L’Italia è un’invenzione

All’anagrafe: Italia, anni centocinquantasei, faticosamente impastata lungo il tortuoso Ottocento, incastonata tra moti, cospirazioni e un “Quarantotto” sulle spalle; n° di spedizioni con mille uomini: una, n° di re: quattro in rima alternata Vittorio Emanuele – Umberto – Vittorio Emanuele – Umberto, di cui uno morto per febbre, uno ucciso, uno abdicato, uno esiliato per cessazione di attività monarchica su suolo patrio; perdite: «due guerre mondiali, un impero coloniale, otto campionati mondiali di calcio consecutivi» (cit. rag. Ugo Fantozzi). Prima repubblica “era tutto un magna magna”, seconda repubblica “è tutto un magna magna”, la terza ancora deve nascere ma non parte molto avvantaggiata.

Amata dai turisti che cantano O’ sole mio a Venezia, odiata dagli autoctoni solo in occasioni precise che non devono coincidere con le partite della nazionale di calcio, rugby, pallanuoto, bocce, freccette, pesca, con le manifestazioni di orgoglio etnico e di presunta supremazia sulle altrui culture, in pratica odiata solo durante il suo compleanno, durante il compleanno del suo vessillo tricolorato e sporadicamente quando qualcuno o qualcosa pretende la propria indipendenza.

“Si stava meglio sotto il doge” ha la stessa valenza di “Si stava meglio sotto Vespasiano”, in entrambi i casi alzi la mano chi se lo ricorda: nessuno? Ma proprio nessuno? Addio al record di persona più longeva in assoluto, mi avete illuso.

Cos’è l’Italia, cosa sono gli italiani? Le divisioni ci sono, le mentalità sono diverse e possono cambiare da Bolzano a Siracusa (millecinquecento km, n.d.r.), cambiano le storie, le origini di ogni piccola landa. Paese di campanili, campanilismi, campanari – fra’ Martino spostati che ci siamo noi –, non è solo una questione nord-sud, non è solo Milano contro Napoli, ma Pisa contro Livorno, Legnano contro Busto Arsizio, persino le diverse contrade di una stessa città come Siena possono ritrovarsi goliardicamente o meno l’una contro l’altra. Gli italiani mal sopportano il proprio vicino di casa, che sia dirimpettaio, confinante o condomino, poco importa: è genetico, è storico.
Cambiando l’ordine di frazionamento in unità più piccole, la filosofia di base non cambia.

“L’Italia è un’invenzione, una semplice espressione geografica, un artefatto di pochi (cit. diverse persone che oggi sono storici di professione, domani saranno allenatori, o burocrati, o esperti in medicina, o nutrizionisti o costituzionalisti… dei jolly insomma), cosa c’è di vero nel disincanto delle nostre radici? Potremmo parlare per ore della lunga e travagliata vita che ha attraversato i secoli a cavallo della nostra penisola, un intreccio di civiltà mescolate più volte con ingredienti giunti da lontano, ma la parola nazione intesa con il significato odierno, la troviamo solo dopo l’assolutismo, ed è un fatto europeo, non unicamente italiano.

Le nazioni sono state inventate? Certamente, l’Italia è un’invenzione, così come la Francia, la Germania, la Spagna, la Catalogna, il Regno delle Due Sicilie, la Repubblica di Venezia; sono invenzioni anche i nomi delle città, sono invenzioni le tradizioni, i culti, gli idiomi, i proverbi, i riti, le liturgie. Tralasciando l’ambiente, le conformazioni geologiche e per certi versi il clima, è difficile non inciampare in qualcosa inventato dall’uomo con lo scopo di legittimare la propria appartenenza al mondo o cementare i legami con altri uomini: animali sociali ma poco socievoli.
Verrebbe da dire che ci associamo con lo scopo di detestarci e tutto volgerebbe nel pessimismo fatalista – artificiale anch’esso – che poniamo sopra di noi in un conglomerato astratto manovratore dei nostri destini.

Posso dire di aver visto l’Italia da lontano, storicamente e geograficamente.
Esisteva in un sogno nato tra i giovanissimi dopo aver letto la Divina Commedia oppure I promessi sposi, dopo aver ascoltato il Nabucco con il famoso Va, pensiero, opere capaci di accrescere, attraverso i complessi meccanismi della suggestione, il sentimento che diede vita al Risorgimento.
Dall’altra parte del mondo ho capito che l’Italia, con tutte le sue differenze, sembrava molto casa mia. Cambiare città come cambiare stanza, in ogni luogo facce amiche, una lingua alla base che sfuma in accenti e dialetti da ascoltare lentamente per comprenderli più facilmente.

Non è poi così male questa invenzione piena di difetti, con una Storia certamente da rivedere, con pagine ancora bianche o cancellate, contraddizioni a non finire, con un popolo che se spendesse meno energie per la pigrizia culturale, per la troppa rivalità malata figlia più del pregiudizio che dell’esperienza, avrebbe di che vantarsi entro i suoi confini.

Alessandro Basso

Convinzioni adolescenziali. Storia di un moto rettilineo uniforme

Egon Schiele fu solo uno fra i tanti che cercava, lui a colpi di pennello, di fissare nella tela un attore sociale ancora libero da qualsiasi compagnia teatrale: il giovane, colui che non è un infante ma nemmeno un adulto. Per farlo, il pittore austriaco si servì di contorni sfumati, colori contrastanti e volti androgini segnati da turbamenti esistenziali tanto estremi quanto ingenui. Una volta intrappolato in dei confini, si passò alla catalogazione: un metodo utile per riordinare gli scaffali dell’ordine mondiale. Sezione? Psicologia genetica. Autore? Stanley Hall, uno psicologo americano che nel 1898 coniava il termine “adolescens” per descrivere i giovani tra i 14 e i 24 anni.1 Improvvisamente un nemico interno, sconosciuto e formato da sessuomani psicotici si vide trasformato in una massa pronta da sfruttare o mandare al macello per mano di padri frustrati per la propria inettitudine. Tutt’altro che un’invenzione quella degli adolescenti, ma un piano accurato di sicurezza interna e riorganizzazione del corpo della nazione che proveniva da lontano.2  

Una delle possibili radici di questo, quanto mai forzato, piano inclinato venne scoperta nel 1835 da sprezzanti giuristi e famelici psichiatri nel comune di Aunay, in Normandia. Qui un giovane contadino (doppio grado di subalternità), Pierre Rivière, era stato condannato alla pena di morte per aver sgozzato sua madre, sua sorella e suo fratello. In questo micro-contesto dove l’alto (gli studiosi) venne morbosamente ad invadere il basso (il villaggio) in cerca dell’indicibile, Pierre Rivière venne assunto come caso studio.

Ancora una volta la scienza si appropria indebitamente di una personalità fluttuante, fissandola scrupolosamente in una nota a piè di pagina.

Inoltre, poiché considerato un contadino bifolco, Pierre Rivieré verrà riposto ai margini velocemente dopo un’insperata popolarità che molte volte la cronaca nera trascina con sé. Ad interessare non è tanto la persona, quanto sono le sue azioni, le sue pulsioni e il suo aspetto, tutti elementi plasmati a piacimento secondo le diverse logiche che caratterizzano narrazioni pronunciate da svariati attori. Vi è il giurista che descrive Pierre Rivière come una persona malvagia e capace di commettere qualsiasi crimine a causa di una educazione ricevuta ritenuta non adeguata. Vi è il medico con la sua onnipotenza professionale che bolla il giovane come un alienato mentale in base a principi ereditari e comportamentali, i quali a loro volta si basano su aneddoti raccontati dalle persone del villaggio; ma questo non ditelo agli studiosi, ne va della loro presunta imparzialità. Vi sono infine, per l’appunto, i testimoni incalzati da domande che portano in serbo risposte già previste. Ecco allora fuoriuscire dal ventre della Normandia racconti di episodi che certificano come il giovane fosse destinato fin dall’infanzia a commettere un tale esecrabile delitto.

Pierre Rivière e l’adolescente di Stanley Hall sono segni rivelatori di una tendenza di stampo paternalistico volta ad assicurarsi ripetutamente il controllo delle loro creazioni, i figli. Entrambi i tentativi si basano su discorsi, quello medico-sociale e quello giuridico, volti a prevenire e a bloccare pulsioni capaci di scardinare gerarchie solitamente basate su quante rughe segnino il volto. In ogni caso per quanto queste due storie possano offrire diversi parallelismi o addirittura una delle tendenze di fondo che portarono alla periodizzazione “adolescente”, state in guardia a non fare come lo psicologo, il medico o il giurista. Ciò che ricerchiamo paradossalmente potrebbe non esistere. Ciò che crediamo è plausibile che non sia mai avvenuto. Teniamoci le nostre convinzioni a patto di essere consapevoli che sono solo un frammento della Verità. Non livelliamo sempre per togliere le increspature, uniche tracce di vitalità intellettuale.

Marco Donadon

NOTE:
1. Se il termine venne coniato nel 1998, “Adolescens” sarà utilizzato da Stanley Hall come titolo del volume che verrà pubblicato nel 1904.
2. Riprendendo le tesi del volume L’invenzione dei giovani del giornalista Jon Savage. Per arrivare al termine “adolescente” ci son voluti fior fiore di articoli e dibattiti scientifici.

BIBLIOGRAFIA:
Io, Pierre Rivière avendo sgozzato mia madre, mia sorella e mio fratello … . Un caso di parricidio nel XIX secolo, a cura di Michel Foucault, Einaudi, Torino 2007.
– Savage Jon, L’invenzione dei giovani, Feltrinelli, Milano 2012.

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C’era una volta…

Tutti cresciamo leggendo fiabe e favole o guardando le stesse in televisione.

Da bambini però è difficile capire l’enorme valore che esse celano dietro quegli strani personaggi che ci fanno così ridere e sognare; un valore che deriva da un significato profondo e da un messaggio che le favole e le fiabe vogliono trasmetterci.

Vi è mai capitato di osservare un bambino che guarda una fiaba in televisione o ascolta il genitore mentre gliela racconta? Che emozioni trasmettono i suoi occhi?

Meraviglia, stupore, sorpresa.

Eppure queste emozioni non nascono per caso, ma sono insite nell’essere umano da quando nasce per il bisogno di trovare il senso della sua vita, del mondo, per comprendere la realtà, per conoscerla e capirla.

Sono esigenze che necessitano di risposte e che i bambini trovano nei mondi incantati delle fiabe. Noi adulti, sempre pensando di sapere tutto, sorridiamo e proviamo tenerezza nel vedere l’attenzione incredibile con cui i piccoli guardano o ascoltano le fiabe, senza renderci conto che il loro inconscio sta assimilando esperienza di vita, principi etici e morali, educazione civica, consapevolezza e che tante di queste cose faranno parte della loro esistenza senza che nessuno se ne renda mai conto.

Le fiabe e le favole insegnano e il bambino è il migliore allievo che possano trovare, perché? Perché lui è curioso, ha voglia e necessità di conoscere, scoprire, rispondere ai più grandi interrogativi della vita, ad esempio “come sono nato?”, “dove è andata la nonna?”, “perché la mamma è diversa dal papà” ecc ma cerca risposte anche per gli interrogativi che, a nostro avviso, sembrano più banali, come “perché la Luna è gialla?”, “perché il Sole scotta?” e così via.

La fiaba e la favola permettono loro di riflettere senza snaturare la loro essenza pura e fantasiosa, mettendoli di fronte a situazioni che li inducono a pensare, ad escogitare le loro personalissime soluzioni. Con i racconti fantastici i bambini scoprono la morte, la ricchezza e la povertà, ciò che è buono e ciò che è cattivo, l’uguaglianza, la carità e la condivisione, tutti valori etico-morali che un ragazzino può ben apprendere se spiegati e raccontati in maniera fantastica perché vicina al loro modo di vedere la realtà. Tutti questi input si palesano nell’interiorità del fanciullo come conflitti (“lui è il buono, perché non lo capiscono?”, “perché il signore ha sparato all’orsetto?”, “perché il lupo ha mangiato la nonna?”) che poi cercano risposta nella sua mente e negli adulti che hanno accanto.

I libri di favole possono considerarsi i primi libri di Filosofia che un bambino può incontrare nella sua vita perché racchiudono tutte le questioni principali della nostra esistenza; ciò avveniva nel passato con le favole di Esopo e continua ad avvenire con le fiabe di Walt Disney. Basti pensare alla Cicala ed alla formica che insegna il bisogno di “guardare più in là del proprio naso”, o a Biancaneve e alla pochezza dell’esteriorità, a Pinocchio e al non dire le bugie, a Cappuccetto Rosso e al non fidarsi degli sconosciuti.

Ogni fiaba ed ogni favola racchiudono una morale, un insegnamento che attraversa il corpo fisico del bambino per arrivare a toccare le corde più profonde, smuovendo in lui un universo di emozioni e di consapevolezze; certo, un processo che è difficile che un bambino faccia da solo, ecco perché sono sempre necessari anche un dialogo ed un confronto costruttivi con gli adulti a lui vicino che lo aiutino a ragionare sul significato intrinseco di ciò che hanno letto o visto.

Questo processo mentale di acquisizione inconscia e rielaborazione logico-astratta di informazioni da parte dei bambini può considerarsi un “fare filosofia” , sicuramente grezzo, perché ancora non pienamente consapevole, ma comunque un “fare filosofia”.

Ecco che allora è necessario immergere da subito i nostri piccoli nel mondo fantastico delle fiabe, per fare loro il regalo più bello, quello del comprendere il mondo per comprendere se stessi e non viceversa: più si capisce il mondo attorno a noi, con le sue differenze, i suoi pregi e i suoi difetti, più si ha una visione di se stessi ridimensionata, come parte del tutto così come tutti gli Altri.

Valeria Genova

[Immagini tratte da Google Immagini]