Elogio o biasimo della “normalità”?

La vita è colma di abitudini. Ogni giorno infrasettimanale si esce di casa più o meno alla stessa ora per raggiungere con tranquillità, tenendo presenti la viabilità, le condizioni atmosferiche e gli intoppi murphyani, il luogo di lavoro; nel weekend si è soliti trascorrere le serate con amici, probabilmente (soprattutto se non si abita esattamente in una metropoli) in un bar frequentato già in precedenza, oppure si tende a restare a casa per guardare un film avviluppati da una calda coltre, la mano immersa in una terrina colma di pop-corn. Con occasionali variazioni, sono insomma abitudini come queste a caratterizzare l’esistenza di ognuno, a dominare la quotidianità. E, in effetti, quest’ultima non esisterebbe senza azioni reiterate a scadenze regolari, prevedibili. Si può dire, anche, che la vita sarebbe molto diversa da come comunemente la si conosce se non ci fosse ciò che viene chiamata la “normalità”. Forse però è proprio questa che, mero costrutto logico elaborato per pensare la fatticità esistenziale, la realtà intera, può corrompere l’insieme di altri concetti logici mediante i quali ci si confronta appunto con la stessa fatticità esistenziale e con lo stesso reale. In tal caso, la normalità dovrebbe allora essere considerata in questo modo: come una prigione (dalle sbarre dorate, purtroppo) per il pensiero.

Ma che cos’è “normale”? È ciò che è ripetuto: ripetuto è l’andare a comprare i petti di pollo al supermercato; lo stringere a sé il partner e sussurrargli dolcezze in un orecchio; lanciare la pallina al proprio cane divertiti dall’aria attenta e concentrata dei suoi occhi. Azioni ripetibili, queste, appunto. E, proprio perché ripetute e ripetibili, anche prevedibili. Ma, poiché anche prevedibili, per ciò stesso pure normali. Ripetibilità, prevedibilità e normalità, pertanto, orbitano in un circolo virtuoso: quanto più un’azione è ripetuta, tanto più è prevedibile, quindi ancor più normale. D’altro canto, un’azione è tanto più normale quanto più è prevedibile, e prevedibile quanto più frequentemente è ripetuta.

Si impone però un quesito: davvero quel circolo è virtuoso? Non potrebbe essere vizioso, invece? Parrebbe di no. Ma che accadrebbe se, a quel circolo, si aggiungesse un quarto elemento, un elemento estraneo, ossia giusto? Il rapporto precedente tra ripetibilità, prevedibilità e normalità certamente cambierebbe: un’azione ripetuta e quindi prevedibile, pertanto normale, diverrebbe, proprio per via di questa normalità, anche per ciò stesso corretta. Ecco che allora quel quarto elemento esterno al circolo pare aprire una dimensione nuova nel circolo stesso, quasi una radura nella quale ora splende il sole dell’etica.

Il “sole dell’etica”? E se invece, al contrario, proprio giustizia gettasse una luce oscura su uno dei tre elementi del circolo, sulla normalità, e ne ne allungasse le ombre? Fuor di metafora: e se giusto schiudesse una dimensione non-etica di normale? Perché, affermando che sia corretto solo ciò che è normale, sembra che ci si incammini lungo una strada pericolosamente agevole, il cui nome è “dogmatismo”.

Sostenere, infatti, che solo ciò che è normale sia giusto vuol dire, d’altro canto, ammettere anche che quanto è non-normale (inconsueto, differente, unico) sia non-giusto. Dogmatismo di pensiero, appunto. Un vero e proprio errore della ragione, la quale, nel continuo avvitarsi fallace su di sé, può infine giungere alla violenza ideale sull’altro eticamente giustificata – per esempio, di una certa visione del mondo particolare. E alla violenza fisica, la traduzione sul piano pratico della spirale di violenza/giustificazione etica della violenza teorica che domina il pensiero, non vi è che un passo. Ecco, in ultima analisi, a che cosa conduce l’ipostatizzazione della normalità, la meta della strada denominata “dogmatismo”: l’aggressione totalitarista e totalitaria ai danni del diverso.

Certo, questi sono come due macchie di colore pece che sono riuscite ad annerire un “grigio” originario – “casi estremi”. E il grigio è il colore dell’esistenza quotidiana, della normalità di tutti i giorni, appunto. Ma esso può diventare nero, come si è visto: la normalità può condurre alla violenza – alla ridicolizzazione di un modo diverso di pensare, di credere, di vivere, alla purga di quel modo diverso di pensare, di credere, di vivere mediante l’olio di ricino. Ma il grigio può diventare anche bianco, fortunatamente. La normalità può, insomma, con l’uso retto della ragione, essere anche pensata per quel che davvero è: solo un concetto, utilizzato dall’intelletto per ordinare i fenomeni della natura che si osservano più frequentemente. Ma se la normalità è riconosciuta per essere un mero costrutto intellettuale elaborato al fine di controllare e non temere il fenomenico, allora neppure può essere brandita contro quei fenomeni che in essa non rientrano, che non si fanno “circoscrivere”. Se la ragione riconosce questo, che vi è nel reale sempre qualcosa che sfuggirà al concetto di normalità e che, per essere pensato opportunamente, richiede altre categorie, allora il grigio sarà diventato bianco-neve.

 

Riccardo Coppola

 

[Credit Mohdammed Ali via Unsplash.com]

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Quando la memoria spezza l’Io: tra Aristotele ed Ernaux

Aristotele, nel De anima, suddivide il processo conoscitivo in tre stadi: sensibile, immaginativo e intellettivo. Mi voglio soffermare sul secondo stadio, l’immaginazione (o phantasia), in particolare sul concetto di phantasmata. Possiamo tradurre questo evocativo termine con la parola “immagine” – intesa come una sorta di fotografia mentale che riproduce all’interno del nostro cervello, grazie alla mediazione degli organi sensoriali, oggetti e soggetti esterni a noi. Tale sembianza viene poi elaborata dall’intelletto, completando così la procedura conoscitiva.

Nel romanzo Memoria di ragazza (L’orma editore, 2017) la scrittrice francese Annie Ernaux ci fornisce un phantasmata di se stessa nel passato, “la ragazza del ‘58”, così come si (e la) chiama lei. La Ernaux prende le distanze, si stacca dalla 18enne che è stata e questo suo alter ego passato aleggia – proprio come un fantasma – tra le pagine di quest’opera autobiografica. Quando non si chiamava ancora Ernaux ma Duchesne (il suo cognome da ragazza), alla viglia della maggiore età la scrittrice trascorse parte dell’estate presso una colonia estiva in Normandia lavorando come educatrice.
Per la prima volta si ritrovò lontana dalla sua rassicurante casa, dalla protettiva “morsa” dei suoi genitori – e si diede alla pazza gioia. Scoprì il sesso, un oscuro arcano, una pratica confusa che ebbe su di lei, ragazzina inesperta e ingenua, un impatto doloroso, totalizzante, umiliante. Annie s’invaghì di H., un educatore più grande, ritrovandosi in un batter d’occhio ad essere completamente soggiogata da lui.

«Ci sono esseri che sono sommersi dalla realtà degli altri […]. Un giorno, o piuttosto una notte, sono trascinati nel desiderio e nella volontà di un unico Altro. Ciò che credevano di essere scompare. Si dissolvono, e guardano il proprio riflesso agire, obbedire, trascinati nel corso sconosciuto delle cose».

Questo è l’incipit del libro, che descrive alla perfezione l’esperienza sentimental-sessuale che sconvolse la vita della giovane Annie.
Tuttavia, non è quest’esperienza a dominare nel romanzo.
Ciò che domina è il tentativo, compiuto dalla scrittrice, di «esplorare il baratro tra la sconcertante realtà di ciò che accade nel momento in cui accade e la strana irrealtà che, anni dopo, ammanta ciò che è accaduto». Il tempo scorre e guardandoci indietro, alla ricerca di noi stessi, troviamo solo dei fantasmi, lontani dal nostro io presente nello spazio e nel tempo.
Per compiere quest’impresa la Ernaux deve dissociarsi da se stessa, decostruirsi: «Non costruisco un personaggio di finzione. Decostruisco la ragazza che sono stata». Osservando una sua vecchia foto dell’epoca si getta a capofitto nei ricordi. Annaspa, ma questo è l’unico modo per tentare di carpire chi è stata, per raccontare e nel contempo rimembrare. È così che si accorge che il tempo, scorrendo inesorabilmente, sedimenta senza sosta strati e strati di ricordi di esperienze vissute, andando a modificare il nostro io. E «scavare fino in fondo in quel 1958 significa accettare la polverizzazione delle interpretazioni accumulate nel corso degli anni».

Togliendo quegli strati si verifica nella Ernaux una scissione dell’io: da un lato c’è l’io presente, consapevole di tutto ciò che ha vissuto; dall’altro lato un io scevro di ricordi – quelli dal 1958 in avanti. Quest’ultimo io è la “ragazza del ‘58” che la Ernaux cerca di riesumare; ma questa operazione di recupero è ardua, stancante, alienante. Per quanto la scrittrice si sforzi, ella si rende conto, nel corso della stesura del romanzo, che non potrà mai tornare ad essere quella che è stata. Come fare, allora, a raccontare un fantasma? Eppure quel fantasma «è reale fuori di me, il suo nome è scritto nei registri del sanatorio di S», ossia della colonia.
Leggendo Memoria di ragazza, ci accorgiamo di quanto sia perturbante rendersi conto che non siamo più chi siamo stati. Un abisso sedimentato di memorie separa la nostra esistenza passata da quella presente.

Qual è, dunque, il legame fra questi due poli che siamo e al contempo non siamo? Il legame è rappresentato solamente dal nome e dal cognome o dai nostri connotati fisici? E cos’è davvero l’io e come possiamo identificarlo e riferirci a esso, se esso continuamente, ad ogni secondo in cui il tempo avanza, si spezza diramandosi in diverse direzioni?
Chi studia e bazzica la filosofia, però, lo sa bene: infinite sono le domande, ma sconosciute – spesso – restano le risposte. Si procede per tentativi, ma potrà essere frustrante. Ma ci può anche capitare di stupirci rendendoci conto che anche noi stessi siamo i phantasmata di cui parla Aristotele. Io sono, e proprio essendo mi lascio dietro delle incorporee rappresentazioni di me stessa che potrò osservare come si osservano delle vecchie fotografie, con la distanza a mediare fra ciò che ero e ciò che sono. Esistere significa proprio stare in bilico su questa spaccatura, accettare il fatto che siamo soggetti “spezzati” e che il tempo ci oggettivizza, continuamente. Del resto, se la realtà è nel qui ed ora, va da sé che non è possibile afferrare compiutamente la memoria di ciò che eravamo.

 

Francesca Plesnizer

 

[immagine tratta da Google immagini]

la chiave di sophia 2022