Psicoterapia e saggezza popolare: lascia che ti racconti di Jorge Bucay

Storie per imparare a vivere è il sottotitolo di questo singolare volume di psicologia scritto dallo psicoterapeuta argentino Jorge Bucay e pubblicato nel lontano 1994. Didascalia quanto mai azzeccata: Bucay, con estrema semplicità espressiva, vuol suggerire al lettore quale potrebbe essere, di situazione in situazione, la maniera migliore di affrontare la nostra esistenza e tutte le sue innumerevoli problematiche. Insicurezza, ansia, invidia, confusione, paura, rabbia… stati d’animo con i quali tutti noi abbiamo a che fare. C’è chi riesce a combattere questi mostri senza ricorrere a un sostegno esterno, e chi invece necessita di un aiuto psicoterapico.

È il caso di Demián, paziente immaginario creato dalla mente di Bucay che si reca nello studio del “Gordo” (ciccione in spagnolo) lamentando di avere difficoltà relazionali. Egli non cerca uno psicanalista convenzionale e viene accontentato: il Gordo sembra menefreghista, supponente, scortese addirittura. Demián è destabilizzato e anche un po’ arrabbiato, ma il Gordo riesce a catturare la sua attenzione.
Nell’immaginario collettivo le sedute psicoanalitiche sono spesso considerate un’esperienza noiosa, lunga, faticosa. Un duro travaglio che, alla fine del percorso, dovrebbe portare a partorire una verità che corrisponde alla guarigione.

Ma il Gordo afferma che «non c’è nulla di utile che possa essere ottenuto con lo sforzo». Affermazione certamente azzardata nonché discutibile, alla quale Demián non riesce a dare credito.
Eppure, seduta dopo seduta, Demián continua a frequentare questo bizzarro terapista che utilizza un linguaggio concreto, ricorrendo a immagini ed esempi per dare «una chiara rappresentazione simbolica» delle cose. Niente teorie astratte né deduzioni psicoanalitiche valide, al massimo, solo per gli addetti ai lavori. È invece a una saggezza popolare, che il Gordo si appella: parabole, proverbi, favole di oggi e di ieri, racconti provenienti un po’ da tutto il mondo che fanno sorridere e che – soprattutto – hanno il potere di far scattare qualcosa: la molla della consapevolezza.

C’è per esempio la storiella dell’uomo che credeva di essere morto1: una persona apprensiva, ipocondriaca e ossessionata dalla morte, che viene rassicurata dalla moglie la quale gli dice che fino a che le sue mani e i suoi piedi saranno tiepidi, quella sarà la prova che la vita scorre in lui. Ma un giorno d’inverno, tagliando la legna in mezzo alla neve, l’uomo si rende conto che i suoi arti sono completamente gelati – dunque si convince d’essere deceduto. E così, in preda ad una mortifera rassegnazione, se ne resta immobile quando un branco di cani famelici e aggressivi giunge fino a lui e lo divora. La morale, naturalmente, è che non bisogna darsi per vinti prima di essere effettivamente vinti.

Demián, come tanti di noi, soffre anche di un’insaziabile ansia che non si placa mai, anzi viene alimentata dall’assenza di problemi: «ogni volta che non vedo grosse complicazioni all’orizzonte, comincio a cercare che cosa manca a questo o a quello per essere perfetto». Il Gordo, citando Erich Fromm, gli spiega che questo è un problema della nostra società contemporanea, che punta tutto sull’avere e non sull’essere. Pensiamo che se potessimo avere ciò che non possediamo, conosceremmo la vera felicità. Ma “ciò che non possediamo” è qualcosa che non solo non si può identificare, ma che addirittura non esiste: un impossibile. È una storiella, naturalmente, a esplicare meglio il concetto: quella di Diogene2 che viveva ad Atene come un senzatetto, vestito di logori stracci. Un uomo ricco e generoso volle regalargli una borsa piena di monete, ma Diogene rifiutò. Egli aveva già una moneta che gli sarebbe bastata per comprarsi da mangiare per quel giorno. Diogene, non avendo la sicurezza che sarebbe vissuto fino all’indomani, rimase concentrato sull’adesso.
Anche senza tirare in ballo la morte, vale la pena chiedersi: chi può sapere che cosa potrebbe capitarci domani? E perché, quindi, preoccuparsene troppo?

Anche il percorso psicoterapico del Gordo si concentra sul presente: non sul passato, alla ricerca dei “perché” o delle origini di un trauma come fa la psicoanalisi ortodossa, né sul futuro come fa il comportamentismo, che tenta di far arrivare il paziente agli scopi che si è prefissato. L’alter ego letterario di Bucay vuole comprendere «cosa stia succedendo alla persona in terapia e perché si trovi in tale situazione». Una terapia unica che viene costruita intorno ad un rapporto unico, tra due persone uniche: Demián e il Gordo.
Bucay saluta il lettore ricordandogli che le “sue” favole sono solo delle indicazioni: sta a lui cercare un diamante nascosto – o meglio, un significato – all’interno di esse.

 

Francesca Plesnizer

 

NOTE
1. Qui Bucay dà una sua interpretazione di un racconto tradizionale russo.
2. La fonte, lo indica lo stesso Bucay, viene da dei racconti tradizionali greci.

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Ma che te posti.

Saranno ancora i residui del paracetamolo, ma stamattina mi sono svegliata con in mente una serie di parole in rima che manco Valerio Scanu nei suoi momenti apicali di creatività: moglie, doglie, figli, voglie, bottiglie.

Moglie. Vero è che non è bello ciò che è bello ma è bello ciò che piace.
Però. Però. Però. Se ve la siete sposati voi e non noi un motivo ci sarà. E non è sempre perché siamo arrivati tardi noi.
C’è una categoria di donne orripilanti le cui foto sono accompagnate sui social da frasi del tipo “che splendida mogliettina“, o ciò che è lo stesso “che maritino fortunato”. Poi c’è un’altra categoria. Quelli che hanno le mogli effettivamente fighe. Ma comunque non si regolano. Perché come a mare ci sarà sempre chi avrà la barca più grande della tua (che poesia eh?), così, per quanto tua moglie sia bella, arriverà sempre una foto di Belen struccata a prima mattina con i capelli arruffati e la bolla al naso che con il suo milione di like spazzerà in un “ Vuongiorno a tutti amiccci miei, ve amo” i 57 like accumulati con tanta dedizione ed attenzione dal vostro splendido maritino che avrà postato una foto  di “mia moglie a colazione” spacciata per naturale ma che nella realtà avrà avuto un backstage, trucco, parrucco, mix luci da calediario Pirelli. Alcuni poi giocano sull’ironia. Un’ironia da cui non ci vuole un corso avanzato di psicoterapia comportamentale post-razionalista per capire che è solo un modo per ostentare un trofeo, nascondendosi dietro battute o foto con il finto intento di essere buffe. Perché mia moglie è talmente bella che sulla sua bellezza ci gioca.

Doglie. Maronna mia. Mannaggia a Carla Bruni, a Belen e a tutte le gravide che hanno avuto la brillante idea di farsi ritrarre con il pancione senza immaginare dove saremmo andati a finire. E qui ritorniamo nel non è bello ciò che è bello ma è bello ciò che piace. E quindi mi ritrovo stretta tra il dirvi che così come non è vero che tutti i neonati sono belli, così non tutte le donne gravide sono belle. E quelle belle sono comunque  lontane anni luce dall’essere top model anni 90. E poi, ma porca miseria, è di un embrione/ feto che state parlando, non di una tazza di Starbucks.

Figli. Figli geni, figli che a 3 mesi già parlano tre lingue, figli che a 6 mesi si travestono da Frozen da soli e che da soli si fanno selfie perfetti che postano in contemporanea su facebook, twitter, instagram, figli che quando avranno 18 anni chiederanno, spero, dei risarcimenti consistenti per violazione della privacy.

Voglie. Ecco, questa è la categoria in cui rientrano i contatti che o ho cancellato definitivamente oppure ho zittito con quella nuova fantastica funzione del “taci”. Le frasi sono “Ho voglia di gelato”, “Che voglia di sushi”, “Ho proprio voglia di una bella lasagna”, il tutto immerso in faccine, cuoricini, trionfo di vocali, oooo, aaaa, iiiii, dittonghi. Sull‘ “Ho voglia di te” , che pure insiste, persiste e lotta con noi, non vorrei soffermarmi. Ma volevo comunicarvi soltanto che c’è gente che lo scrive ancora.

E infine: bottiglie. Bottiglie di vino da 2 euro fotografate con la stessa attenzione con cui è stata creata l’ultima campagna della Moet et Chandon. O Moet et Chandon con frasi del tipo “Noi ci trattiamo bene”. Ma che davero davero pensate che un flute, magari vuoto, possa creare invidia? E se lo pensate, la psicoanalisi costa 80 euro per 45 minuti, 120 per 90. Provatela.

Aggiungerei poi una categoria fuori concorso. Quella delle ricorrenze possibilmente tristi.
Soprassedendo sulla moria di cantanti del 2015, l’ultima triste ricorrenza celebrata sui social è stata la giornata della memoria. Ho letto degli status che a confronto il canale monotematico di Sky che trasmetteva solo film riguardanti l’Olocausto era una operazione puramente filantropica. E su questo il mio onnipresente sarcasmo lascia spazio ad un sincero fastidio. Se non sapete di cosa state parlando, non ne parlate. Se dovete scrivere “Ricordate e riflettete” pubblicando “Life is beautiful” di Noa perché è una cosa che deve essere fatta, non fatelo. E non perché non ci debba essere sempre e comunque libertà di parola. Ma perché siete falsi. Spesso anche ridicoli. E perché chi, per un motivo o per un altro sa perfettamente di cosa si sta parlando, non si sente “ricordato” da voi. Ma si sente intristito da quanta superficialità e quanto per un like in più ci si possa mettere a scrivere cose di cui non si sa nulla. Che in questo caso, sono pezzi di vita, di morte, di sopravvivenza.

Meditate gente, meditate. (Ma non ci postate la vostra foto nella posizione del loto, vi crediamo sulla fiducia).

Con Facebook si scherza, ma anche no. E’ quello che volete far vedere di essere. E’ quello che sperate di essere. Ma non è quello che siete. O almeno, lo spero per voi.

Siete delle persone. Normali. Anormali. Ordinarie. Straodinarie. Ma non siete perfetti. Godetevi le vostre imperfezioni. Non photoshoppate la vostra vita. E soprattutto godetevi la vostra vita. Non il vostro tablet.

Quanti pochi like avrà questo post. Perché la verità infastidisce.

Donatella Di Lieto

[Le opinioni espresse sono a carattere strettamente personale/ Views are my own]

[Immagini tratte da Google Immagini]

 

L’invidia, serpe insidiosa

Sentimento diffuso che genera astio e rabbia nei confronti dell’Altro, l’invidia da sempre è quello stato d’animo di risentimento nei confronti della felicità altrui.

Una gabbia che l’Uomo si crea da sempre in cui far crescere il rammarico e la frustrazione.

Aristotele nella Retorica parla dell’invidia come

un dolore causato da una buona fortuna…che appare presso persone simili a noi,

dunque, anche per il filosofo, questo sentimento altro non è se non rabbia per qualcosa che desideriamo e non riusciamo a raggiungere, a differenza di un Altro che si appropria del nostro desiderio con facilità.

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