Il tempo e l’acqua: intervista a Andri Snær Magnason

A settembre 2020 è uscito per Iperborea Il tempo e l’acqua di Andri Snær Magnason. Un autore che all’epoca non conoscevo ma che gli algoritmi dei social mi hanno sistematicamente proposto con la convinzione che mi potesse interessare. È stata però la recensione che ne ha fatto su Instagram la libraia di una delle tante (e tante di esse bellissime) librerie indipendenti che seguo con il mio profilo personale a convincermi a fermarmi nella mia libreria di fiducia e fare l’acquisto nel tragitto di ritorno verso casa.

Le aspettative non sono state tradite. Vien da pensare che non tutto il male dei social vien per nuocere! Ho apprezzato moltissimo il libro, una equilibrata combinazione di denuncia (e sensibilizzazione) ambientale con brani di vita vissuta, in questo caso i parenti dell’autore; aggiungiamoci il pizzico di esotico islandese e il gioco è fatto. L’autore è Andri Snær Magnason, classe 1973, islandese, scrittore, studioso, poeta, fervente ambientalista; si era candidato alle elezioni presidenziali islandesi e sarebbe utile avere nel mondo dei capi di stato come lui. Potreste averlo sentito nominare in relazione al famoso funerale al ghiacciaio islandese Okjokull, per il quale proprio Magnason ha scritto la targa commemorativa lo scorso agosto 2019. Spezziamo un’altra lancia in favore dei social: proprio tramite Instagram ho potuto contattare l’autore, estremamente gentile ed enormemente appassionato del suo lavoro, il quale mi ha rilasciato una lunga intervista. Ve ne lascio un estratto in questo articolo, la seconda parte la troverete nel futuro, sul numero cartaceo de La chiave di Sophia, il quattordicesimo in uscita a febbraio 2021.

Buona lettura!

 

GF – Una delle cose che più mi affascinano del suo libro Il tempo e l’acqua (Iperborea 2020) è come l’emergenza climatica si mescoli a vicende e istanti di vita vissuta: questo ci fa capire che tali temi non sono affatto distanti dal quotidiano vivere di chiunque. Lei crede che se le persone comprendessero gli effetti del riscaldamento globale nella loro quotidianità riuscirebbero a prendere il coraggio necessario per agire?

ASM – Ho sempre voluto documentare le vite dei miei nonni a causa del grande cambiamento che le loro esistenze hanno attraversato. Mio nonno è cresciuto in una fattoria appena sotto il circolo polare artico mentre gli altri nonni sono stati pionieri nell’esplorazione dei ghiacciai: sono nati negli anni Venti e hanno dovuto inventare più o meno tutto e hanno potuto scoprire la natura in modo diverso rispetto alle generazioni precedenti. E poi quando discorro con il Dalai Lama a proposito dello scioglimento dei ghiacciai e di come esso sia sempre più legato al destino dell’umanità, mi rendo conto che posso usare le storie dei miei nonni per avvicinare i ghiacciai a noi. Il riscaldamento globale è graduale, spesso distante e frammentato nonché davvero troppo grande per essere afferrato concettualmente. Portandolo più vicino a me e al mio vissuto rendo il mondo un po’ più piccolo, e in qualche modo più visibile e semplice da maneggiare.

 

GF – Nel libro lei racconta il modo in cui ha deciso di divulgare i dati scientifici e di come si sia persuaso che la narrazione, la poesia, il cinema possano essere degli importanti strumenti per il risveglio delle coscienze. Parole come “scioglimento dei ghiacciai”, “acidificazione degli oceani” e “aumento delle emissioni” sono parole il cui significato secondo lei “si perde in un ronzio”. Con quali strumenti a suo parere anche il cittadino medio consapevole può mettere ordine nel ronzio di chi gli sta attorno?

ASM – Posso parlare solo per quanto riguarda i miei strumenti e come cerco io stesso di afferrare i concetti. Uno degli strumenti è rendermi conto che noi davvero facciamo fatica a comprendere, dunque devo mettermi allo stesso livello del lettore invece di pretendere di sapere tutto e farlo sentire inferiore. Inoltre voglio portarlo con me nel mio viaggio verso la consapevolezza e conoscenza delle cose. E a volte abbandono gli argomenti da una parte, li dimentico per un po’ perché sono davvero pesanti da affrontare. Credo di rendere il libro più invitante per le persone, fa parte anche questo dell’aiutare il lettore a capire l’acidificazione degli oceani. Il termine non esisteva nel 2000, per questo lo paragono ad altre parole che non usavamo nel passato, che nemmeno esistevano, ma che adesso sono nella nostra quotidianità: questo ci aiuta a comprendere come siamo ancorati al linguaggio e al suo modo di farci conoscere il mondo. E dicendo che noi non capiamo le parole, intendo dire che spero che le persone le potranno capire, invitandole a porvi attenzione e a rifletterci. Non posso intensificare le parole come si possono aumentare i numeri: lo posso fare solo attraverso la poesia, le nonne e la mitologia.

 

GF – La politica mondiale si confronta molto spesso con gli scienziati, i quali per la maggior parte delineano un quadro del futuro del pianeta e della popolazione umana tutt’altro che roseo. Anzi, in molti casi, come spiega nel libro, si stanno già realizzando alcune tra le peggiori previsioni scientifiche. Eppure i governi sono incapaci di agire. Ritiene realistico risollevare le sorti del clima attraverso l’azione dei singoli cittadini? E quali sono i principali modo con cui individualmente possiamo agire per un futuro migliore?

ASM – Questa è una questione che necessita una grande leadership e un lavoro collettivo tra i governi delle nazioni. I Paesi devono crescere ma devono farlo in maniera più verde rispetto al modo in cui l’hanno fatto nel ventesimo secolo. Il problema dello strato di ozono non è stato risolto da un gruppo di consumatori consapevoli che hanno fatto acquisti “ozon friendly”. Abbiamo visto durante la crisi legata al Coronavirus che nonostante abbiamo vissuto la nostra vita in quarantena a fare quasi niente, ancora il nostro impatto ambientale era all’80% della sua potenza. Per cui la sfida è molto ancorata alle infrastrutture del nostro vivere. Per questo gli individui devono capire, ascoltare la scienza e discuterla, votare correttamente, cambiare alcune cose, abolirne altre. Solo allora la scelta individuale avrà un peso sostanziale. Scelta che va nella direzione di riutilizzare, riciclare, mangiare meno carne, usare il trasporto pubblico eccetera.

 

GF – Le conseguenze di questa situazione globale si ripercuotono a più livelli del vivere. L’aspetto più ignorato è forse quello personale psicologico ed emotivo: pochi sanno che esiste una “sofferenza ecologica” causata proprio dal mancato rispetto dei limiti ecologici del pianeta. Lei come vede le conseguenze dell’emergenza climatica sulla sfera emotiva del singolo?

ASM – In Islanda siamo stati in guerra contro la natura per almeno dieci anni: una decade di ingordigia che ha messo in scacco quasi tutti i fiumi islandesi e ogni singola area geotermale, una natura minacciata da dei megaprogetti per la realizzazione di tre o quattro fonderie di alluminio. Molti dei più bei paesaggi islandesi erano a rischio e questo ha avuto ripercussioni sulle persone che se ne sono sempre occupate. Ricordo un’intervista al direttore del Museo Nazionale Iracheno, saccheggiato e in parte distrutto durante la guerra, che spiegava come loro stessi si sentissero saccheggiati e fatti a pezzi. La sensazione è quella di una guerra. Io stesso ho potuto sperimentare gli effetti di questa guerra alla natura islandese: il mio cuore ne ha risentito perché il mio battito cardiaco s’è fatto irregolare per anni e ho avuto qualcosa di simile al burnout. Che è anche uno dei motivi per cui non ero così sicuro di voler o poter scrivere questo libro: preoccuparsi delle sorti della terra d’Islanda era uno conto, ma preoccuparsi per il mondo intero… a che livelli di esaurimento mi avrebbe portato? È una lotta che consuma, è feroce persino in una piccola nazione. Ho sentito di scienziati che sono finiti in burnout a causa dello stress emotivo, sostanzialmente anche perché si sentono i Cassandra della situazione: vedono e sanno quello che sta succedendo ma si sentono impotenti, incapaci di comunicare le loro scoperte e conoscenze agli esponenti politici e al grande pubblico. Nonostante questo però penso che il vero problema non siano l’ansia e lo stress, ma la velocità con cui noi tutti ci stiamo abituando alla questione, vedendola sempre più come una cosa “normale”. Dopo mesi di Coronavirus sembra quasi che la vita sia così e basta, che non ci si possa fare niente. Dopo due anni di incendi devastanti in California, Siberia, Australia e Portogallo, sono diventati la norma e quasi non fanno più notizia.

 

GF – Molto spesso chi scrive di questi temi si sente in dovere di rassicurare i lettori rispetto al quadro fosco che viene delineato. Anche lei nel suo libro sottolinea di non voler sembrare disfattista. Perché secondo lei la paura non può essere lo strumento adatto al cambiamento?

ASM – Se guardiamo alle statistiche, dovremmo avere paura di quello che potrebbe succedere se non facessimo nulla. La questione è così seria che sarebbe da irresponsabili se queste informazioni non causassero paura, preoccupazione e ansietà. E se ci fai caso, quando le nostre ideologie e sistemi sono testardi, allora c’è un buon motivo per essere pessimisti. D’altro canto la pura paura porta poco giovamento. Notando un pericolo si può agire anche in maniera professionale, come un vigile del fuoco o un paramedico e con una generazione che cresce con la scienza climatica presa come un dato di fatto, sempre che si faccia uno scambio in termini culturali e tecnici con quella generazione, potremmo davvero cominciare a vedere un vero progresso. Questa generazione vedrà uno scopo più alto in tutte le cose che deciderà di fare perché ci sono molte cose che devono essere cambiate e non è essenzialmente negativo essere una generazione che cambia tutto.

 

Giorgia Favero

 

[Photo credit di Anton Smári fornita da Andri Snaer Magnason]

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Unconscious bias, ovvero quando la discriminazione è inconscia

Il 2 gennaio 2018 in Islanda è entrata in vigore la legge sulla parità di salario tra uomini e donne. La legge, che era stata approvata nel 2017, impone ai datori di lavoro di assicurare condizioni eque, incluse quelle retributive, a parità di incarichi e qualifiche1. Al di là dell’ovvia importanza della legge, decisamente all’avanguardia rispetto al resto del mondo, vale la pena di sottolineare un altro elemento interessante su cui la legge fa luce. Obbligando i datori di lavoro a fare particolare attenzione ad una parità a trecentosessanta gradi, si porta in primo piano quella che potremmo definire “discriminazione di genere involontaria”, ovvero inconscia. Sotto la categoria di discriminazione inconscia si possono raggruppare tutti quegli atteggiamenti che, essendo profondamente radicati nelle nostre abitudini, riteniamo normali ma che in realtà hanno un’origine discriminatoria. Su queste attitudini mentali, che ci accompagnano nella vita di tutti i giorni, spesso basiamo i nostri comportamenti e formiamo le nostre percezioni, soprattutto senza rendercene conto.

Per discutere della discriminazione di genere involontaria, dobbiamo prima di tutto escludere la discriminazione volontaria. Immaginiamo un gruppo di riferimento costituito da uomini e donne convinti della necessità di avere eguaglianza di genere non solo a parole, ma anche nei fatti. In sostanza, immaginiamo che la discriminazione volontaria, ovvero quella frutto di una decisione attiva di discriminare un genere, non esista.

Il luogo più banale da cui partire per un esempio di discriminazione inconscia è la casa. All’interno del gruppo di riferimento, siamo sicuramente tutti d’accordo che il mantenimento della casa è responsabilità di ciascuno dei componenti del nucleo familiare – così è stabilito anche dalla legge2. Si potrebbe dunque pensare che la questione si risolva facilmente accordando una divisione equa dei compiti domestici. Ma è realmente così che si raggiunge una vera parità? La risposta ce la fornisce il concetto di carico mentale, elaborato in fumetto dalla blogger francese Emma3. Con i suoi disegni, Emma spiega perché condividere le faccende domestiche non è sufficiente. Alla divisione dei compiti domestici si arriva grazie ad un lavoro mentale e organizzativo pregresso: facendo il punto della situazione su cosa c’è da fare, la donna si prende carico più o meno inconsciamente della responsabilità dell’organizzazione del lavoro attorno nucleo familiare. Al contrario, è proprio il senso di responsabilità, in primis, che va diviso equamente. Ne segue che l’idea stessa che un compagno/marito “aiuti” in casa è discriminatoria, perché implica una mancanza di responsabilità da parte dell’uomo nei confronti del lavoro domestico, a cui contribuisce, invece, aiutando il responsabile di quel lavoro (la donna).

Non c’è da meravigliarsi se una tale struttura mentale venga involontariamente trasferita anche in altri campi, come quello lavorativo. Per facilitare la comprensione, ricorriamo alle statistiche, che ci dicono che nonostante le ragazze tendano ad essere più brave nello studio, i vertici delle società rimangono per la maggioranza ricoperti da uomini. Un tale controsenso indica che c’è qualcosa che storpia il processo di crescita professionale e che non viene raccolto come dato obiettivo dalle statistiche. Il carico mentale domestico può avere un certo peso nel limitare lo sviluppo della carriera, per il semplice motivo che il tempo dedicato, per esempio, alla casa, è tempo che non può essere occupato per qualsiasi tipo di arricchimento personale. Più subdolo della disparità salariale e di una mancata promozione, c’è l’atteggiamento di chi (uomo o donna) più o meno inconsciamente respinge opinioni e idee di colleghe senza una ragione obiettiva: un concetto ha una forza comunicativa maggiore quando presentato da un uomo rispetto ad una donna. Secondo Robin Lakoff (1973)4 è una complessa questione di sintassi, registro e vocabolario. Di conseguenza, se un lavoratore uomo può facilmente trasmettere le sue idee, una lavoratrice dovrà, per esempio, ripetere lo stesso concetto due, tre, quattro volte, essere sicura di essere stata ascoltata, e non solo sentita, fare attenzione che non venga snobbata senza giustificazioni plausibili e accertarsi che, una volta accettato, le venga riconosciuto il merito. Questi atteggiamenti inconsci diventano poi percezioni distorte della realtà, che giustificano salari minori e qualifiche inferiori. Anche in ambito lavorativo, come in quello domestico, le donne si trovano a svolgere due lavori: il lavoro per cui si è assunte, ed un lavoro parallelo ed invisibile, fatto di gomiti alti, occhi aperti e orecchie vigili. Un lavoro necessario non tanto per farsi notare, quanto per assicurarsi di non farsi scavalcare.

La discriminazione di genere non solo esiste, ma ha anche due facce: un conscia ed una inconscia. E per liberarsi di quella inconscia, la strada è ancora più lunga e tortuosa. Ricordiamocelo tutti e tutte il prossimo otto marzo, e come suggerisce il The Guardian, «non essere “femminista” solo a parole o nei tuoi post su Facebook, dimostralo nella vita quotidiana»5.

 

Francesca Capano

 

NOTE
1. Islanda: la parità di salario tra uomo e donna è legge, 2 gennaio 2018.
2. Art. 24, Legge del 19 maggio 1975, n. 151.
3. Ma cara, perché non me lo hai chiesto?, 24 maggio 2017.
4. R. Lakoff, Language and Women’s Place, Cambridge University Press, 1973. Disponibile a questo link.
5. Men, you want to treat women better? Here’s a list to start with, The Guardian, 16 ottobre 2017.

 

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