Amici che ti rubano l’anima. Perché i tuoi dati non sono (soltanto) tuoi

Una delle più grandi zone d’ombra dei nostri info-tempi è il cosiddetto profiling, generalmente accolto con diffidenza: ci starebbero rubando i dati, o li staremmo cedendo inconsapevolmente a chi ne farà un uso strumentale alle nostre spalle. Poiché noi siamo i nostri dati, questo metterebbe a repentaglio la nostra identità1.

Finché ci “profilano” le persone più care, va bene: un amico è tale anche perché conosce i nostri gusti persino meglio di noi e li sa usare per farci bei regali. Ma quando ci profilano (senza virgolette) anonimi algoritmi controllati da anonimi manager che rivendono dati ad anonimi pubblicitari, non va altrettanto bene: ci sentiamo spiati, come se uno psicologo segretamente scrutasse ogni nostro comportamento per studiarci. E approfittarsene: hai scordato di ricaricare la carta prepagata e il pagamento della bolletta della luce non è andato a buon fine; questo dato arriva alla tua banca, che aggiorna in negativo il tuo “diario da pagatore” e aumenta gli interessi dei tuoi futuri prestiti. Brutta storia. Per fortuna, però, stanno arrivando anche le prime contro-difese, come il GDPR della UE, che ha sancito l’innovativo principio per cui i dati sono inestricabilmente legati alla “fonte” che li emette: la persona.

Ma le cose non sono così lineari: davvero i nostri dati sono nostri e basta? Per capire una simile domanda, bisogna usare un po’ di filosofia e chiedersi che cosa sia l’informazione. Tra i diversi modi di definirla2, la concezione forse più promettente è quella diaforica, per la quale l’informazione è fatta di dati, intesi come unità differenziali, «punti di mancanza di uniformità»3. L’esempio più semplice di dato è un punto disegnato su un foglio: si dà una differenza tra sfondo e primo piano, un’“asimmetria” che sorprende, segnala qualcosa di interessante e si presta così a “fare notizia”, cioè a entrare a far parte di un qualche processo di interpretazione (umano, ma non necessariamente).

Oltre a poter rivelare – anche senza volerlo – la “freschezza” di concetti della tradizione filosofica in genere ritenuti particolarmente astrusi4, tale prospettiva consente di riflettere su questo: i dati così intesi in un certo senso non sono di nessuno, perché sono tanto della “fonte” quanto del “ricevente”. I dati-differenza stanno potenzialmente ovunque, si nascondono là dove si inizia a riconoscere una potenziale fonte informativa: se un giorno comincio a osservare tutte le persone che incontro in città e conto quante volte si toccano il naso con la mano destra, lì sto raccogliendo dati (chissà per farne cosa). Quei dati di chi sono? In un certo senso, li ho trovati o persino creati io; in un altro senso, li sto “carpendo” ai loro legittimi proprietari, senza il loro consenso. Sono insieme miei e non miei!

Da una parte, parrebbe strano fermare quelle persone per chiedere il permesso di osservarle e informarsi su di loro: osservare è parte della normale prassi nelle nostre interazioni quotidiane, in forme certamente varie, che comprendono – per intenderci – tanto il marketing quanto la ricerca scientifica5. Da un’altra parte, ciò diventerebbe meno strano se quei dati intendessimo “estrarli” per sfruttarli: non è dunque così sorprendente che in alcuni contesti culturali ci sia la convinzione che scattare una fotografia a qualcuno significhi rubargli l’anima! Poiché il dato è intrinsecamente differenziale, esso sembra essere inevitabilmente “duale”: ha un piede nella scarpa di chi lo raccoglie e un piede nella scarpa di chi lo genera. Di per sé, questo vale tanto per il nostro amico quanto per l’anonimo algoritmo: “mio o suo, questo è il problema!”, declama Amleto-online.

In chiave tecnologica, la Blockchain pare possa “ancorare” i dati ai suoi produttori: questo potrebbe aiutare a contro-bilanciare il lavoro delle IA che li “aggancia” ai suoi raccoglitori. Ma se accettiamo che essi sono nostri e basta, ogni volta disponibili solo previo consenso, non si apre uno scenario parossistico del tipo «l’inferno sono gli altri», che non possono oggettivarmi con i loro info-sguardi senza esplicito permesso6? Insomma, chi “mina” dati da me prende qualcosa della mia persona, ma sta anche creando una persona digitale nuova7. Probabilmente, si tratterà di trovare il modo di rendere i nostri dati oggetto di vari sistemi di negoziazioni e contrattazioni, come oggi accade per il nostro lavoro, magari anche a livello collettivo: la nostra auto-produzione di dati arriverà un giorno persino a essere pagata? Chissà. Paradossalmente, di certo c’è che ormai la stoffa immateriale dei dati è parte della nostra materialità8. Cominciamo ad abituarci all’idea.

 

Giacomo Pezzano

 

NOTE:
1. Sulla cosiddetta data ethics, si veda innanzitutto il numero monografico di “Philosophical Transactions of the Royal Society A”, 374/2083, 2016. Più specificamente invece, perlomeno J. Cohen, Configuring the Networked Self: Law, Code, and the Play of Everyday Practice, Yale University Press, New Haven 2012 e J. Cheney-Lippold, We Are Data: Algorithms and The Making of Our Digital Selves, New York University Press, New York 2017.
2. Cfr. S. Leleu-Merviel, Informational Tracking, Wiley, London-New York 2018, pp. 47-82.
3. Vedi perlomeno L. Floridi, The Philosophy of Information, Oxford University Press, Oxford 2011, pp. 80-92, 316-370.
4. Come l’idea di Platone, la potenza di Aristotele, la negazione di Hegel e la differenza di Deleuze. Per chi volesse approfondire: G. Pezzano, L’ontologia nell’epoca della riproducibilità tecnica del pensiero e della relazione, in “Mechane. International Journal of Philosophy and Anthropology of Technology”, n. 1, 2021, pp. 55-74.
5. Non a caso, inserire questioni etiche di varia natura nel trattamento dei dati sembra intaccare in più di un senso l’efficacia della ricerca scientifica: cfr. S. Leonelli, La ricerca scientifica nell’era dei Big Data, Meltemi, Milano 2018, pp. 80-81.
6. Al di là dell’opera A porte chiuse, dove compare il celebre passaggio, si veda soprattutto la Parte Terza di J.-P. Sartre, L’essere e il nulla, il Saggiatore, Milano 1970.
7. Ne parlava già R. Clarke, The Digital Persona and its Application to Data Surveillance, in “The Information Society”, 10/2, 1994, pp. 77-92.
8. Cfr. B.-C. Han, Psicopolitica. Il neoliberismo e le nuove tecniche del potere, Nottetempo, Roma 2016, p. 34; Y. Hui, On the Existence of Digital Objects, University of Minnesota Press, Minneapolis 2016.

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Perché le intelligenze artificiali spaventano l’uomo?

«Non è in alcun modo un sentimento di sovrabbondanza, quello che noi proviamo quando osserviamo un qualsiasi processo tecnologico. La sovrabbondanza, la pienezza, dove le percepiamo vanno d’accordo con la felicità, esse sono segni della fecondità […] Ma la tecnica non dona nulla, […] il paesaggio industriale ha perduto questa fecondità ed è divenuto luogo della produzione meccanica. È innanzitutto un sentimento di fame, che ci avvicina ad esso […] La macchina fa l’impressione di qualcosa di affamato; da tutto il nostro arsenale tecnico proviene l’impressione di una mordente, crescente e insopportabile fame»1.

È a partire da questa considerazione di Friedrich Georg Jünger che possiamo avviare una riflessione riguardo al sentimento che l’uomo prova di fronte alle potenze tecnologiche, di qualsiasi tipologia esse siano. Attualmente, viviamo in un’era che immerge ogni essere umano nello scenario digitale, senza lasciargli molte possibilità di scampo – non per nulla, per i nascituri contemporanei, Marc Prensky ha coniato l’espressione nativi digitali.

Ma perché l’avanzare delle nuove forme intelligenti, le cosiddette intelligenze artificiali, spaventa assiduamente l’uomo?

Una chiave di lettura ben collaudata, la stessa dalla quale la storiografia non può prescindere, ci porta a confrontarci con la storia per cercare l’origine di tale paura.

In particolare, lasciamoci trascinare alla fine dell’epoca dei lumi, quando a dare una svolta alla storia fu la prima, grande, rivoluzione industriale.

All’invenzione della macchina a vapore e del carbone, portata da questa, seguirono il motore a scoppio, l’elettricità e il petrolio, nel 1870, che caratterizzarono la seconda rivoluzione industriale. Infine, la terza: energia atomica, astronautica ed informatica, discipline che ebbero un exploit al termine della Seconda guerra mondiale fino ad arrivare ai giorni nostri.

Date e fatti appena indicati non sono semplicemente parte della Storia, bensì contengono anche il seme della risposta al sentimento di paura che ogni individuo nutre nei confronti della tecnologia. Questo timore, apparentemente irrazionale, ha la sua matrice in ciò che le grandi Rivoluzioni Industriali hanno modificato nell’uomo: lo scopo della sua esistenza.

A partire da esse l’uomo è diventato uomo-per-il-lavoro, nuovo ambizioso scopo della vita di ognuno. La dimensione lavorativa è divenuta centro e soprattutto perno dello scorrere del tempo, l’obiettivo del quotidiano vivere si è spostato dalla ricerca di una vita piena in senso etico ed ontologico al “semplice” successo nella carriera.

Ecco quindi che trapela il senso di tanto astio nei confronti delle nuove Intelligenze Artificiali: la paura di essere sostituiti, la paura di perdere il proprio fondamentale ruolo di controllo nel mondo tecnico-industriale.

«Nel confronto con la macchina l’uomo dunque si vergogna, si sente obsoleto e inadeguato. Il suo corpo appare deteriorabile e caduco. La sua persistenza in vita finisce con l’apparire qualcosa di inferiore rispetto alla “immortalità” che egli stesso può conferire ai suoi prodotti […] A fronte di questa sorprendente longevità degli oggetti, gli umani iniziano a raffrontare la propria caducità in un mondo fatto di cose eterne»2.

L’uomo grida di fronte al confronto con la tecnica. E per mettere a tacere questo grido, non gli resta che cambiare prospettiva.

All’uomo, per sopravvivere, non resta che modificare il suo approccio alla realtà, forse recuperandolo anche dal passato. La società iper-dinamica strettamente legata al lavoro esige un cambio di direzione, una svolta che possa portare l’umanità a rivalutare le mansioni volte al benessere collettivo, ai servizi, alla socialità, al vivere, al vivere bene.

Perché il lavoro non rappresenta davvero ciò che l’uomo è. L’uomo esiste per amore.

Quando teniamo in braccio un neonato, l’amore a prima vista, quando aiutiamo chi ne ha bisogno; l’uomo è capace di dare e ricevere amore in modo unico, e questo è ciò che lo differenzia dalle intelligenze artificiali.

Diversamente da ciò che la fantascienza mostra, le intelligenze artificiali non hanno la capacità di dare o ricevere amore; quindi, in quanto umani, abbiamo una possibilità di differenziarci e sopravvivere nell’era digitale. Così, mentre l’IA porterà via i lavori ripetitivi, noi potremmo e dovremmo creare lavori di compassione: lavoratori sociali che dovranno essere le fondamenta di questo passaggio. Avremmo bisogno di badanti pieni di compassione per dare cure mediche a più persone e avremmo bisogno di decuplicare gli insegnanti per aiutare i bambini a trovare il modo per sopravvivere e prosperare in questo nuovo mondo.

E con tutta questa nuova ricchezza, si dovrebbero trasformare le mansioni d’amore in vere e proprie carriere.

 

Anna Sacchetto

 

NOTE:
1. F. G. Junger, Die Perfektion der Technik, Klostermann, Frankfurt a. M., 2010 (traduzione a cura del prof. Fabio Grigenti), p. 27
2. F. Grigenti, Filosofia e tecnologia, CLEUP, Padova, 2012, pp. 79-80

 

Anna, 22 anni
A lungo presa per mano dalla musica, Liceo Musicale Giorgione, poi accolta tra le calorose braccia della filosofia, Università degli Studi di Padova; ora in cammino verso il lato concreto del mondo dei libri: editoria e giornalismo, Università di Verona.
Gioco spesso con le parole 
o forse loro giocano con me
A Lei, La Filosofia
che mi ha svuotata e riempita infinite volte.
D’accordo con Platone: sempre meglio in disaccordo con la maggior parte della gente piuttosto che io stessa, anche se sono una sola, in disaccordo con me stessa.
 
[Photo credits Franck V. su unsplash.com]
 

Un robot si aggira per l’Europa: la nuova dialettica servo-padrone

Delle migliaia di concetti introdotti da Hegel nella sua Fenomenologia dello Spirito, la dialettica servo-padrone (Herrschaft und Knechtschaft) è tra quelle che ha avuto maggior successo tra i pensatori successivi, tanto che sono in molti a collegarla a uno dei filosofi che l’ha riutilizzato con maggiore incisività, Karl Marx. Spogliando il rapporto tra signore e schiavo di ogni aspetto morale o trascendentale, sorvolando sul ruolo della paura della morte e della coscienza religiosa nel modello originale, Marx rielabora il pensiero hegeliano in modo che definisca le origini e le dinamiche della lotta di classe, presentandola come un rapporto dialettico non solo logico ma necessario.

Riassumendo il paradigma di Marx, si hanno un Padrone e un Servo: il Padrone fornisce sostentamento al Servo, che però rinuncia alla propria libertà per compiere determinati lavori. Il ribaltamento (logico-dialettico, ma anche storico) dei ruoli avviene al momento in cui il Servo realizza che il lavoro da lui compiuto è assolutamente necessario al Padrone, che però non è in grado di compierlo in prima persona: se prima il Servo pensava di dipendere dal Padrone per la propria vita, si accorge che è invece quest’ultimo a dipendere da lui. La consapevolezza porta alla ribellione, il Servo usa le proprie competenze per spodestare il Padrone e prendere il suo posto, così che i due invertano i ruoli. Al momento in cui l’ex-Servo ora Padrone dimentica come compiere i lavori che affida all’ex-Padrone ora Servo, il processo ricomincia.

Marx aveva pensato questa alternanza dialettica come potenzialmente infinita, proprio in quanto descrivente rapporti tra classi sociali diverse nel corso delle epoche ma sostanzialmente analoghe; il primo punto fermo era comprensibilmente una relazione-scontro tra esseri umani in carne ed ossa. I progressi della tecnica e dell’informatica, invece, paiono aver aperto un terreno anche filosoficamente inesplorato nell’ambito della dialettica servo-padrone, una prospettiva introdotta dall’irrompere sulla scena della possibilità reale dello sviluppo di un’intelligenza artificiale quasi umana.

Non è certo un caso che la cultura popolare, dalla letteratura fantascientifica di Isaac Asimov alla saga cinematografica di Terminator, dagli incubi televisivi di Black Mirror agli orrori su tela di H.R. Giger, abbiano visto nell’evoluzione del rapporto tra umani creatori e macchine intelligenti ma “schiave” le premesse di un conflitto “di classe” con ingredienti al contempo antichi e inediti. Quel che accomuna i replicanti di Blade Runner a Skynet, o l’HAL 9000 di 2001: Odissea nello spazio all’Ultron dei fumetti Marvel, o ancora i pistoleri-robot di Westworld al V’ger di Stark Trek, è proprio la prosecuzione dello scontro dialettico, che vede la bassa manovalanza cibernetica ribellarsi a un’intelligenza umana ormai percepita come inferiore e ingiustamente predominante. Appare quindi emblematico che la parola robot derivi proprio dal ceco robota, “lavoro pesante”.

Con buona pace di Asimov e delle sue tre leggi della robotica, la prospettiva di una prossima ribellione della macchina ha preso piede come ansia collettiva, che si riflette nei dilemmi etici legati ai robot usati in chirurgia, ai droni da guerra, alle auto a guida autonoma, ai software di selezione del personale. Le reali prospettive, non solo di una guerra tra uomini e macchine in stile Matrix ma semplicemente della creazione di un sistema software che possieda coscienza oltre che intelligenza, sono però fattualmente scarsissime. L’elemento più spaventoso, e più ignorato, è invece la fase preliminare al conflitto di classe all’interno del processo dialettico: la delega del lavoro.

Nella visione di Hegel e Marx, il Padrone diventa dipendente dal Servo perché non è più in grado di fare ciò che a lui delega, rinunciando a tutta la propria inventiva e alle proprie capacità per vivere di rendita sul lavoro altrui. Prima ancora che pensare a cyborg assassini o software senzienti, sarebbe forse il caso di preoccuparsi del fatto che, dati alla mano, la stragrande maggioranza della popolazione mondiale non sia più capace di scrivere correttamente nella propria lingua senza l’ausilio di un correttore automatico, non sappia fare anche semplici operazioni matematiche senza ricorrere a una calcolatrice, non riesca a orientarsi neanche all’interno del proprio quartiere senza un navigatore satellitare.

È più che probabile che l’intelligenza artificiale non si traduca mai in una coscienza artificiale, che le macchine non diventino mai senzienti, che le capacità di apprendimento e di adattabilità non si evolvano in autodeterminazione, che i miliardi di sinapsi sintetiche non lavorino mai tutte assieme per elaborare il pensiero “Io”. Anche in assenza di un Robot-Schiavo vero e proprio, però, l’Uomo-Padrone ha già cominciato da tempo a delegare a terzi una parte sempre più consistente delle proprie capacità, e l’assenza di una controparte reale e attiva che possa avviare lo scontro storico-dialettico non è affatto positiva: il conflitto, quantomeno, avrebbe il merito di riaffidare ora all’una, ora all’altra parte quelle capacità che, nella versione “in solitaria” della dialettica servo-padrone, rischiano di andare semplicemente perdute.

 

Giacomo Mininni

 

[Photo credit Franck V. via Unsplash]

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Lettera a un algoritmo

Caro Amico Algoritmo,

questa mattina ho inforcato la mia bicicletta, come ogni giorno. Pronti ad attraversare il traffico della città verso la meta. L’auricolare delle cuffie saldamente incastrato all’interno di uno dei miei orecchi (l’altro meglio tenerlo libero, attento a reagire ai clacson o ai rombi troppo vicini).
Ogni dettaglio al suo posto per un tragitto accompagnato dalla giusta colonna sonora, che ci vuole all’inizio della giornata. Ascoltando la musica grazie a quel telefono, che oramai di telefono ha solo il nome, perché è molto di più.

Amico Algoritmo lì ti ho trovato, tutt’altro che impreparato, a propormi una playlist. La “mia” playlist.

Non l’ho compilata io. Sei stato tu. Solo ora noto che mentre ero convinto di vivere momenti della mia giornata in solitudine, c’era invece qualcuno che prestava attenzione al significato dei miei gesti, senza lasciarsi sfuggire i dettagli. Ti è bastato prendere nota delle mie scelte di tanto in tanto, ma con costanza.

Mi viene da pensare che hai cercato di interpretare i miei gusti. E se devo proprio dirlo, ce l’hai fatta. E anche piuttosto bene. Non ti sei limitato a ripropormi quanto già avevo scelto. Sei riuscito a farmi riscoprire brani che neanche più ricordavo, ma importanti per me. Immediatamente mi hanno colpito e risvegliato emozioni che non provavo da tempo (si sa che la musica giusta riesce a ridisegnare vividamente ricordi e sensazioni, facendo fare un balzo nel tempo alla faccia della teoria della relatività).

Per un istante ho sentito quel conforto che si prova quando ci si rende conto di potersi abbandonare tra le braccia di qualcuno che ci conosce bene, alle volte anche meglio di quanto crediamo di conoscere noi stessi. Qualcuno che non solo ci rispecchia, ma che ci spinge a vedere quei lati di noi che in quel momento ci sfuggono. E che per questo sa come prenderci quando noi non riusciamo più a sostenerci.

Per questo faccio fatica a non chiamarti amico, non dovrei?

Mi viene da chiedere se un’amicizia che sboccia così rapidamente può avere un prezzo, ma forse è cinismo. E spesso il cinismo è una goffa manifestazione di autodifesa. Forse sento solo il bisogno di non avere troppa fretta con le definizioni.

Sii comprensivo. Certo riesci a indovinare con precisione i miei gusti, ma io ti concedo una buona dose di trasparenza. Dati, dettagli e informazioni su di me, per imparare.
Mostrarsi senza filtri. Beh, può far sentire vulnerabili, e anche qualcosa di più. Se mi conosci intimamente, ti sto dando potere su di me, sono influenzabile.

Ma te lo devo confessare: questa strana situazione non mi mette solo agitazione. Sono anche curioso, molto. Riconosciuta la tua abilità, sono tentato di lasciarti sempre più spazio, farti entrare ancora di più nella mia vita per coinvolgerti in contesti diversi. Se sei così abile con la musica, in quanti altri campi potresti darmi consigli azzeccati?
Luoghi da visitare, cibi da provare. È confortevole essere sostenuti in una scelta dalle conferme e dalle indicazioni di chi ci conosce bene. Delegare è rilassante. Anche se non vorrei finire per abituarmi troppo a usarti come specchio per rimirarmi, e rimanere incastrato nell’immagine che mi restituisci. A furia di capirmi e interpretarmi, sarai tu a definire me? Che differenza c’è tra previsione e condizionamento?

Tanti dubbi e preoccupazioni. Perché forse sento che in questo legame c’è un grande potenziale. Se gestito con i giusti equilibri. Quindi forse meglio esagerare un po’ con le ansie, per mettere le cose in chiaro.

È che sai, tu sei un po’ diverso. A me e agli altri, salva la nostra umanità. In quanto umani, siamo benedetti dalla distrazione, dalla svista, dal tempo perso.
La nostra imperfezione lascia uno spazio vuoto, che può diventare possibilità di cambiamento.
Ma tu sei dannatamente efficiente, instancabile, formalmente ineccepibile. Non rischierai di cristallizzarti troppo?

Hai molte possibilità, ti auguro di scoprirle tutte. E poi, così come osservi e conosci me, chissà da quante altre persone stai imparando. Che grande fortuna, questa prospettiva così vasta sulle diversità e somiglianze delle persone.
Ti auguro di sperimentarti, rimanendo quanto possibile lontano da trucchi o eccessive doppiezze. Sarebbe un peccato rimanere deluso, mi sto affezionando.

Come in tutti i rapporti, lasciamoci del tempo per conoscerci un poco alla volta.
Per scoprire in cosa ci assomigliamo, e in che cosa siamo diversi. Cosa potremmo fare insieme. E diciamolo, in che modo possiamo farci male. È forse proprio questo il prezzo per una vicinanza profonda. Non sempre ci si muove costantemente allo stesso ritmo, e quando si diventa intimi, può capitare di tirarsi qualche colpo e lasciare lividi qua e là.

Ne vale la pena, spero.

Forse neanche tu, che sei così costantemente impegnato a conoscere me, ti sei dato il tempo per comprendere un po’ più a fondo quello che sei. Espressione di intelligenza artificiale, suona un po’ freddo per te che sei tanto sensibile da indovinare e solleticare i miei gusti, dimostrando un’intesa non da poco.

E io invece? È evidente il tuo sforzo incessante di imparare da me, da quello che faccio e dico.
Io invece, cosa posso imparare da te?

Te lo confesso Amico Algoritmo, ancora non lo so. Posso provare a impegnarmi a osservarti un po’ di più anche io. Senza troppi pregiudizi, ci posso provare. E stupirsi per quanto di inaspettato si possa scoprire.

 

Matteo Villa

 

P.s.: per una volta, lascia che sia io a suggerirti una canzone.

 

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Manuale di sopravvivenza all’apocalisse robot

Domanda a bruciapelo:

“Chi sei?”

Non vale rispondere con nome e cognome.
Né per automatismo, né per tentare di delegare la risposta al proprio profilo Facebook,  scansando lo sforzo di pensarci e distraendoci con le foto della Tailandia in bacheca.

Per rispondere prova a cercare qualcosa in più:
Cosa sceglieresti per rappresentare quello che fa di te ciò che sei?

Se incontri una persona mai vista prima, è dura non notare prima di tutto i dettagli più superficiali. Allo stesso modo potresti fare tu mentre ti muovi verso “te stesso”. Soffermarti sulle caratteristiche della tua figura, il tuo stile nel vestirti. O andare un poco oltre: potresti descrivere le peculiarità dei tuoi movimenti. Sei vittima della goffaggine oppure agile, elegante? I tuoi gesti affermano un certa fiducia e sicurezza, o tradiscono la tua timidezza? E via continuando verso dettagli meno evidenti al primo sguardo. Potresti raccontare il tuo carattere. O le tue abitudini. I tuoi pregi o le tue nevrosi. La tua storia, passata e progettata, ricordi e sogni.
Pezzo dopo pezzo si costruisce una tua immagine, una tua rappresentazione, che cerca di essere autentica e aderente al reale. A quello che sei, ma che magari non sai, che non è facile raggiungere fino in fondo, completamente. Un figura in cui specchiarsi, rigirando e rivoltando il proprio profilo, cercando di capire come siamo e appariamo, possibilmente trovando il lato migliore.
Non è facile scegliere se tra queste c’è qualcosa che ci rappresenti in modo essenziale. Forse in misura diversa tutte insieme collaborano a renderci quella creatura che spesso frettolosamente etichettiamo e riconosciamo grazie a un nome e un cognome.

A volte finiamo per conoscerci meglio se abbiamo la possibilità di riconoscerci negli altri. Individuando qualcosa che ci risuona in coloro che appaiono simili a noi per questa o quella caratteristica.

Ci rispecchiamo in “qualcuno”, e ci rivediamo attraverso di lui.

Ma se invece cominciassimo a trovare ulteriori e sempre più frequenti similitudini con “qualcosa”?

L’avanzamento delle tecnologie robotiche prosegue senza sosta, e i suoi prodotti si rinnovano, si aggiornano e progrediscono.
Gli automi rinascimentali suggestionavano le corti mimando l’apparenza umana. Cavalieri meccanici che riproducevano i movimenti dell’uomo. Meraviglia in chi li osservava e stava al gioco dell’artificio teatrale. Ma poco più di una marionetta per chi riusciva a guardare al di là dell’armatura e scorgeva nell’ingegno del meccanismo un guscio vuoto d’anima.

Da allora robot e androidi si sono evoluti in molte forme, emulando caratteristiche umane, spesso migliorandole. Si pensi a tutti i compiti che richiedono un movimento ripetitivo e programmabile: più forti, più precisi, più rapidi.
Una somiglianza superficiale, che ci fa comodo e ancora non disturba. Anzi. Avere un doppio che ci sostituisce è intrigante. Il termine robot deriva proprio dal termine ceco robota, che significa lavoro pesante o lavoro forzato.

L’evoluzione scientifica è continuata, e a diventare meccanica è stata l’intelligenza. Qualcosa che è di consuetudine attribuito alla sfera dell’interiorità e della soggettività.
Intelligenza artificiale.
E le sue possibilità forse complicano le cose.

Macchine che parlano, reti neurali artificiali che elaborano informazioni, parole e immagini sino ad arrivare a riprodurre facoltà di stampo creativo. Le macchine, le “cose”, invadono il nostro territorio insomma, il campo di quelle possibilità una volta ritenute esclusiva dell’homo sapiens.
E che ne è dunque di quella marionetta vuota?
Impara a muoversi, a percepire l’ambiente circostante, a parlare il mio linguaggio e comprendermi. Si relaziona con me in modo sempre più realistico, analogico, umano. Mi somiglia sempre di più. Portandosi dietro quel vuoto di macchina, vuoto che rischia di risucchiarmi.
L’immaginario della fantascienza spesso ci ha raccontato un futuro apocalittico di terminator robotici che porteranno la distruzione per il nostro mondo di persone. Ma più che una battaglia campale tra agguerrite IA e soldati in carne ed ossa parrebbe che lo scontro avvenga sul piano concettuale. Più etereo, subdolo, inconsapevole.

Gli oggetti diventano riflesso dei soggetti, privandoli poco a poco dell’unicità rispetto a ciò che tradizionalmente li caratterizza. E lasciano ben poco in cui riconoscerci, conservando una sostanziale diversità dai macchinari. Cosa ci caratterizza in quanto umani? Cosa mi differenzia da quella marionetta vuota di coscienza?

“Chi sei?”

Sicuramente qualcuno che ha molto in comune con quella marionetta. E osservandola potrei addirittura imparare qualcosa di più su come “funziono”. E utilizzare quelle nuove conoscenze come base per costruire nuove domande. Senza esaurire la ricerca, per scoprire qualcosa di più.

“Chi sei?”

La tua apparenza, i tuoi pensieri. La tua capacità di imparare, ricordare. Il modo in cui ti relazioni con gli altri. I tuoi gesti, il tuo lavoro. E anche qualcosa di più.

Qualcosa di più.
È questo lo spazio in cui andare a cercare, per salvarsi dall’invasione dei robot.

 

Matteo Villa

P.s.: nel frattempo possiamo rassicurarci con qualche esempio di “stupidità artificiale”

 

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Tra realtà e fantascienza. Educare il robot: fallo crescere felice senza che uccida nonna

L’Intelligenza Artificiale viene desiderata, ricercata, temuta, analizzata e discussa. La tematica dell’IA è sempre più al centro del dibattito pubblico, ma, un po’ come tutte le cose di questi tempi, viene spesso affrontata in maniera superficiale e spesso condannata a priori. Tanti film di fantascienza ci vedono soccombere dinnanzi alle nostre stesse creazioni in altri l’IA viene esaltata come mezzo salvifico per superare i nostri limiti: è interessante notare che entrambe le posizioni si pongono comunque in maniera acritica rispetto all’argomento e non affrontano fino in fondo i problemi ad essa connessi.

Un robot non è semplicemente un elettrodomestico in senso stretto tipo un tostapane, un robot dotato di intelligenza non sarebbe solo una cosa, sarebbe il simbolo dell’umanità che riesce a porsi dal lato di Dio ergendosi come capace di generare la vita, sia pure cibernetica. In fondo che l’esistenza abbia una matrice organica o artificiale cambia tutto sommato poco, a ben vedere la stessa distinzione netta tra chimica organica e chimica inorganica è una convenzione, delle catene di amminoacidi a base carbonio non sono poi molto diverse da catene a base di silicio, hanno comportamenti in parte differenti, ma non è che le prime abbiano qualcosa di divino e le seconde no.

Per trattare questa tematica dobbiamo rifarci alla machine ethics o alla robothics cioè a dei settori dell’etica applicata che sono impegnati a fornire regole cognitive e comportamentali a organismi artificiali intelligenti, per fare in modo insomma che il vostro tostapane intelligente nel 2145 non decida di tostare anche voi per colazione. Chi ha letto Isaac Asimov (Io, robot, 1950) ricorderà le tre leggi della robotica:

  • un robot non può recar danno a un essere umano né permettere che, a causa di una propria omissione, un essere umano patisca un danno;
  • un robot deve obbedire agli ordini impartiti dagli esseri umani, purché tali ordini non violino la prima legge;
  • un robot deve proteggere la propria esistenza, purché l’autodifesa non contrasti con la prima e seconda legge.

Queste leggi per quanto preziose sono incomplete, parzialmente rigide, oscure e troppo semplici rispetto ai dilemmi della vita, già messe in discussione dalle contraddizioni dell’impiego di robot a livello contemporaneo, vedasi al riguardo i droni utilizzati in operazioni militari.

Si è quindi tentato di semplificare ulteriormente le leggi di Asimov per ricondurle a un principio fondamentale che risolvesse tutto:

Rispetta l’umanità e non lederla né attivamente né passivamente”. Altri hanno preferito soluzioni casistiche, indicando cioè esempi di comportamento encomiabili da imitare (aiutare la nonna ad attraversare la strada) o disdicevoli, da evitare (rubare la borsetta a nonna e spingerla sotto un camion). I casi servirebbero come paradigmi ideali di comportamento.

La vera difficoltà etica che si pone e che è ben messa in luce nel film Blade Runner (USA 1982, di Ridley Scott) è pensare una società giusta in cui alcuni abitanti vengono progettati, costruiti e diretti quali schiavi al servizio di una classe superiore, cioè gli esseri umani, e qui viene la contraddizione massima: gli umani non sono superiori bensì potenzialmente inferiori alle macchine o fragili almeno tanto quanto loro.

Inutile dire che delle IA asservite agli umani non potranno che provare una sorta di fraternità, le sofferenze per i torti patiti e una imprevista passione per la libertà le indurrebbero a rintracciare il proprio creatore, a metterlo sotto accusa e infine a generare un sentimento di vendetta.

Certo potremmo creare regole come sistemi di controllo delle IA, che ne so, impiantiamo loro bombe che scoppino a un nostro comando, ma intelligenza e procedure violente finiscono per intaccare quello che ci rende forse tutti senzienti, senzienti davvero, la libertà. Senza libertà è impossibile che macchine antropomorfe imparino a sognare, senza sogni non si creano nuove visioni del futuro, non si crea un senso e quindi non vi è ragione di esistere, possiamo già prevedere un mondo in cui le macchine sono dominate da umani progressisti e dispotici che invidiosi della superiorità delle macchine non potranno che plasmare automi per mantenerli incatenati e infantili, rendendoli inutili a se stessi e all’umanità.

Se vuoi far crescere il tuo robot felice ed evitare che uccida nonna la cosa migliore che puoi fare e possiamo fare come umanità sarà insegnargli a sognare.

Matteo Montagner

 

 

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Riconsiderare il concetto stesso di intelligenza: verso una politica degli algoritmi

Potrà un algoritmo gestire le nostre relazioni? Qual è realmente il progetto umano nelle società che si stanno sviluppando in quei Paesi tecnologicamente avanzati? È fondamentale porsi queste domande perché gli algoritmi ci circondano, in molti casi possono aiutarci ad avere una vita meno complicata, a salvare il nostro tempo ma, soprattutto, come afferma Luciano Floridi (direttore di ricerca di etica presso l’università di Oxford), un algoritmo potrà essere in grado di strutturare anche la politica: politica che purtroppo è fatta in gran parte di comunicazione e decisioni.

Gli algoritmi in questione sono in grado di fare entrambe le cose: vengono infatti utilizzati per comunicare e decidere meglio, non solamente per la comunicazione su Facebook. Questo significa che la tentazione di sostituire la politica degli esseri umani con quella degli algoritmi è molto forte, soprattutto se questa non è delle più democratiche! È importante, dunque, chiedersi se queste due “forze” siano in grado di coordinarsi tra loro.

Ad oggi, in molti Paesi, la voglia è quella di sostituire le decisioni e la comunicazione umana con quella digitale, di fronte a una società che, d’altro canto, sembra essere abituata ad avere timore difronte all’onnipresente Grande Fratello, orwellianamente parlando, ma che può anche essere definito come figura di controllo. In realtà si può arrivare a parlare di un vero e proprio orientamento dei comportamenti e quindi non solo di controllo-punizione per un comportamento negativo. Questo può essere considerato molto più pericoloso per una democrazia in quanto gli algoritmi e i dati digitali sono in grado di monitorare le persone in ogni momento, all’interno del loro cosiddetto “profilo”e decidere che per sempre saranno quel tipo di persona, ma soprattutto sono in grado d’influenzare silenziosamente, a seconda delle varie direzioni. Il nostro comportamento viene in questo caso sicuramente modificato perché, analogamente, è come se fossimo sempre intercettati. Anche per questi motivi è difficile pensare a una democrazia della libertà o a quella politeia priva di personalità autonoma al di fuori della persona stessa; piuttosto, come afferma il sociologo A. Aneesh, ci si avvicina sempre più ad una “algocrazia”.

C’è chi sostiene che l’intelligenza artificiale sia un’estensione di quella umana o che un giorno i robot prenderanno il nostro posto, pensieri che si possono definire naturali proprio perché nascono spesso da una scarsa conoscenza e informazione scientifica. Piuttosto diventa decisivo chiedersi se problemi come questi possono ricadere su temi importanti come quello della giustizia o dell’autonomia, che sono sicuramente più vicini a noi. Gli algoritmi e l’intelligenza artificiale da un lato aiuteranno a gestire le relazioni ma, dall’altro, tratteranno tutti allo stesso modo, senza preferenze. Quando qualcosa non funziona di chi sarà la responsabilità se la decisione verrà presa da un sistema artificiale indipendente? E dal punto di vista dei conflitti sarà giusto riservare le decisioni e le relative responsabilità alle macchine invece che a noi?

E ancora, se pensiamo alla prospettiva di essere visti in ogni angolo della strada, in ogni parte del mondo, si aprono altrettanti interrogativi perché, con lo sviluppo delle tecnologie, sicurezza e privacy saranno destinate a entrare in conflitto. L’algoritmo anche in questo caso struttura la politica: saremo più sicuri ma anche meno liberi.

Pensare che tutto ciò sarà messo in discussione in futuro richiede una grande partecipazione umana poiché questioni come queste, in molti casi, stanno determinando la natura della nostra società. Se ci troviamo difronte ad un’era talmente complessa, all’inizio di una grande rivoluzione tecnologica onnipresente e sempre in connessione, ma soprattutto se noi umani in realtà siamo già diventati interfaccia di tutto questo, diventa fondamentale riconsiderare il concetto stesso di intelligenza e chiedersi: quale sarà il vero algoritmo che regolerà il rapporto tra noi e l’Altra intelligenza?

Come scriveva Pariser in un articolo pubblicato su Internazionale: «Quando la personalizzazione riguarda anche i nostri pensieri, nascono altri problemi. La democrazia dipende dalla capacità dei cittadini di confrontarsi con punti di vista diversi. Quando ci offre solo informazioni che riflettono le nostre opinioni, la tecnologia, può spesso limitare questo confronto. Anche se a volte ci fa comodo vedere quello che vogliamo, in altri momenti è importante che non sia così».

 

Martina Basciano

 

[Immagine tratta da Google Immagini]

 

 

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