi, Dio è anche, e soprattutto, nei corpi martoriati ancora sotto le macerie, non certo tra le nuvole a puntare il dito.

Giacomo Minnini

La mia generazione: abbiamo fallito, avanti il prossimo

Quando ho visto Matrix per la prima volta ero seduto in un cinema, in una giornata assolata di maggio come tante, eravamo seduti sui gradini del cinema perché eravamo arrivati in ritardo e nel buio non eravamo riusciti a trovare dei posti a causa della sala gremita. Avevo 14 anni e stavo seduto accanto alla ragazza più affascinante che avessi visto, uno di quegli “amori” tipicamente adolescenziali. Non sapevo che in quel film di fantascienza si sarebbero coagulati tanti significati e tante questioni che avrebbero poi influito sulla mia generazione. Era il 1999. Era un film strano che parlava di volontà, destino, amore, senso della vita, il tutto coagulato in un blockbuster ben confezionato in pieno stile hollywoodiano.
Qualche anno dopo rimasi colpito, deluso, ma comunque attento per i riferimenti cristologici inseriti in Matrix 2 e 3 e ancora ripenso alla frase che descrive un messia cieco, un simbolo per tutti quelli come lui, patetico, in attesa che qualcuno gli dia il colpo di grazia.

In fondo ripensandoci era proprio un film adolescenziale, senza usare il termine in maniera dispregiativa, anzi, era una enorme storia in salsa cinematografica della Volontà di Potenza di Nietzsche che ha profondamente attraversato la mia generazione, una generazione sorta all’alba della decadenza dell’Occidente e della sua crescita: gli anni ’90 hanno rappresentato il preludio di un declino. La volontà di potenza ci mette un attimo a trasformarsi in volontà di impotenza, indolenza e ozio.

Penso che la mia generazione abbia delle grandi responsabilità per quanto è accaduto, sta accadendo e accadrà: siamo stati incapaci di dar vita a grandi prese di posizione generazionali, ma anche di dare alle cose una nostra inclinazione, seppur non all’insegna di rotture nette; siamo caduti preda di una anestetizzazione tecnologica, imbambolati da Mediaset e figli del berlusconismo, a prescindere che fossimo pro o contro.

Che fossimo pro o contro siamo pur sempre cresciuti all’ombra della figura di Berlusconi, una figura paradigmatica perché come i nostri genitori la sua generazione si è dimostrata quella dei moderni Crono e come tali non hanno che potuto divorare i propri figli. Gli anni di governo personalistico e finalizzato alla produzione di leggi ad personam più che di leggi per lo sviluppo non ci ha messo al riparo dalla crisi ed anzi hanno catalizzato quanto di peggio ha finito poi per abbattersi sul nostro Paese.

In un’ ottica marxiana i boomers (le generazioni che hanno vissuto la prosperosa epoca del boom economico) hanno fatto quello che i capitalisti fanno con i mezzi di produzione, hanno cioè fagocitato diritti in modo ipertrofico finendo per privare i propri figli e le generazioni future delle medesime opportunità, lo stesso dicasi per quanto riguarda gli impatti ambientali.

Lungi da me tuttavia indicare il male, additare le generazioni passate e sgravare così noi tutti da un onere di responsabilità al quale eravamo chiamati a dare una risposta, perché se le generazioni che ci hanno preceduto non sono state virtuose noi abbiamo peccato di una ignavia ben peggiore, ci siamo infatti ben guardati dal rompere gli schemi e ci siamo invece trincerati nel consumismo e nella moda.
La nostra risposta ai cambiamenti del mondo è stata quella di comprarci l’ultimo Ipad, di tirare per le lunghe lo studio e continuare a farci foraggiare dai nostri genitori. Se da un lato l’aiuto è servito a sostenerci in questi tempi difficili, dall’altro ha avuto l’effetto di renderci apatici e poco inclini a rompere gli schemi costituiti. Siamo stati come gli animali da allevamento, come un animale domestico che non esce mai di casa e come tali non abbiamo mai saputo elaborare una visione del mondo che ci permettesse di crescere al di fuori della pesante ombra dei nostri genitori.
Siamo dei novelli Benjamin Button: privi di progettualità a lungo e medio termine, finiamo per vivere una vita all’incontrario. Se la fine degli studi universitari un tempo significava l’accesso all’età adulta, è qui che il processo si inverte, assistiamo così alla devoluzione, un regresso inquietante quanto diffuso, un perenne rifiuto di confrontarsi con il mondo e prendere in mano il proprio destino.

Spesso vedo ragazzi di ormai quasi trent’anni farsi foto in discoteca che normalmente si era soliti farsi fare quando si avevano quindici o sedici anni, ma al posto di provare vergogna per l’immaturità manifesta tali foto sono invece oggetto di orgogliosa ostentazione. In un mondo dove conta sempre meno essere ciò che si è e conta invece apparire per ciò che la società ha presunto che dovremmo essere.

La mia generazione è fatta di cani di Pavlov, ma a differenza del celebre cane noi siamo restii a imparare dall’esperienza. Più subiamo la nostra impotenza e la vessazione di chi non ha alcuna tutela lavorativa e quindi nessuna dignità umana, più continuiamo ad abbeveraci dalla fonte che sta anche all’origine di tutti i nostri mali. Anziché ribellarci o quanto meno rifuggire gli stimoli negativi, nel migliore dei casi finiamo per chinare il capo diventando gregari e subalterni delle generazioni che ci hanno preceduto, nella vana speranza che prima o poi tocchi anche a noi, come se la nostra mente non avesse registrato che all’alba del nuovo millennio l’aspettativa di vita è tale che è molto più probabile che saremo noi a perire di stenti prima della dipartita di chi oggi regge le leve del potere.

Ci hanno detto che il lavoro doveva essere flessibile, ci hanno fatto imparare le lingue e tantissime competenze diverse, ci hanno raggirato usando accattivanti termini anglosassoni come long life learning o learning by doing, ma mi chiedo quanti dei grandi ideologi di questo modo di pensare, quanti professori che ci hanno proposto questo modello di vita e quanti funzionari che hanno stilato protocolli amministrativi che deliberavano in tal senso si sono sottoposti allo stesso trattamento. Quanti di loro hanno veramente provato ad assaggiare la ricetta che avevano preparato per noi e per i loro figli? Penso ben pochi visto che la pubblica amministrazione è piena di gente che non parla nemmeno l’inglese e che per anni non ha fatto altro che ripetere sempre e solo la stessa mansione, senza mai aggiornare le proprie competenze, tanto che se si rimettessero oggi sul mercato del lavoro a stento troverebbero posto come posteggiatori di auto o lavapiatti in un ristorante. Non bisogna però fare di tutta l’erba un fascio e nella Pubblica Amministrazione ci sono ancora tante persone che si aggiornano e combattono ogni giorno per garantire servizi migliori ai cittadini: perché non siamo stati capaci di allearci con loro?

Siamo stata la generazione che ha potuto studiare fino ai gradi più alti della formazione, ci hanno viziati dicendo che eravamo tutti speciali, ma se siamo tutti speciali vuol dire che non lo è nessuno e così il nostro grado di istruzione crescente ha finito con l’unico scopo di far crollare la retribuzione salariale di coloro che potevano essere impiegati nel lavoro cognitivo.

Abbiamo ostinatamente voluto credere alle promesse dei nostri genitori circa il fatto che il mondo fosse un posto facile dove vivere, che eravamo unici e irripetibili e che strabilianti opportunità ci avrebbero atteso, chiusi sotto una amorevole campana di vetro che ci ha tenuti al riparo dal mondo. Abbiamo rimandato un confronto con la realtà destinato ad essere devastante, quella ovattata campana non era altro che una bolla paranoica di mediocrità. Non siamo stati meglio di coloro che si sono affrettati a votare Berlusconi perché persuasi che avrebbe davvero creato – già il termine mi cagiona ilarità – un milione di posti di lavoro, abbiamo preferito credere che creare le nostre opportunità con un po’ di fatica e di sudore. Abbiamo voluto far finta che ci fossero risposte semplici a domande complesse.

In politica e nel lavoro ci siamo relegati noi stessi al margine, ogni volta che abbiamo chinato il capo e ci siamo fatti imboccare, tutte le volte che non abbiamo provato noi stessi a mostrare che le cose potevano essere diverse nascondendoci dietro a una presunta italianità della raccomandazione, ogni volta che non abbiamo anteposto il merito al nostro interesse abbiamo replicato la mediocrità dei nostri padri e delle nostre madri che facendoci trovare sempre la pappa pronta non hanno fatto altro che crescerci deboli e fragili, ma anche supponenti perché mai posti di fronte ai nostri stessi limiti. Così si è costituita la generazione dove tutti siamo speciali, tutti siamo qualcuno, abbiamo tutti vite interessanti e fantastiche, mentre viviamo una condizione miserabile contronatura perché costretti a restare presso i nostri genitori senza la possibilità di svilupparci diventando ciò che siamo come adulti e perché no anche nella senilità.

L’ultimo grande demerito è che non abbiamo saputo restare uniti, ci siamo fatti investire dalle ideologie già precostituite dai nostri padri finendo per farci molto più la guerra tra di noi che provare a imporre una nuova visione delle cose, noi che siamo nati alla fine delle grandi ideologie, dove la religione è più mite nella rigidità, dove il muro di Berlino è caduto, dove se da un lato ci hanno accusati di non credere in niente avevamo invece l’opportunità di credere in tutto con uno sguardo nuovo e invece non abbiamo fatto altro che suonare uno spartito datoci da altri e danzato su quelle stesse note.

Non abbiamo fatto tesoro delle parole di Michael Young che ci ha provato a dire:

«I giovani devono combattere il potere degli anziani invece di allearsi con loro per ricevere favori».

Spero solo che le generazioni che stanno crescendo oggi e che verranno domani imparino dai nostri errori e non ce ne abbiano troppo a male per il mondo che ci apprestiamo a consegnare loro.

Matteo Montagner

[Immagine tratta da Google Immagini]

Agosto in Cultura!

Agosto è un mese di passaggio, lega l’estate all’autunno. Con un po’ di stanchezza sulle spalle contiamo i giorni che ci separano dalle ferie, da quel meritato relax che abbiamo atteso per tutto l’anno. Agosto è anche un mese di nostalgia e melanconia, chi rientra dalla vancaze è gia costetto a programmare i mesi futuri, il ritorno alla routine e ai tempi serrati del lavoro.

Anche Agosto fa esplodere la cultura, l’arte e la musica, in suggestive location all’aperto, in piccoli borghi o all’interno di grandi Festival. Anche per questo mese abbiamo voluto selezionare per voi tre appuntamenti imperdibili.

fc47e5613cf44489ec97ac96348fc75e61eba198TOSCANA | Orizzonti Festival – 29 Luglio / 7 Agosto – Siena

L’edizione 2016 di OrizzontiFestival, è dedicata alla follia: la follia che guida le azioni, le speranze, le relazioni, di chi sa osare in un mondo che tende a uniformare tutto; la follia di un momento creativo che coraggiosamente porta alla realizzazione di un atto artistico. La follìa è anche elemento caratterizzante di periodi storici e culturali, purtroppo non sempre in accezione positiva. Esempio ne sono spesso i fatti politici e sociali che svolgono, in nome di una follìa assurda, la nostra umanità. Molti sono gli appuntamenti di questa Edizione 2016, numerose le presenze e alto il livello della proposta culturale che a Chiusi viene coraggiosamente portata avanti e sostenuta a più livelli.

 

Programma completo: qui

Sito Festival: qui

fdf7ed29c6e77afbaa283b498857256329a1e62CAMPANIA | VELIATEATRO 2016 – 6/22 Agosto – Ascea, Parco archeologico di Elea-Velia  Salerno

La grande tragedia greca con Euripide e Sofocle, la commedia latina e greca, con Plauto e Aristofane, la filosofia con Platone. È di scena l’universo immortale dei classici nella XIX edizione di VeliaTeatro, il festival di teatro antico nello scenario dell’acropoli del Parco Archeologico di Elea-Velia, ad Ascea (Salerno), nel Cilento. La forza tragica di due celebri donne del mito, Elena e Alcesti, l’eterna angoscia di Edipo, il versante comico ma non troppo fatto dalla fantasia sorridente di Plauto unita ai messaggi di Aristofane, per completare con la riflessione di Platone. E in questa trama cucita sul passato classico, uno squarcio è aperto anche sul medioevo «illuminato» della Scuola Medica Salernitana. A impreziosire il disegno degli spettacoli, gli interventi di autorevoli studiosi a precedere le rappresentazioni.

Otto gli appuntamenti in cartellone (tutti alle ore 21), dal 6 al 22 agosto, per l’edizione 2016 della rassegna organizzata nell’antica città della Magna Grecia, patria dei filosofi Parmenide e Zenone e Patrimonio Mondiale dell’Umanità Unesco. Evento che quest’anno è dedicato alla memoria di Mario Untersteiner (1899-1981), insigne filologo, grecista e studioso della filosofia eleatica e del teatro antico.

Programma completo: qui

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VENETO | LOST INSHAKESPEARE 9/15 Agosto – Verona

Novità dell’edizione 2016 sarà Lost in Shakespeare, una sezione del festival dedicata al cinema con proiezioni al Teatro Romano per un totale di otto serate. In programma celebri pellicole tratte da opere shakespeariane. La rassegna inizia l’8 agosto con ROMEO E GIULIETTA SULLA NEVE (Romeo und Julia im Schenee, Germania 1920) di Ernst Lubitsch e con SILENT SHAKESPEARE, collage di film muti girati tra il 1899 e il 1910.Programma completo: qui

Elena Casagrande

[immagini tratte dai siti ufficiali degli eventi]