Guida allo studio della filosofia tra l’Italia e la Germania

Per molti studenti italiani di filosofia la Germania è un pensiero, magari anche solo per un Erasmus, visto che molti dei grandi filosofi dal ‘700 ad oggi hanno scritto in tedesco. Per quanto leggere Kant e Heidegger in lingua originale e camminare nelle aule in cui Adorno e Hegel facevano lezione eserciti un indubbio fascino, va precisato che tra Italia e Germania il modo di studiare la materia, e probabilmente di intenderla, è piuttosto diverso. Da studente italiano emigrato a Berlino per la magistrale cercherò di offrire una breve guida, che possa far capire se lo studio in terra tedesca faccia per voi o meno.

Prima di tutto in Germania le Vorlesungen, le classiche lezioni frontali italiane, sono poche e concentrate soprattutto nei primi anni di triennale. In seguito prevale la forma del Seminar, in cui gli studenti devono leggere di settimana in settimana dei testi per poi discuterli in classe. I professori possono organizzare i seminari in modo differente: alcuni si limitano a moderare il dibattito, altri lo integrano con spiegazioni e approfondimenti. In ogni caso allo studente è richiesto non solo di seguire la lezione, ma di parteciparvi attivamente con domande, interventi, relazioni e proposte di nuovi testi da affrontare.

Anche la modalità di esame è diversa: se in Italia prevalgono le prove orali o al massimo scritti dove rispondere a delle domande aperte, in Germania la quasi unica forma d’esame è l’Hausarbeit, ovvero un saggio (di solito dalle 15 alle 25 pagine) in cui approfondire un argomento del corso.

Lo studente tedesco termina di conseguenza gli studi con la capacità sia di dibattere (grazie ai seminari) sia di scrivere (grazie agli Hausarbeiten) ed è inoltre abituato a muoversi all’interno di un tema dato per ricercare fonti e sviluppare l’argomento autonomamente. Dal momento però che le lezioni di storia della filosofia sono poche e in Germania filosofia non è studiata al liceo, capita che gli studenti tedeschi arrivino con dei buchi enormi in certi ambiti (mi è capitato ad esempio che in una lezione nessun allievo sapesse spiegare la differenza tra res cogitans e res extensa in Cartesio). In generale, le lezioni prevedono uno scarso inquadramento storico e teorico, preferendo partire direttamente dai testi. Può quindi capitare che gli studenti tedeschi affrontino Platone iniziando direttamente a leggere La Repubblica, facendo seguire una discussione su cosa sia la giustizia e come oggi venga intesa nel governo piuttosto che confrontare le posizioni platoniche con quelle dei sofisti.

Lo studente italiano arriva dunque alla fine del suo percorso universitario con una conoscenza di base più ampia e solida, che talvolta però rischia di diventare sterilmente enciclopedica poiché egli non è stato abituato a rielaborarla criticamente. Il modo in cui il sistema è strutturato conduce poi spesso alla paradossale situazione per cui la tesi di laurea risulta essere il primo, e forse unico, momento in cui lo studente italiano di filosofia si trova a dover scrivere un saggio sugli argomenti studiati.

Credo che questa differenza si basi su un modo piuttosto diverso di concepire la filosofia, o quantomeno la sua funzione attuale nel mondo. La mia impressione è che in Italia sia percepita come un sapere specialistico, sistematizzato a scuola e approfondito all’università; una materia autonoma con regole proprie, a cui approcciarsi è difficile per un non specialista proprio perché non conosce la terminologia adeguata e lo sfondo teorico in cui inserire un certo concetto.

In Germania invece la filosofia viene maggiormente intesa come uno strumento per imparare a pensare e di conseguenza per capire il mondo; come un modo di ragionare utile a comprendere le grandi domande del presente. Una delle prime prove in tal senso l’ho avuta proprio durante la mia prima lezione a Berlino. Introducendo il corso su Kierkegaard la professoressa aveva subito specificato di non essere interessata a capire cosa esattamente abbia pensato l’autore, a discutere ore sullo slittamento di significato di un certo termine da Hegel a Kierkegaard. Anche perché l’unico a poter fornire una risposta certa su elucubrazioni di questo tipo sarebbe lo stesso filosofo danese, che è però ahimè morto. La preoccupazione principale per lei era capire cosa i testi di Kierkegaard hanno da dirci oggi e come interrogano ciascuno di noi.

Trovare una mediazione tra due metodi tanto diversi non è semplice ma sarebbe auspicabile, in modo che le aule di filosofia si trasformino in palestre democratiche dove poter discutere attivamente i testi e non solo sentirli spiegati in una lezione frontale. Una discussione però che necessita di base teoriche forti per poter imparare dai pensatori del passato e costruirsi un’opinione fondata.

 

Lorenzo Gineprini

 

[Credit Sharon McCutcheon]

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Salto di civiltà: dalle lettere alla tecnica

«La cultura che abbiamo[,] in particolare in Italia[,] andava bene in un mondo contadino perché le cose non cambiavano e ognuno accettava il suo ruolo. I cambiamenti o non esistevano o erano lentissimi e la cultura era il giardino dei piaceri: la pittura, la poesia, l’arte, la lettura. Purtroppo è su questi argomenti che oggi spendono i soldi pubblici gli assessori. Sono argomenti ancora importanti, certo, ma purtroppo questa vecchia cultura letteraria non è più in grado di reggere il suo tempo e di interpretare la modernità. Oggi per essere dei saggi bisogna sapere raccontare l’innovazione tecnologica e anche l’economia. Perché questo sistema tecnologico è intimamente legato all’economia».

Parla con il candore tipico delle persone di una certa età, Piero Angela, in questo frammento d’intervista apparsa su Corriere Innovazione il 29 giugno scorso, a firma di Massimo Sideri1. La sostanza liquida delle parole messa in ordine in una manciata di righe, epitaffio d’un vecchio mondo in via d’estinzione e al tempo stesso fulgido trailer di quello nuovo che sta per arrivare a sconquassare l’esistente.

Da guru navigato della semplificazione linguistica – che da Vygotskij e Heiddeger in Piero Angela poi sappiamo essere semplificazione del pensiero – Piero Angela traduce in prosa ciò che il chiaroveggente Max Stirner aveva raccolto in poesia già nel 1842: «[…] il vivo legno della mazza ferrata dell’industriale manderà in pezzi il secco bastone del dandy smidollato». Una vita piena di fallimenti e di rancore, la sua, condizioni necessarie per dilatare lo spazio delle visioni. Su tutte, l’immenso avvenire del fenomeno tecnico, il colossale trionfo dell’ingegnere (l’industriale) sul letterato (il dandy smidollato).

È sul solco scavato dalle nitide allucinazioni di Stirner che troveranno di che cibarsi i più grossi saprofagi della modernità: Nietzsche, Marx, Durkheim, Simmel, Weber, Schopenauer, Freud. Com’è possibile che da una civiltà umanistico-agraria, rimasta immutata per millenni, si fosse d’un tratto passati a una civiltà tecnica, della quale il «diventare altro» era (è?) la principale forza propulsiva?

Quando la tecnica cominciò a propagarsi sulla crosta terrestre divenne presto chiaro che il mondo contadino sarebbe definitivamente scomparso: il più grande evento della storia dopo la nascita di Cristo, dirà con esagerazione cosciente il poeta francese Charles Péguy. Da quello squarcio della storia a metà ‘800, cominciò a suppurare copioso il materiale grezzo del pensiero divergente, che proprio in quel segmento di secolo apparve più di frequente e nelle sue vesti più radicali: nichilismo, comunismo, positivismo, struttural-funzionalismo. Un’incredibile occasione di speculazione filosofica, distante due secoli e più dai successivi spostamenti d’asse della storia: la rivoluzione digitale e quella ecologica. Treni che cominciano ora ad apparire all’orizzonte. Alla guida un nuovo Stirner, magari cinese o indiano.

L’urto della modernità con il mondo contadino è tra i topoi più sottovalutati dalla cultura letteraria – tradizionalmente colta, accademica, borghese, urbana. La tecnica piomba straniera sulla vita eterna della campagne indossando abiti di guerra: per i contadini veneti di Ferdinando Camon parla la lingua incomprensibile dei soldati tedeschi, per gli agricoltori del sorgo di Mo Yan arriva a bordo di una strana creatura metallica a quattro ruote. In entrambi i casi, a consegnare alla storia l’invasione tecnica delle campagne sono le stesse mani che zappano la terra.

Con l’avvento della cultura tecnica finisce il mondo contadino, dunque. Finisce anche il suo complemento umanista, letterario, romantico, dolciastro. L’unico umanesimo che rimane è quello della protesi, dell’uomo che interviene sulla natura con un prolungamento tecnologico: l’essenza del neo-umanesimo è fatta di azioni tecniche, di protocolli prometeici, di procedure organizzative. Dietro l’angolo il trans-umanesimo con formule nuove e nuove posologie.

Questa generazione, o forse la prossima, sarà l’ultima ad avere il senso della letteratura, quel «giardino dei piaceri» che per Piero Angela non sarebbe più in grado di «interpretare la realtà». Interpretare? «La letteratura non descrive la realtà, la trasfigura, la prefigura, la configura»: a soffiare via la polvere è Nicolò Porcelluzzi, «dolmen in mezzo alla foschia», in un suo recente articolo su il Tascabile. Prima di lui, lo stesso Ferdinando Camon: la letteratura vede prima, vede meglio e vede per sempre. Ma cosa vede, la letteratura? Cosa configura?

Nelle orecchie risponde il triduo recitato sotto la tempesta da Umberto Galimberti, l’ultimo greco: presi nella morsa del materialismo tecnico, non capiamo più bene che cosa è vero, che cosa è buono, che cosa è bello, che cosa è giusto, che cosa è santo, che cosa è interessante. Capiamo però benissimo che cosa è utile: «Manca oggi una filosofia della tecnologia […] che spieghi come tutta questa rivoluzione ci ha permesso di studiare, di vivere sani, di avere un reddito più alto, di liberare uomini e donne da sudditanze antiche e soprattutto […] di creare delle società che sono competitive in un mondo in cui conta la capacità di essere innovatori per riuscire a vincere la concorrenza», continua Piero Angela nel suo soliloquio materialista e capitalista, in cui trova spazio solo ciò che risponde alla legge dell’utilità.

Patetico sarebbe continuare a sostenere che la letteratura, sorella della filosofia, non serva a nulla, perché serva di nessuno. Essa è piuttosto il luogo in cui diventare coscienti della giustizia, della noia, della nostalgia, della commozione, dei sentimenti: la letteratura è il volto metafisico della conoscenza. Soffocata in un paesaggio tecnico ormai poco ospitale, essa ci è oggi più che mai necessaria.

 

Alessio Giacometti

 

NOTE
1. M. Sideri, Piero Angela: «La cultura letteraria? Non coglie la modernità. Mi offrirono il Tg2, dissi di no», in “Corriere Innovazione”, 29 giugno 2018

[Photo credits: HealthyMond on Unsplash.com]

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L’Italia è una Repubblica fondata sulla raccomandazione

«In Italia non si può ottenere nulla per via legale, nemmeno le cose legali. Anche queste si hanno per via illecita: favore, raccomandazione, pressione, ricatto, eccetera».
Giuseppe Prezzolini, Codice della vita italiana, 1921.

Per molto tempo abbiamo ascoltato slogan tesi alla narrazione di un Paese che si sta rialzando, che riparte, ma è possibile che riparta qualcosa che forse non è partito? In Italia a parità di titolo di studio e capacità chi proviene da una famiglia agiata avrà certamente più successo di colui che proviene da un ambiente più umile. Abbiamo costruito una Repubblica fondata su quella che forse è una delle più belle Costituzioni mai realizzate, ha scritto e detto qualcuno, ma che corre il rischio di restare lettera morta di fronte a semplici fatti quotidiani: è più facile che il figlio di un notaio segua le orme del genitore che quello di un operaio riesca a dirigere la fabbrica dove suo padre ha lavorato. La mobilità sociale risulta ancora bloccata, i discendenti delle famiglie più abbienti restano ai vertici a prescindere dalle loro effettive competenze, mentre i pronipoti delle classi popolari restano in basso.

Secondo la visione marxista della società dalle contraddizioni emerge necessariamente un conflitto, uno scontro sociale che conduce necessariamente a un ribaltamento dello status quo, ma l’Italia è la plastica concretizzazione che ad alcune condizioni le cose contrapposte non generano movimento. In Italia prevale il lamento dinnanzi a tutto quello che non funziona e il lamento non è altro però che un altro volto dell’apatia. Vi sono indignazione e lamento sui social media e poi piazze vuote e tutti i lunedì si va a lavorare a testa bassa davanti ai capi, magari pure incompetenti e raccomandati, però bisogna pur portare la pagnotta a casa e quindi zitti e avanti ventre a terra.
Siamo diventati o siamo sempre stati una società dinastica in cui conta soprattutto di chi sei figlio e non quale sia il talento che possiedi o la voglia che hai di imparare.

Dalla constatazione della impossibilità di garantirsi un futuro migliore sorge la bassa natalità, i bassi tassi di frequentazione dell’Università, settore in cui siamo un fanalino di coda, e tutta una serie di fenomeni sociali che alcuni fini analisti tendono a spiegare sbrigativamente dicendo che è colpa delle persone che han scarsa voglia di mettersi in gioco, che non è la disoccupazione il problema, la precarietà, le scarse prospettive per il futuro, no, sono le persone non “positive” il problema.

«L’uomo superiore coltiva la virtù, l’uomo inferiore coltiva il benessere materiale. L’uomo superiore coltiva la giustizia, l’uomo inferiore coltiva la speranza di ricevere dei favori»1.
Confucio

I privilegiati tendono a mantenere lo status per i loro discendenti e a occupare posti in prima fila. Per questo molti rinunciano a investire su di sé nella convinzione che le cose non possano cambiare. La stessa tristezza e la sofferenza vengono spesso spiegate come un fenomeno di origine mentale, stuoli di motivatori invitano ad assumere un atteggiamento mentale “positivo” come se la determinazione delle condizioni oggettive delle persone dipendesse in qualche modo dal loro stato mentale. La persona in stato di sofferenza sarebbe in qualche modo affetta da una percezione scorretta della realtà che la conduce progressivamente ad essere la causa dei suoi stessi mali. Ancora una volta non sono le condizioni in cui la persona è inserita che determinano il suo stato d’animo, non è il contesto in cui la persona è immersa ad essere il problema, è la persona non “positiva” il problema.

Per spezzare questa vuota retorica del “pensare positivo” viene in nostro soccorso una lunga tradizione di materialismo tedesco che trova uno dei suoi più alti compimenti in Karl Marx, erede della cultura dialettica di matrice hegeliana, il quale ben comprende che lo stato di sofferenza delle persone è spesso dato non da fattori endogeni, ma esogeni. Se perdo il lavoro ho ragione di essere triste? Se il mio lavoro non mi consente di realizzare i miei “bisogni” (un concetto che in Marx è fondamentale) ho ragione di essere triste? Quante donne in Italia sono costrette a scegliere tra la carriera e una vita famigliare appagante?

Questo mondo ha risposto alle legittime aspirazioni di vita delle persone col motto:
“La crisi non esiste, siete voi la crisi!”
Il capitalismo contemporaneo ha raggiunto i suoi massimi livelli, diventando l’unica alternativa possibile e immaginabile, ha sovrastato a tal punto ogni altra cultura sociale e di massa tanto da diventare parte integrante degli animi delle persone espellendo sistematicamente tutto ciò che viene percepito come fragile, fallibile, imperfetto, inefficiente e in sostanza umano.
Il nostro mondo contemporaneo dalla fabbrica novecentesca al moderno incubatore di servizi ha progressivamente consolidato la propria egemonia culturale al punto che chi fallisce, chi si lamenta, chi è dissonante di fronte a un sistema efficientistico e ben oliato è in qualche modo colpevole, colpevole di non voler stare al gioco a cui giocano tutti, colpevole di non essere abbastanza motivato, intraprendente, desideroso di mettersi al servizio del Capitale per produrre valore.
Concetti come libertà, diritti, esistenza autentica sono ancora applicabili ad un mondo così? Provate ogni tanto a guardare con occhio critico gli alveari di cemento dove ci rechiamo ogni giorno a fare quello che “dobbiamo” e chiedetevi se davvero la realtà che stiamo vivendo oggi sia poi così diversa da quella che racconta George Orwell in 1984, e se non lo avete ancora letto forse è proprio il caso di farlo prima che sia troppo tardi.

 

Matteo Montagner

 

NOTE
1. Tratto da a A. Manocchio, Il manuale degli aforismi, Passerino Editore, 2017.

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Un’Europa senza europei. Imparare da Fichte

Era il 1807 quando Johann Gottlieb Fichte, di fronte all’occupazione da parte delle forze napoleoniche della città di Berlino, scrisse i suoi celebri Discorsi alla nazione tedesca, passati alla storia per aver ribadito la superiorità culturale della Germania e aver spronato il paese alla rivalsa contro i francesi. Sebbene individuati e circoscritti in un momento storico preciso e particolarissimo, però, i Discorsi conservano ancora un messaggio attualissimo e universale, applicabile senza troppe variazioni anche alla situazione sociopolitica contemporanea: per costruire una Nazione, prima di costruire una Nazione, è necessario “costruire” moralmente un popolo. Un gruppo inizialmente eterogeneo di persone portato a riconoscere basi culturali, valoriali, storiche, religiose o linguistiche comuni, che trova un’identità di popolo condivisa, darà spontaneamente alla luce una Nazione che lo rappresenti.

Il concetto, da italiani abituati all’iconico “Abbiamo fatto l’Italia, ora si tratta di fare gli italiani” di Massimo d’Azeglio, non è così autoevidente, specie adesso che si prospetta una svolta storica per un’altra grande macro-nazione vicina al collasso per le spinte localiste e indipendentiste nate proprio dal suo aver trascurato la formazione di un’identità di popolo. Regno Unito, Ungheria, Polonia, Austria, Spagna, Grecia, Italia, Francia, e ora perfino Germania e Belgio, stanno facendo esperienza di movimenti nazionalisti spiccatamente anti-europeisti, realtà che si fanno portavoce di scontenti e sofferenze tragicamente reali, e capaci di indirizzare questi contro un unico bersaglio: un’Europa dipinta come l’origine di ogni male, come una forza esterna e tirannica che impone regole senza tener conto dell’autonomia e della sovranità dei singoli stati.

Al netto di menzogne più o meno spudorate vendute da questo o quel movimento populista, bisognerebbe essere degli ingenui per negare all’Unione Europea qualsiasi responsabilità di un collasso culturale che rischia sempre di più di farsi politico. Il processo di costruzione europeo è andato in direzione diametralmente opposta di quello auspicato da Fichte: si è cioè creata un’unione finanziario-monetaria senza alcun vincolo politico, stilando poi un’agenda comune senza riguardo per la condizione specifica dei singoli paesi membri, nella speranza di arrivare ad un “effetto cascata” in merito al quale ogni cittadino avrebbe prima o poi sentito propria un’identità europea se non sovrapposta perlomeno accompagnata a quella nazionale.

La mossa è stata del tutto controproducente. Quello che era il più grande e bel progetto politico del Secondo Dopoguerra, che ha garantito degli inediti settant’anni di pace nel continente e ha permesso una libertà di movimento, di studio e di commercio senza precedenti si è trasformato nello spauracchio dello spread e dei diktat del mercato; il più efficiente e promettente esperimento per superare la decadente e antiquata realtà dello Stato-Nazione secentesco sta ripiegandosi su se stesso schiacciato da recrudescenze nazionaliste che, pur essendo il colpo di coda di un sistema morente, hanno ancora in sé un potenziale distruttivo e divisorio capace di vanificare più di mezzo secolo di diplomazia e progresso.

Fichte si raccomandava di agire sulla cultura per influenzare la politica, noi abbiamo puntato sulla finanza per arrivare forse un giorno alla politica e poi miracolosamente raggiungere la cultura e il sentire comune.

Non possiamo considerare fallito l’esperimento europeo: l’alternativa sarebbe un enorme passo indietro storico, una pericolosa apertura a venti di guerra e di divisione che si sperava dimenticati, e una vittoria di forze anti-politiche autoritariste e repressive. Neanche possiamo, però, avallare un sistema vigente fallato e di fatto esclusivo, un dominio plutocratico che altro non è che un’estensione pseudo-politica del (fallito) sogno capitalista e liberista. Non possiamo smantellare l’Europa, ma dobbiamo rifondarla e ricostruirla, salvare ciò che di buono ha saputo dare e correggere la rotta sugli elementi che hanno chiaramente deviato dal progetto originale.

L’anno prossimo si terranno le elezioni europee, e sarà l’occasione perfetta per modificare i programmi e presentare un’idea di Europa capace di affrontare le sfide presenti e porre le basi per un futuro più equo e condiviso. L’occasione, insomma, di cominciare davvero a investire sulla formazione culturale di un popolo che si senta europeo, che viva l’Europa come una casa comune e non come una prigione, che non percepisca lontananza ma comunità, che si senta parte di un progetto politico prima che finanziario. Non è questione di realizzabilità, ma di volontà, questa sì, politica. Un continente che ha conosciuto millenni di guerre fratricide e intestine non può permettersi l’alternativa.

 

Giacomo Mininni

 

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L’altra faccia della medaglia: giovani e fuga dall’Italia

Siamo sempre di più: la cosiddetta ‘fuga di cervelli’ sembra non arrestarsi, anzi peggiorare. Articoli di quotidiani, dossier speciali, trasmissioni televisive dedicate ai giovani italiani che se ne vanno dipingono l’Italia del brain drain, quella che esporta più laureati di quanti ne attiri. L’ultimo riferimento all’esodo viene dal Ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, che a gennaio 2018, in occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico all’Università “La Sapienza” di Roma, ha ricordato che «il numero di laureati sta crescendo ma è ancora troppo basso e ancora troppi giovani lasciano il nostro Paese per migliori opportunità all’estero»1. Secondo l’ultimo studio di Confindustria, sono 624 mila gli Italiani che dal 2008 al 2016 hanno spostato la loro residenza all’estero, in tutte le fasce di età2. Lo spostamento dei giovani in particolare costa all’Italia circa un punto di PIL all’anno, secondo lo studio citato.

Ma stanno veramente così le cose? In occasione di una conferenza sul fenomeno migratorio, una persona di nazionalità italiana, nel condividere con il pubblico la sua storia personale di migrazione intra-europea, disse di aver lasciato l’Italia per ambizione, per inseguire un sogno, quello di partecipare ad un progetto di respiro internazionale.

La verità è quella del brain drain potrebbe essere solo una faccia della medaglia. L’altra parte della storia è fatta di curiosità, voglia di mettersi in gioco, e perché no, ambizione. La curiosità di scoprire a fondo realtà nuove, la voglia di mettersi in gioco, integrandosi in ambienti diversi, l’ambizione di seguire un sogno più grande di se stessi o in un settore più rinomato all’estero: non sono caratteristiche legate alla nazionalità che portiamo, ma alle nostre personalità. Queste caratteristiche ci avrebbero portato a spostarci in un paese diverso da quello di nascita, anche se fossimo nati inglesi, scandinavi, olandesi o tedeschi. Reinventarsi in una realtà diversa e straniera è un processo così radicale e totalizzante, che non può essere compiuto se alla necessità pura e semplice, non si affianca almeno una di queste caratteristiche.

L’interpretazione corretta di questi dati ci dovrebbe spiegare che ci sono tanti motivi per cui una persona decide di trasferirsi in un altro paese. Immaginiamoci una bilancia: da una parte la necessità e dall’altra le altre motivazioni menzionate in precedenza. Nella scelta di ognuno di noi entrambe hanno un valore, anche se diverso. Ci saranno persone per cui la necessità ha un peso maggiore, così come ci sono persone per cui curiosità, sfida o ambizione hanno il sopravvento nella decisione finale. Per altre, magari, è più una questione di “moda”. Qualsiasi sia la motivazione predominante, non è intellettualmente onesto interpretare delle statistiche appiattendole solo su una singola variabile. Soprattutto quando su queste interpretazioni, si forma l’opinione pubblica nazionale, ed a sua volta quella estera3.

Sembra pensarla alla stessa maniera anche PagellaPolitica, il nuovo partner di Facebook Italia nella lotta alle fake news4, che ha verificato i dati dello studio di Confindustria. Secondo PagellaPolitica5 ci sono almeno tre considerazioni da tenere a mente. Innanzitutto, non tutti gli italiani emigrati hanno lo stesso titolo di studio. Ci sono italiani con titolo di studio superiore come concittadini laureati o dottori di ricerca: questo implica che il calcolo sulla spesa di formazione fatta dallo studio in questione possa solo essere un’approssimazione al rialzo. In secondo luogo, in economie che si definiscano avanzate, è normale che i giovani si spostino in Paesi diversi da quello di origine, con alcuni tra i maggiori Paesi europei che arrivano a numeri più elevati di quelli italiani6. Infine, un numero non irrisorio di italiani torna in Italia, spostando nuovamente la propria residenza dall’estero all’Italia (22 mila nel 20157).

Queste considerazioni ci restituiscono un’immagine differente e forse più realistica dei 624 mila italiani, evidenziati dai giornali. La necessità è una faccia della medaglia, quella che fa più rumore, perché porta a decisioni che sono frutto della mancanza di viabili alternative. Ma non è l’unica. Per quanto minoritaria, l’altra faccia vale ugualmente la pena di essere presa in considerazione, raccontata e ascoltata, perché come ha detto di recente il Presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni, «quando c’è qualcosa di positivo che riguarda l’Italia, bisogna avere il coraggio di raccontarlo»8. Il rischio è quello di favorire altrimenti il circolo vizioso della profezia che si auto-adempie9.

 

Francesca Capano

 

NOTE
1. Padoan, la disoccupazione cala, ma ancora troppi giovani lasciano l’Italia, Corriere della Sera, 18 gennaio 2018.
2. Confindustria Centro Studi, Scenari Economici, dicembre 2017, N. 31,
3. Francesca Capano, L’intreccio tra Dinamiche Interne e Rappresentazioni Esterne, settembre 2017, La Chiave di Sophia.
4. Facebook farà il fact checking anche in Italia, con Pagella Politica, Il Sole 24 Ore, 30 gennaio 2018
5. Quanto costa allo Stato e alle famiglie italiane la fuga dei cervelli. Una stima, gennaio 2018, Pagella Politica.
6. L’affermazione non è tuttavia sostanziata da dati o riferimenti a Paesi europei specifici.
7. Fonte: Istat.
8. Il video dell’intervento alla pagina Facebook del Presidente del Consiglio.
9. In sociologia, la profezia che si auto-adempie è una previsione che si avvera solamente perché ritenuta reale (la previsione genera l’evento che a sua volta verifica la previsione stessa).

 

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Inglesismo selvaggio

L’inglesismo selvaggio è ormai un dato di fatto nella quotidianità di molti contesti lavorativi e universitari, nei quali le persone utilizzano termini e acronimi che molto spesso non sanno cosa vogliano effettivamente dire. All’interno della loro nicchia linguistica ciò appare loro come dotato di un significato e di una intrinseca coerenza. Tale fenomeno prolifera nel linguaggio comune e deve il suo successo all’alto livello di contagiosità; capita così che il termine impresso nella memoria balzi fuori al bar mentre si sta bevendo un aperitivo con gli amici, i quali rimangono sbigottiti o ancora peggio annuiscono anche se non stanno capendo assolutamente nulla di ciò che viene detto.

Spezzerò tuttavia una lancia a favore degli inglesismi, come premessa necessaria a riflettere criticamente su questa tematica. Le parole sono come organismi viventi: alcune migrano da un contesto linguistico all’altro, possono nascerne di nuove, è possibile generare parole da altre parole etc… Una lingua esiste propriamente quando c’è qualcuno a parlarla ed evolve insieme a coloro che la scrivono e la proferiscono. Spesso l’Italia è tacciata di esterofilia, ma c’è da dire che oggi nessuno metterebbe in discussione parole come computer, mouse o driver di installazione, in altri paesi tali termini non hanno passato il vaglio di una analisi critica ed è così che in Francia driver è diventato operator o in Spagna il mouse è diventato ratón. La contaminazione linguistica non è un male assoluto, può essere sensato, soprattutto in campi funzionali, mantenere il valore di quelle parole nella lingua originaria, e l’inglese è una lingua decisamente molto sintetica e immediata, quindi effettivamente riesce ad esprimere alcuni concetti in modo molto esaustivo e diretto.

Da un approccio potenzialmente corretto gli italiani sono poi incorsi nell’abuso dell’inglesismo, introducendolo in maniera acritica nel linguaggio comune, il che finisce per essere una patologia linguistica estremamente virale.

Perché chiamiamo il cartellino badge? Perché i giornali titolano killer e non assassino? Perché sono termini semplici e intuitivi, altri giustamente direbbero che è così perché vengono utilizzati di più e più le parole più si usano più si rinforzano. Personalmente credo che le ragioni vadano ricercate più in profondità e in particolare in una tempesta linguistica che abbiamo preparato noi come popolo.

Da un lato abbiamo gli italiani, un popolo che è stato unificato in tempi relativamente recenti e che per sua stessa natura ha mantenuto forti i propri legami e le proprie radici territoriali e dialettali. A questo aggiungiamo come conseguenza una scarsa predisposizione verso la lingua italiana, a tale proposito pensate alla trasmissione televisiva dal titolo Non è mai troppo tardi del maestro Manzi che negli anni sessanta insegnava l’italiano per superare il diffuso analfabetismo.

Gli italiani avendo, in generale, meno strumenti identitari nazionali hanno facilmente seguito la moda o il suono suadente di certe parole inglesi. A questo si aggiunge che, nonostante il doppiaggio in lingua italiana di film e altri prodotti audiovisivi abbia costituito una forma di difesa strutturale, la continua importazione di format televisivi nelle reti nazionali ha indubbiamente favorito la proliferazione di termini stranieri.

Dall’altro lato ci sono invece alcuni ambienti accademici che hanno avviato una crociata linguistica contro questi nuovi modi di dire, teorizzando a più riprese una vera e propria epurazione, un ritorno alle origini, giocando sulla nostalgia per i bei tempi in cui la lingua era “nostra” e ci connotava come popolo. Talvolta queste teorie sono state accompagnate da un forte sentimento nazionalistico: non dobbiamo infatti dimenticare che nell’inconscio collettivo degli italiani c’è il retaggio del fascismo, anche se spesso lo rimuoviamo acriticamente o con una condanna solo formale, che non aiuta a rielaborare quel periodo che ha investito ideologicamente il nostro Paese in modo negativo. La lingua è diventata allora un modo per rilanciare un certo sentimento di dignità nazionale che, cosa tipica del pensiero totalitario nelle sue molte formulazioni, può sussistere solo nell’identificazione di un “nemico”, molto spesso più immaginario che reale. In quest’ottica, la lotta alla proliferazione degli inglesismi si presta perfettamente a tale tipo di retorica.

Una parte del mondo accademico e in generale alcuni “presunti” intellettuali italiani, molto spesso troppo autoreferenziali, hanno tacciato l’italiano medio di limitarsi a scimmiottare gli americani, rinunciando a distinguersi dagli altri per conformarsi agli stili di vita dettati da marchi internazionali.

Gli intellettuali anziché instillare una analisi critica, e setacciare dove davvero le parole inglesi portavano un valore aggiunto in termini di funzionalità, si sono arroccati in cima alla “torre d’avorio” del sapere accademico dalla quale hanno solo saputo giudicare tutti gli altri.

A questi richiami gli italiani hanno risposto sostanzialmente infischiandosene della “purezza” della lingua nel parlare quotidiano e nel relazionarsi.

Scrive bene Wilhelm von Humboldt: «La lingua è la manifestazione fenomenica dello spirito dei popoli: la loro lingua è il loro spirito e il loro spirito è la loro lingua»1. E aggiunge: «L’uomo vive principalmente con gli oggetti, e quel che è più, poiché in lui patire e agire dipendono dalle sue rappresentazioni, egli vive con gli oggetti percepiti esclusivamente nel modo in cui glieli porge la lingua»2.

Il vero problema dell’inglesismo, linguaggio che si diffonde ogni giorno nell’uso comune, è che parliamo pensando di sapere cosa diciamo senza però riuscire nemmeno in molti casi a riportare quei concetti nella nostra lingua. In qualche modo siamo asserviti dalle stesse parole che usiamo perché non le padroneggiamo.

Anziché arroccarsi nella “torre d’avorio” gli intellettuali e la classe dirigente di questo Paese dovrebbero educare e educarsi come popolo all’analisi critica, alla chiarezza e alla limpidezza del linguaggio, senza rinchiudersi nella dimensione dell’ideologia, ed anzi recuperando un sano approccio genealogico come ci ha ben indicato Nietzsche. Pertanto dobbiamo tutti interrogarci non solo in merito a ciò che diciamo, ma soprattutto a perché lo diciamo, così da scegliere davvero consapevolmente come esprimerci.

Quindi proviamo a porci qualche domanda di consapevolezza su cosa stiamo ascoltando o dicendo quando magari affrontiamo con leggerezza termini come spread o spending review, e cerchiamo di esprimerci con parole di cui conosciamo effettivamente il significato e che non usiamo “a pappagallo” solo perché le utilizzano tutti.

 

Matteo Montagner

 

NOTE:
1. W.Von Humboldt, La diversità delle lingue, Roma-Bari, Laterza, tra. It. Di D. Di Cesare, 1991, p. 33.
2. Ivi, p. 47.

 

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“Chiamami col tuo nome” è un inno alla bellezza

C’è una sorta di classicismo contemporaneo nella vibrante estetica che pervade le immagini del nuovo lungometraggio di Luca Guadagnino, Chiamami col tuo nome. Miglior film ai Gotham Awards di quest’anno, l’opera del regista siculo racconta l’appassionata relazione estiva tra un giovane diciassettenne e uno studente universitario di origini americane in un idilliaco borgo del Nord Italia, a pochi chilometri di distanza da Crema.

Il viaggio di Chiamami col tuo nome inizia nel gennaio del 2017 con la presentazione, in anteprima mondiale, al prestigioso Sundance Film Festival e da lì, visto il successo riscosso oltreoceano, intraprende un trionfale cammino attraverso alcuni dei festival più importanti a livello internazionale, arrivando a essere uno dei grandi nomi nella corsa ai prossimi premi Oscar. Il merito di un simile risultato è dovuto in gran parte al talento di Guadagnino nell’offrire allo spettatore l’immagine di un’Italia che oggi non esiste più, immersa nella bellezza dell’arte antica e nella memoria storica di un passato a dir poco ingombrante (una delle scene chiave del film è girata davanti a un monumento dedicato alle vittime della Grande Guerra). Come ne La Grande Bellezza di Paolo Sorrentino, l’immagine dell’Italia rimane sempre sospesa in bilico tra il cliché del Paese da cartolina e una location pervasa da insanabili contraddizioni che diventano lo specchio del carattere dei personaggi sul grande schermo.

La perfetta ambientazione anni Ottanta, le pedalate estive dei due protagonisti nella campagna cremasca e una colonna sonora impreziosita da ben tre indimenticabili canzoni del cantautore Sufjan Stevens sono i veri punti di forza del film che debutta nelle sale italiane giovedì 25 gennaio. Per chi non conoscesse ancora la filmografia di Guadagnino, Chiamami col tuo nome diventerà facilmente un film indimenticabile per la sensibilità con cui viene raccontata la trama e la cura dei dettagli con cui è stata preparata ogni inquadratura. Per chi invece ha già imparato a conoscere e amare il lavoro del regista siciliano dai precedenti Io sono l’amore e A bigger splash, questa trasposizione del libro dello scrittore statunitense André Aciman risulterà un piccolo passo indietro rispetto ai lavori precedenti di Guadagnino. Chiamami col tuo nome è infatti un inno alla bellezza a cui manca spesso quella componente di sublime cinematografico in grado di assurgerlo dal semplice status di ‘bel film’ a capolavoro. La pura estetica senza pulsione rischia molte volte di trasformarsi in un semplice esercizio di stile ed è un pericolo a cui i personaggi del film vanno più volte incontro, a differenza delle splendide statue elleniche nascoste nelle acque del Lago di Garda, perfette e misteriose nella loro immutabile ieraticità. Raccontando la bellezza, Guadagnino regala momenti di grande cinema nel momento in cui mette in scena il dolore e la paura del non essere accettati e corrisposti, un sentimento che i suoi personaggi incarnano alla perfezione mentre ardono nella passione di una calda estate lombarda. In quei momenti Chiamami col tuo nome non si limita a essere una semplice storia d’amore ma diventa un film capace di parlare al cuore di ognuno di noi.

 

Alvise Wollner

 

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“Ci prendiamo un caffè?”: intervista a Paola Goppion

Era un giorno d’estate quello in cui abbiamo incontrato Paola Goppion nella loro torrefazione di Preganziol.
L’abbiamo aspettata in una saletta fresca; alle pareti stavano appese alcune opere realizzate per l’azienda, sul tavolino una grande pianta e una collana di fascicoli monografici sui grandi artisti del Novecento. Queste presenze non lasciavano spazio al dubbio circa l’interesse dell’azienda per l’arte e la cultura (del resto, Goppion Caffè si fa sponsor di molti eventi culturali nel trevigiano e non solo).

Poco dopo la signora Paola è arrivata e abbiamo cominciato a parlare; è una donna che sa metterti a tuo agio e sa davvero rapire con i suoi racconti: si potrebbe stare ore ad ascoltarla, e questo ci ha piacevolmente colpite ed anche un po’ affascinate. La chiacchierata è proseguita attraverso gli impianti di tostatura, dove abbiamo visto montagne di chicchi mescolarsi in grandi cisterne; siamo finite nella caffetteria, letteralmente alla fine della filiera, e la signora Paola ci ha offerto un caffè, cioè si è messa lei alla macchina, soppesando poi sapientemente con lo sguardo il colore e la consistenza della miscela che ne era uscita. Non serviva essere grandi esperti per capire che quello che ci era stato servito era un caffè “come si deve”, ovvero fatto e preparato con la giusta cura e i giusti chicchi.

Per noi è stato molto importante costruire una collaborazione con un’azienda come questa: scrivere a quattro mani l’articolo per la rivista e pensare agli eventi da realizzare insieme (il primo è finalmente quasi arrivato, sabato 20 gennaio 2018 a Palazzo dei Trecento a Treviso) è stato molto interessante e sicuramente ci ha culturalmente molto arricchito. In questo articolo vi regaliamo l’intervista che Paola Goppion ci ha rilasciato, mentre per scoprire cosa si cela dentro ad un piccolo chicco di caffè vi rimandiamo alla nostra rivista #4 – Foodismo.

 

La panoramica socio-culturale che ci ha raccontato nel suo articolo per la nostra rivista cartacea #4 ha fatto emergere il carattere del caffè di essere legante tra culture. Se questa bevanda è espressione di valori e di identità, cosa ritiene che racconti del nostro Pa0ese, l’Italia?

Noi italiani andiamo molto fuori a bere il caffè e questo fa parte della nostra abitudine e, come tale, della cultura popolare del nostro paese. Un “ti offro un caffè” contiene l’invito ad uno scambio di informazioni, di racconti, ma anche di confidenze. Il caffè è la scusa per motivazioni così diverse tra loro. Anche per vedere la partita o per giocare a carte. 
Il Caffè del resto è luogo oltre che bevanda.
E se invece ci andiamo soli, al bar a bere un caffè, quel caffè rappresenta una boccata d’aria e un momento personale. Spesso facciamo qualche passo in più per raggiungere un posto che ci piace e il caffè è fatto bene.
Che strano: siamo quasi gli unici al mondo a consumare il caffe in piedi, al banco. Questa è una particolarità tutta italiana. Racconta un mondo.

Il caffè offre una grande varietà di sapori e aromi, per esempio legati alla zona geografica, oppure alle sue stesse caratteristiche biologiche: in un secondo momento poi durante la fase di tostatura si possono attribuire al caffè sfumature di profumi ed aromi di frutti, spezie, fiori e cacao, creando delle miscele di carattere. Il caffè che beviamo dunque potrebbe raccontare molto della persona che lo sceglie. Quali sono le miscele che avete creato per le vostre edizioni limitate e di quali tipi di persone lei ritiene che riflettono l’identità?

È una bella domanda.
La motivazione della scelta dei diversi caffè in origine deriva proprio dai loro sapori diversi e dalle caratteristiche organolettiche che ognuno di loro offre. Per esempio, non ci facciamo mai mancare il caffè etiope, un’Arabica la cui fine acidità, dai toni fruttati, regala alla tazza un sapore inconfondibile.
Per noi, questo caffè, ha il sapore e il profumo del caffè veramente buono.
Alcune scelte che tuttora perseguiamo hanno i decenni della nostra attività; prima mio zio Angelo e poi suo figlio Sergio, oggi nostro presidente, hanno sempre avuto un gran palato nell’assaggio dei caffè e una vera, profonda e non comune attenzione alla selezione delle qualità componenti le miscele, non solo in termini di origine e tipologia ma addirittura in funzione delle aree di produzione. In azienda si è sempre fatta una rigorosa selezione delle partite di caffè prima dell’imbarco nel paese originario e dopo l’arrivo a destino e ancora oggi vige l’imperativo rifiuto all’utilizzo nel caso la stessa sia risultata non conforme. Lavoriamo con materie prime buone facendo focus costante sulle specifiche qualità di caffè che compongono le varie miscele, indipendentemente dal prezzo delle stesse. I caffè buoni hanno caratteristiche speciali che si traducono, semplicemente, in termini di sapori piacevoli come il cacao, la cioccolata, la vaniglia, i fiori, i sentori di mandorle, nocciole e poi di frutta e tanti altri. È una caratteristica dei caffè Arabica la leggera acidità, fine, che però non deve mai divenire astringente e fastidiosa.

Il caffè deve farsi ricordare e quasi deve lasciare il desiderio di essere ribevuto. Il nostro caffè è dedicato a chi ci trova dentro il piacere di berlo. A chi sa assaporare, a chi lo apprezza.  E per gli affezionati alla marca abbiamo creato, ormai oltre dieci anni fa, ‘Edizione Limitata’ giunta ora alla 11esima edizione. Ogni anno la lattina viene disegnata da un artista diverso.
La miscela contiene sempre e in modo evidente le qualità Sidamo o Yirgacheffe dall’Etiopia. Lì è nato il caffè e lì è nata la passione della famiglia per il caffè quando, alla fine del colonialismo, due dei fratelli Goppion, Angelo e Giovanni, avevano aperto un negozio di prodotti alimentari soprattutto per gli italiani che in quegli anni erano lì. Una volta i prodotti erano venduti sfusi e così era anche per il caffè che lì era a portata di mano e tra l’altro buonissimo.

Oltre a concepire il caffè stesso un elemento/prodotto culturale, voi riuscite anche a tradurlo in veicolo di cultura. Il vostro lavoro sul packaging lo dimostra: in che modo è nata l’idea di combinare l’arte con il caffè?

Questa è la cosa più interessante dopo la composizione della miscela; secondo noi il packaging è il racconto del contenuto e una opportunità per renderlo più interessante. Trasmettere informazioni al nostro consumatore. 
Da quasi vent’anni, sul retro dei pacchetti, pubblichiamo anche una vignetta con le ‘caratteristiche in assaggio’ che viene composta dai nostri assaggiatori. È una ‘scaletta’ esplicativa che definisce i contenuti in termini di analisi visiva (consistenza, tessitura e persistenza della crema – un po’ difficile da ottenere nell’estrazione con la moka), di analisi gustativa (aroma, dolcezza, persistenza, retrogusto).
È una guida all’assaggio.
Poi, facciamo in modo che tra il pacchetto e il suo contenuto ci sia legame iconografico; quando, vent’anni fa, siamo partiti con Nativo, il mercato del biologico era un piccolo mercato, i prodotti erano pochi e si presentavano in monocolore. Il caffè in esso contenuto, allora, proveniva dal Messico (ora Honduras). Questo ha guidato la nostra ricerca del colore del packaging dentro al surrealismo della pittura messicana del Novecento.
Il pacchetto di Nativo ancora oggi è avvolto in tratti di colori accesi e materici, in cui le piccole mani dipinte anticipano il lavoro del raccolto manuale dell’uomo e esprimendo la certificazione Fairtrade.
Questo è solo un esempio, ce ne sono altri, perché (quasi) tutti i nostri prodotti ‘si raccontano’.

Nonostante il caffè sia nato in Arabia e si sia sviluppato molto in Centro e Sudamerica, nel momento in cui la vostra azienda lo porta in Veneto è capace di farlo parlare anche del nostro territorio. In che modo dunque una bevanda così esotica si lega alla cultura del nostro territorio?

In Italia, si sono inventati i modi più importanti per rendere bevibile il caffè. Da grani macinati a liquida bevanda. 
La Moka è un’invenzione di Bialetti entrata nelle case di tutta la penisola dal 1930 e la macchina per l’espresso, presentata dal suo inventore italiano in occasione dell’Expo Generale di Torino del 1884, entrò nei bar facendo diventare il caffè ‘Espresso’.
Queste sono unicità creative dell’ingegno italiano.
Da qualche anno è nato il Consorzio di tutela del caffè Espresso tradizionale, percorso per far riconoscere l’espresso diffuso in tutto il mondo come invenzione assolutamente italiana.
Poi: in Italia ci sono oltre 700 Torrefazioni e ognuna di queste ha accontentato un gusto locale. Ci sono le grandi torrefazioni, note e presenti in tutto il mondo e ci sono le medie, piccole e piccolissime che soddisfano esigenze più locali.
Goppion esporta in trenta paesi del mondo ma in Italia è presente sul territorio del Triveneto dal 1948, come fornitore di molti bar e anche attraverso una quindicina di Caffetterie a marchio tra Belluno e Venezia.
Rispondo alla domanda con un esempio pratico: una delle nostre miscele da bar si chiama Dolce. Nel suo nome si riflette la sua caratteristica di gusto più presente, la dolcezza, ma è evidente che il prodotto sia dedicato a Venezia o meglio all’importanza che la Serenissima ha avuto per il caffè che, arrivando dall’Oriente, andò da Venezia verso il resto del Mondo. Il Settecento ha visto l’apertura dei primi Caffè dove anche i grandi vedutisti del secolo si ritrovavano. 
Il pacco è foderato in un magnifico dipinto di Francesco Guardi. Ci è piaciuto pensare al restyling del nostro prodotto più antico con un’immagine che narrasse questo legame del caffè con la città magnifica.
Stringere un accordo con il Polo Museale della Ca’ D’oro, attraverso una convenzione con il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, per avere l’utilizzo di due vedute di Francesco Guardi, pittore veneziano settecentesco, conservate nelle sale della Galleria Giorgio Franchetti alla Ca’ d’ Oro di Venezia ci è sembrata un’idea bellissima per coronare il senso di molte cose legate al passaggio del caffè in Italia. Stabilire l’identità di una storia vera e raccontarla nei nostri prodotti è la parte più bella del mio lavoro.

Il caffè coinvolge appieno la sfera sensoriale umana anche se nella fretta di oggi pare non esserci più il tempo per compiere scelte oculate nella grande varietà di caffè esistenti. In che modo pensate sia possibile educare il pubblico-consumatore al gusto?

Sono processi lenti. Lavoriamo bene, seriamente, comperiamo solo caffè di prima qualità, abbiamo organizzato a tutti i livelli la nostra produzione certificandola per arrivare al nostro consumatore come una garanzia. Lo facciamo mantenendo costante il nostro sapore.
Organizziamo continuamente percorsi didattici in azienda per migliorare le abilità dei baristi ma ospitiamo anche le scuole per raccontare di cose lontane che però entrano nelle nostre case tutti i giorni.
Tutto questo perché la tazza Goppion arrivi al consumatore buona così come l’abbiamo pensata.
Purtroppo caffè cattivi in giro ce n’è tantissimi e vengono bevuti lo stesso. Tra l’altro, molto spesso sono ristoranti notissimi a proporli. Questo ha ancora dell’incredibile: come sia possibile che in questi casi, dopo pietanze squisite e vini perfetti arrivi un caffè terribile, amaro e rancido. Ma, ci arriveremo un po’ alla volta a respingere il caffè come si fa per il vino se sa di tappo.

I tempi e modi di fruizione del caffè oggi sono molteplici: lo si prende “al volo” al bar, lo si sorseggia in un caffè durante un incontro con gli amici, diventa la pausa lavorativa o dallo studio da condividere con i colleghi davanti alla macchinetta. Pensa esista una relazione profonda tra caffè e tempo?

Un paio di anni fa abbiamo dedicato il nostro calendario alla relazione che c’è tra tempo e caffè.
Ci vuole tempo per sceglierlo, il caffè, il giusto tempo – lento – per tostarlo, per miscelarlo-assaggiarlo-capirlo-raccontarlo.
E quando la moka borbotta in cucina al mattino segna l’inizio del nuovo giorno.

La questione ambientale è centrale (o dovrebbe esserlo) in seno al dibattito culturale, sociale ed economico dei nostri giorni. Quale possiamo dire essere l’etica di Goppion Caffè nei confronti dell’ambiente? In che modo avete coniugato (o pensate di coniugare) l’ecosostenibilità con la vostra produzione industriale?

L’etica non è una parola ma un fatto compiuto nelle persone. 
Siamo nel lavoro quel che siamo nella vita. Lavoriamo come cresciamo i figli, con la stessa attenzione. Questo va lungo tutta la nostra produzione e nel rapporto con la nostra gente, con i collaboratori, con i clienti, distributori. Dal 2011 siamo a produzione fotovoltaica, siamo certificati ISO 22.000 per tutta la produzione, siamo certificati da Fairtrade (prima Transfair) da vent’anni, per la produzione biologica da trenta.

La nostra rivista intende riportare alla luce il valore della filosofia come disciplina in grado di parlarci di noi e del mondo odierno e anche dei piccoli gesti quotidiani come bere un buon caffè. Lei che cosa pensa della filosofia?

Non ho ancora studiato la filosofia. O molto poco. Ma penso che il fatto che la filosofia sia una riflessione sull’uomo e sul suo modo di essere, sia una materia più che mai attuale e da apprendere, studiare d’ora in poi per avere qualche strumento in più per capire il mondo complesso di oggi.
Leggere di filosofia con a fianco una tazza di buon caffè caldo e profumato: mi sembra questo il modo più appropriato per salutarvi e per ringraziarvi di averci accolti in questo spazio di lettura.

 

Elena Casagrande e Giorgia Favero

 

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Intervista Ferruccio De Bortoli: preservare e accrescere il pensiero critico

<p>Roma 11/05/2010 Trasmissione Ballaro' in onda su Raitre nella foto Ferruccio De Bortoli</p>

Il giornalismo molto ha a che fare con la filosofia, sopratutto se pensiamo alla loro relazione con la verità: entrambi agiscono ricercando la verità dei fatti, comprendendo cause ed effetti, inquadrando lo stato delle cose nel flusso della storia e fornendo così all’uomo-lettore una chiave interpretativa e una prospettiva di senso sul mondo. Il filosofo e il giornalista hanno una grande responsabilità, quella di promuovere, preservare e partecipare allo sviluppo del pensiero critico, di fare in modo che il cittadino, accompagnato all’origine dal dubbio, maturi una capacità forte di pensare in profondità e ricercando il confronto e il dialogo. Così il cittadino-lettore, oggi più che mai nell’era degli users generated contents ha a sua volta un’importante responsabilità, quella di informarsi bene e non superficialmente, essendo egli stesso, attraverso i social network e il web, capace di influenzare e orientare la percezione dei fatti. 

Su queste questione abbiamo avuto il piacere di conversare con il prof. Ferruccio De Bortoli, giornalista professionista dal 1975; direttore del Corriere della Sera dal 1997 al 2003 e dal 2009 al 2015, ha matura un’esperienza pluriennale come caporeadattore e come commentatore di economia e attualità politca. Ha anche diretto “Il Sole 24 Ore” ed è stato amministratore delegato di Rcs libri fino al 2005. Dal 2015 è presidente della casa editrice Longanesi e dell’associazione Vidas, collaborando tutt’ora come editorialista al Corriere della Sera e al Corriere del Ticino. Nel 2017 firma Poteri forti (o quasi), un libro in cui ricostruisce quarant’anni di storia del nostro paese e del giornalismo, fornendo un’inedita e preziosa testimonianza. Dal terrorismo alla crisi economica, dal declino dell’editoria fino alla comparsa di comunicatori improvvisati e agevolati dalle moderne tecnologie: De Bortoli a ricostruisce incontri e scontri, scambi di opinioni e fughe di notizie, sostenendo che oggi in Italia i poteri sono trasversali ma deboli e che una società evoluta non deve avere paura delle “verità scomode”. Un libro a metà tra il saggio e l’autobiografica, il cui filo rosso è una profonda dichiarazione d’amore per la propria professione di giornalista e per la passione che ha accompagnato e accompagna tutt’ora questo mestiere.

 

Lei è stato per diversi anni (dal 1997 al 2003 e dal 2009 al 2015) direttore del Corriere della Sera nonché direttore del Sole 24 ore dal 2005 al 2009, per cui ci sembra una persona più che adeguata a cui porre questa domanda: quali sono gli elementi che contraddistinguono e identificano il buon giornalismo?

Gli elementi sono sempre gli stessi, cioè non cambiano con il mutare delle tecnologie. Un buon giornalismo è per sua natura scomodo, irriverente, imprevedibile, non controllabile. Ci sono due termini del giornalismo anglosassone che credo possano essere assolutamente applicati anche nell’era dei social network e delle comunicazioni digitali: accurancy e fairness, dunque correttezza, credibilità e responsabilità dell’usare la libertà di cui si dispone.

Se il buon giornalismo non è cambiato, sicuramente possiamo affermare che gli strumenti e gli atteggiamenti del giornalismo (senza accezioni) sono mutati, soprattutto nel suo rapporto con il web e con i social network. Quali sono i punti fondamentali su cui riflettere in proposito, sia dalla parte dei giornalisti che dei lettori?

Stiamo vivendo una fase di progressiva riflessione sul tema dell’accesso ai social network. Nessuno mette in dubbio la grande libertà di poter avere contatti e di poter assumere informazioni di vario tipo; stiamo passando diciamo il primo periodo di entusiasmo pioneristico e ci domandiamo se la grande massa (in termini di quantità) di informazioni che abbiamo a disposizione sia di per sé utile o al contrario non sia dispersiva e qualche volta ponga una serie di interrogativi su una censura più subdola, che è quella dell’abbondanza di cose irrilevanti che rendono di per sé l’informazione rilevante trascurata oppure non messa nella giusta attenzione e nella giusta prospettiva di spazio. Quindi ci stiamo ponendo in questa fase di progressiva maturazione della nostra capacità di usare i social network di fronte al tema: tutto quello che abbiamo è utile e necessario o dobbiamo metterci nella condizione di selezionare in maniera più rigorosa le informazioni che abbiamo? Il fatto di avere un sistema che è fornito dall’informazione professionale anche dalle tante testate storiche di poter selezionare gli avvenimenti e i fatti e le opinioni sulla base della loro importanza mette il cittadino navigatore nella condizione di difendersi e nella prospettiva di non diventare, cullandosi in questo mare di informazione disordinata, un naufrago o un suddito passivo.

In questo contesto mediatico appena descritto, soprattutto in riferimento a internet, non crede che ci sia il rischio di compromissione dell’eticità del giornalista che dovrebbe in qualche modo “difendere” o comunque tener sempre conto dei diritti all’informazione dei lettori?

Il web smaschera molto più facilmente i cattivi giornalisti e naturalmente pone il giornalista di qualità nella condizione di essere per prima cosa in possesso degli strumenti tecnologici dell’informazione digitali, in secondo luogo lo pone di fronte a nuovi compiti di correttezza e di affidabilità, lo toglie da un piedistallo che storicamente aveva, perché comunque nell’informazione digitale non c’è più una grande differenza tra chi fa e chi riceve l’informazione e lo mette di fronte a dei doveri morali di chiedere scusa e di non essere così presuntuoso da ritenere di possedere, magari in esclusiva, la verità.

Abbiamo parlato e in effetti parliamo molto spesso del dovere e della responsabilità dei giornalisti a fornire la verità e del loro dovere nel rispettare un’etica giornalistica forte; molto meno spesso parliamo invece dell’etica e delle responsabilità dei lettori, oggi messe a dura prova dai numerosi strumenti forniti dalle rete. A suo parere a quali responsabilità e dovere deve rispondere il lettore-cittadino?

I lettori nell’era degli users generated contents hanno una certa responsabilità, perché sono testimoni degli avvenimenti, partecipano sui social, commentano in diretta opinioni, interventi, fanno atti pubblici, quindi sono in grado di orientare la percezione degli avvenimenti perché comunque insomma interpretano il polso della gente, del popolo che sta attorno ad alcuni fatti  e che segue alcuni personaggi, però hanno anche la responsabilità di informarsi bene, cioè uno degli aspetti secondari degli effetti laterali dell’era del digitale nell’informazione è la comodità con la quale possiamo accedere ad ogni possibile fonte di informazione; questa comodità spesso di trasforma in passività e in accidia. Per informarsi bene bisogna fare comunque un po’ di fatica, non possiamo essere utenti passivi, dobbiamo sviluppare una capacità critica, una coltivazione del dubbio, in modo da poter confrontare in maniera corretta ciò che è rilevante da ciò che non lo è, e distinguere meglio ciò che è vero da ciò che è falso, ciò che è effimero da ciò che è sostanziale, ciò che è lecito da ciò che è illecito.

Tutto ciò riguarda qualsiasi tipo di giornalismo. Siamo in un’era nella quale non si può più ingannare il prossimo, si paga un prezzo elevato per la scarsa affidabilità, ma si è tenuti anche a riconoscere gli errori perché lavorando specialmente in un sistema che a volte privilegia la tempestività all’accuratezza si incorre ad una quantità di errori decisamente superiore rispetto a quelli che si potevano commettere in altre ere tecnologiche dove si poteva naturalmente decantare, aspettare, dove il tempo era più in possesso di chi faceva informazione. Adesso il tempo è in possesso dei lettori, il pendolo del potere si è spostato verso l’utenza rispetto a coloro che forniscono e fanno informazione, quindi questo è un elemento di cui vale la pena sottolinearne l’importanza, un tema di maggiore responsabilità di chi fa l’informazione e un controllo molto più stretto da parte degli utenti e del pubblico. La considerazione che comunque se si chiede scusa per gli errori commessi e la rete riconosce la buona fede, è comunque un tema di credibilità, di correttezza, di autenticità del proprio essere giornalista.

debortoli-poteri-fortiNel suo libro Poteri forti (o quasi) (La nave di Teseo, 2017) lei sostiene come i grandi paesi abbiano dei poteri forti, cioè dei poteri che sono però responsabili perché sono all’interno di un quadro di regole, rispettano l’ordinamento democratico. A differenza però di paesi come gli Stati Uniti, la Germania, la Francia i cui poteri non sfuggono alle regole democratiche ma fanno parte di una società che ha un senso di responsabilità nazionale condivisa, il dramma del nostro Paese è di non avere più poteri forti. Perché a suo parere l’Italia non è più in grado di avere poteri riconoscibili?

Nel libro cerco di sfatare un mito che è ricorrente tutte le volte che accade qualche fatto importante nel nostro Paese: si evocano secondo me a volte in maniera del tutto impropria i poteri forti del Paese che interverrebbero nel mutare il corso della democrazia o delle istituzioni privando quelle che sono le rappresentanze del popolo del loro potere e della loro capacità di agire. Io invece penso che se ci sono poteri forti che possono essere da un lato della politica (i partiti) e dall’altro dell’economia/finanza (grandi gruppi industriali o finanziari), se sono poteri forti con una storia, un’anima, un senso di responsabilità, una capacità di sentirsi responsabili per i destini del Paese come avviene diciamo nei Paesi  più evoluti che hanno una classe dirigente coesa, e comunque dei poteri  forti ma responsabili – beh, penso che questo non sia un guaio ma uno degli elementi costitutivi della grandezza identitaria di un Paese. Quando mancano questi poteri forti nella politica, nell’economia e nella finanza si lascia lo spazio ai rider, e i rider possono essere da Berlusconi a Grillo, nell’economia e nella finanza possono essere i furbetti del quartierino o gli speculatori stranieri o anche le grandi banche d’affari americane, cioè poteri assolutamente svincolati da un rapporto con il Paese e quindi privi di un controllo democratico. Penso che il problema vero sia questo: la mancanza di poteri forti naturalmente allinea e accresce poteri trasversali e occulti, deboli, cordate amicali che sono ancora per certi versi più pericolosi di poteri forti che noi identifichiamo. Nel nostro Paese abbiamo paura delle dimensioni, invece dovremmo coltivare un accrescere dimensionale delle imprese e ritornare a riscoprire secondo me l’importanza dei partiti senza i quali non c’è democrazia.

Entrando nello specifico all’interno dell’ambito giornalistico italiano, quali sono le influenze dei poteri “quasi” forti? Mi riferisco per esempio a grandi gruppi editoriali come per esempio Mondadori.

Nel libro spiego molto quali sono i rapporti tra azionisti e informazione; distinguo tra azionisti che hanno rispetto dell’autonomia, dell’indipendenza e del valore delle loro partecipazioni, nel senso che riconoscono e danno fiducia a redazioni o direzioni (poi gliela possono sempre togliere) ma naturalmente che si comportano con rispetto per quello che è il valore intrinseco dei giornali, e poi ci sono dei padroni, delle diverse tipologie di proprietari che magari usano il giornale come strumento di pressione o di potere per inseguire i propri interessi.

Noi de La Chiave di Sophia riteniamo che la filosofia sia la spinta, il motore di ogni nostra azione e quindi di ogni professione, essendo riflessione e ricerca di senso. Nel suo mestiere ritiene che la filosofia possa avere un ruolo importante? Che cos’è per lei Filosofia?

Io penso che sia importante, soprattutto nel dibattito riguardante i grandi maestri del passato e naturalmente guardando con grande attenzione allo sviluppo del pensiero contemporaneo, cioè viviamo una fase di grande tecnologia ma di scarso pensiero, esattamente l’opposto rispetto alla Grecia classica, che aveva molto pensiero e scarsa tecnologia. Noi abbiamo il compito di preservare e accrescere il pensiero critico, di fare in modo che il dubbio accompagni la vita dei cittadini responsabili, attenti e curiosi, e in questo la capacità di pensare in profondità, in larghezza e nella disponibilità a mettersi nella parte dell’altro – prendo molto Levinas da questo punto di vista cioè nel riconoscere nell’altro il prossimo – io penso che sia una delle chiavi di volta della vita contemporanea.

 

Elena Casagrande

Intervista rilasciata in occasione di Pordenonelegge 2017

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Catalunya e Veneto: da referendum a referendum

Il referendum che si è appena concluso in Catalunya − avendoci vissuto qualche mese non riesco a chiamarla Catalogna − ha visto votare meno della metà degli aventi diritto, ottenendo però, anche tra blocchi, requisizioni e violenze da parte della Guardia Civil il 90% di Sì per l’indipendenza della regione, con due milioni e duecentomila voti favorevoli. L’esito del referendum dovrebbe implicare la votazione per fare partire il processo di scissione della Catalunya dalla Spagna, fino a portarla a diventare uno stato autonomo sotto forma di repubblica. Il cammino però è tortuoso e sarebbe una decisione unilaterale del governo indipendentista della regione autonoma in quanto il referendum è stato dichiarato illegale dalla corte suprema spagnola. La Spagna ha già dichiarato che userà tutti i mezzi che la legge (e la costituzione) concede per bloccare l’indipendenza catalana. Quello che succederà lo si scoprirà nei prossimi mesi, quello su cui voglio concentrarmi è la funzione che secondo me e secondo molti ha avuto questo referendum nella vita politica catalana e sulle similitudini e differenze con la votazione che interesserà le regioni di Veneto e Lombardia il prossimo 22 ottobre.

A prescindere dal merito, cioè sul diritto o meno che ha ogni regione a potersi separare dal paese a cui appartiene e che non è normata dal diritto internazionale, il referendum catalano alla luce dei fatti di domenica primo ottobre è apparso un pasticcio in molti sensi. La votazione è stata una sconfitta per la Spagna e per il suo presidente Mariano Rajoy, che ha fatto una bruttissima figura sulla scena internazionale, e per la politica in generale. Sembra infatti impossibile che il dibattito sia stato così sterile da rifiutare dialogo e compromessi, tanto da arrivare a voler fermare il referendum all’ultimo istante delegando il potere alle forze dell’ordine e strappando di mano le schede agli elettori. Appare ingiustificato e inutile il ricorso alla forza da parte del governo di Madrid, come appare ben lontano della legalità un referendum auto indetto seguendo modalità non trasparenti.

Dalla giornata di domenica se c’è qualcuno che esce rafforzato è il popolo catalano che chiede l’indipendenza e il diritto di votare, generando simpatia e appoggio trasversale. Subito in Italia gli esponenti più autonomisti (secessionisti si diceva un tempo, e federalisti fino all’altro giorno) sono subito corsi a garantire il loro appoggio verbale ai catalani, sostenendo il loro diritto all’autodeterminazione e bollando le misure attuate dalla Spagna come “atti gravissimi, degni del franchismo”1. In Veneto e in Lombardia c’è chi deve essersi sfregato le mani per la vicinanza tra il referendum in Catalunya e quello del 22 ottobre con il quale le due regioni chiederanno ai propri abitanti se ritengono opportuno che lo Stato conceda maggiore autonomia alle regioni stesse, competenze ora delegate allo stato, e anche più soldi in definitiva (come succede già in quelle a statuto speciale). Un bello spot per tutti i movimenti autonomisti è stato quello dei catalani in fila per ore davanti ai seggi, che sfidano polizia e governo per far sentire la propria voce. Ne sono usciti anche un po’ vittime (centinaia i feriti accertati, due gravi), e questo non guasta. Hanno avuto l’attenzione del mondo e ora Maroni e Zaia sperano di averla di riflesso.

Sta di fatto però che al di là della vuota retorica e della propaganda non c’è mezza cosa che accomuni le due consultazioni popolari. Innanzitutto la forma: il referendum italiano non è in alcun modo osteggiato dal governo e non è vincolante ma solo consultivo (lo Stato avrà l’ultima parola sulle concessioni da fare). Poi, una consultazione di questo genere non è indispensabile per le richieste che le due regioni fanno allo Stato: l’Emilia Romagna ha avviato lo stesso processo per conquistare più autonomia ma senza spendere i milioni di euro che invece spenderanno Veneto e Lombardia.

Se poi i catalani sono mossi, al netto sempre della propaganda, da orgoglio, cultura e tradizioni comuni, ragioni storiche e amministrative e un po’ di maltrattamenti ricevuti, i nordisti ex secessionisti no. A parte l’auspicio per i propri elettori di avere un po’ di “schei” in più per loro, che non prendano la strada caritatevole del meridione, non si vede ombra di programma. Né appunto ci sono regioni storico-sociali valide. E allora cosa c’è di accomunabile tra la Lega Nord e la coalizione Junts pel Sì in Catalunya, promotori delle due consultazioni? La propaganda, appunto.

Azzardo, ma sono dell’opinione che le due formazioni politiche abbiano capito che tirare in ballo la volontà popolare e il diritto del popolo ad autodeterminarsi, in qualsiasi forma lo faccia, al momento sia una delle cose più spendibili ultimamente. Basti guardare al fiorire di movimenti indipendentisti e autonomisti, più o meno xenofobi poi, in giro per l’Europa. La Lega è dagli anni Novanta che dà voce al popolo del nord Italia che si sente oppresso dallo stato e nello stato non si riconosce a suon di secessione e federalismo; solo ora si scontra con la linea di estrema destra di Salvini. Comunque sia ha rappresentato e (scusate la bruttissima parola) fidelizzato un territorio con il miraggio, l’obiettivo ultimo della divisione dallo stato italiano in maniera almeno federale.

Molti commentatori hanno notato questo anche in Catalunya, e cioè che il sentimento indipendentista si sia rinfocolato prepotentemente in concomitanza con la crisi economica del 2008, cavalcato da molte formazioni politiche. La gente ha trovato nel progetto di uno stato catalano libero (Catalunya lliure) una speranza e un obiettivo per cui lottare, e il dibattito politico si è così azzerato, appiattito sul tema dell’indipendenza, portando montagne di voti ai suoi promotori. Adesso l’indipendentismo probabilmente non è ancora maggioritario in Catalunya, ma è molto convinto, chiassoso e sicuro di sé. Di certo è trasversale e molto più integralista di prima e può camminare con le sue gambe. Le proporzioni con l’indipendentismo nostrano sono ridicole, ma non si sa mai che la promessa di qualche soldo in più in saccoccia in un momento ancora non facile per la nostra autonomia non riesca a far serrare le fila anche qui. Sicuramente il referendum del 22 ottobre sarà vinto a larghissima maggioranza dal Sì e la Lega la trasformerà in una sua vittoria esclusiva, anche questa spendibile politicamente.

Tommaso Meo

[Immagine tratta da google Immagini]

NOTE:

1. Queste parole sono state proferite dal governatore del Veneto Luca Zaia all’interno della trasmissione In mezz’ora andata in onda il 01/10/2017.