Arte e fenomenologia delle emozioni: la prospettiva di Andrea Bruciati

In occasione della doppia mostra trevigiana Lost in Arcadia, allestita al Museo Bailo e da TRA – Treviso Ricerca Arte, intervistiamo Andrea Bruciati, curatore, storico dell’arte e nuovo direttore di Villa Adriana e Villa D’Este a Tivoli. Riferimento della scena artistica italiana, Bruciati ci racconta la sua idea di arte come fondamentale strumento di lettura della realtà e macchina di pensiero, ed invita il pubblico a sviluppare un dialogo più soggettivo ed intimo con le opere.

 

Nella sua professione di storico dell’arte e di curatore deve essere capace di trovare i giusti riferimenti nel passato, ma anche di rielaborare e presentare questi stessi stimoli in un’ottica attuale. Come si può dunque costruire il dialogo tra storia e contemporaneità?

L’artista è sempre un pioniere, deve essere in grado di sperimentare e fare ricerca, spingendosi aldilà delle conoscenze prestabilite, mettendosi in discussione e cambiando i canoni del nostro immaginario. Ma questo lavoro sono in grado di compierlo solo i grandi maestri che sanno da dove vengono e chi sono. La storia e la memoria sono i punti di partenza fondamentali perché solo con profonde radici si possono costruire grandi architetture di pensiero. L’importante è che il passato non rimanga un riferimento passivo ma che si faccia vivo ed edificante. L’artista infatti deve compiere una rielaborazione personale della storia, per rispondere ad inquietudini del presente e cercare risposte per il futuro.

Spesso i giovani artisti scelgono la strada del facile consenso, ovvero percorrono istanze già sperimentate per inserirsi nella moda del momento. In questo caso possiamo parlare di contemporaneità derivativa perché manca la parte di ricerca e rielaborazione personale. E non è il tipo di lavoro che personalmente mi interessa.

L’hanno spesso definita difensore e promotore di un fare dell’arte tutto italiano, ma in un mondo globalizzato come quello attuale, può esistere una realtà italiana in grado di confrontarsi come corpus unitario con modelli esteri? D’altronde i grandi movimenti storici che si sono generati in Italia con risonanza internazionale, come l’arte povera o la transavanguardia, fanno ormai parte del passato.

Oggi l’artista ha un linguaggio trasversale e internazionale, poiché viviamo in un mondo dove ovunque possono arrivare le informazioni e nuovi stimoli. Però, riprendendo anche il precedente discorso sull’importanza dei riferimenti storici, dobbiamo sempre sapere chi siamo. Se un artista ha successo all’estero è perché trae in maniera vivificante dei semi, una koinè (lingua comune, n.d.e), dalla sua storia. Prendiamo ad esempio Maurizio Cattelan, Francesco Vezzoli, o Vanessa Beecroft. Sono tutti artisti italiani che hanno rielaborato delle specificità attraverso la nostra cultura: tramite l’ironia, nel caso di Cattelan, che si presenta come una specie di Pinocchio del Ventunesimo secolo, o parlando della donna attraverso la moda, come nel caso della Beecroft; o ancora, affrontando un discorso legato ad un vintage del nostro immaginario, ad un passato perduto, come con Vezzoli.

Poi da curatore posso anche fare un altro tipo di discorso. Ci troviamo in un sistema internazionale in cui tutti difendono i loro artisti, quindi è naturale per me cercare di portare avanti i nostri. In questo caso è puramente una questione di politiche culturali: certamente artisti anglosassoni e tedeschi in un panorama internazionale si trovano spesso più avvantaggiati. Poi, aldilà di tutto, credo che la qualità della ricerca sia sempre la cosa più importante, ed è un valore che non ha bandiera.

In una precedente intervista ha affermato che la cultura è il valore etico su cui una comunità sana si costruisce. In che modo si crea un dialogo con il pubblico senza scendere a troppi compromessi con scelte commerciali?

Secondo me la responsabilità è degli organi di formazione della collettività, a partire proprio dalle basi, quindi dalle scuole. Oggi il linguaggio visivo è la nuova forma di analfabetismo. Non riusciamo spesso a distinguere lo stimolo che ci proviene da una bella immagine pubblicitaria da quello di un’espressione artistica, perché non abbiamo dei parametri valutativi. L’educazione è quindi la risposta per conferire all’individuo gli strumenti per capire quando un’espressione è ricerca, che va aldilà di quello che noi vediamo, e quando invece è massificazione dell’immagine. Un’immagine che in questo caso ci deve piacere e sedurre per vendere. L’arte deve essere invece uno strumento che ci aiuti a interpretare la realtà che ci circonda e non estetica fine a se stessa.

Se l’arte deve essere in grado di dirci qualcosa, quali sono i valori che rendono un’opera costruttiva in una prospettiva sociale? Dal suo personale punto di vista, vale di più la partecipazione collettiva, forse oggi la scelta più diffusa o comunque con più risonanza mediatica, o la riflessione autonoma?

Credo che l’arte debba sempre rivolgersi alla fruizione in modo attivo, invitando il pubblico a riflettere. Ma nelle mie scelte come curatore prediligo un pensiero suggerito, a partire dal singolo artista, dalla sua soggettività e intimità. È una forma di comunicazione fortemente diversa da quella del manifesto d’avanguardia, per esempio, ma non per questo meno efficace, penso che il fruitore debba avere la libertà di interpretare ciò che vede. Quando organizzo una mostra mi piace considerarla una piattaforma di pensiero propedeutica alla cittadinanza, quindi funzionale alla riflessione, ma dove ognuno è libero di intraprendere il percorso di ricerca che preferisce e più consono al suo essere.

Che cosa consiglierebbe a quei pochi giovani coraggiosi che scommettono ancora sulle carriere umanistiche e che desiderano inserirsi nel settore dell’arte in qualità di storici, teorici o curatori?

Bisogna avere molto coraggio, tracciare delle nuove strade. È un po’ lo stesso discorso fatto con gli artisti: o ti adegui a quello che il sistema dominante ti impone, oppure sviluppi delle ipotesi di pensiero personali.  Direi di non aver paura di indagare diversi campi di studio e di avere una certa versatilità, il settore va preso da tanti punti di vista.

In una realtà come quella italiana in cui le istituzioni sono le prime che sembrano non credere nel valore e nel potenziale della cultura, c’è ancora spazio per questa sperimentazione di cui parla?

È vero che in Italia la situazione è difficile, il sistema del Paese non aiuta. Andarsene però è una sconfitta, per quanto mi riguarda ho una forma mentis un po’  “Don Chisciottesca”, e credo che anche tra le difficoltà basti un piccolo passo per offrire un po’ di linfa vitale. Noi, che lavoriamo in questo settore, in fondo trattiamo di elaborati culturali ed estetici, oltre che certo dati scientifici e storici, ma dobbiamo soprattutto imparare a muoverci con altri strumenti, forse più legati alla nostra soggettività. Da una parte penso sia sempre arricchente fare un’esperienza di studio o professione all’estero, dall’altra se l’arte contemporanea necessita di problematicità, forse questo è il Paese ideale dove l’arte può svilupparsi. I limiti possono rappresentare uno stimolo.

Oltre ad una ricerca estetica personale che è l’essenza stessa della sua professione, come si relaziona nel quotidiano il suo lavoro con un’indagine di tipo filosofico?

L’arte è conoscenza emotiva e inintelligibile, la mia è una ricerca rivolta alla fenomenologia delle emozioni. Non mi interessa la logica fine a se stessa, ma piuttosto se funzionale al miglioramento della condizione dell’uomo.

 

Claudia Carbonari

[Immagine tratta da Artribune.com]

 

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Suggestioni scientifico-tecnologiche

Pratica di autoerotismo mentale o riflessione che eleva lo spirito pensante, madre delle scienze o collezione di aria fritta. Tante, diverse e spesso contrastanti le definizioni della disciplina filosofica.
Non è facile trovare una risposta alla domanda su cosa sia la filosofia. Uno di quei quesiti tanto sintetici, quanto fondamentali. Facile da porsi, terribile rispondervi. Per scansare panico e imbarazzo, e prima di impergolarsi in acrobatici tentativi definitori potrebbe bastare rifarsi a come viene solitamente proposta, per la prima volta, sui banchi di scuola. Ripartire da capo, back to basics.
Lezione di filosofia numero 1: la filosofia è l’espressione dell’amore per il sapere, e il filosofo è colui capace di provare meraviglia per il mondo che lo circonda. Colto dalla passione per ciò che può osservare, ha l’ardore e l’ardire di domandare di più, di questionare, di abbandonare le sue abituali certezze e tentare di costruirne di nuove, per praticare la via della conoscenza.

L’atto di stupirsi può costituire un punto di partenza della pratica filosofica: ancora prima dell’acquisizione di conoscenza, è lo stupore che scardina l’impianto della passiva accettazione dell’abitudine. Può creare un cortocircuito, un senso di vuoto da colmare, che diventa solo a questo punto stimolo per la ricerca del sapere.

Questa immagine di filosofia ha preso forma centinaia e centinaia di anni fa. Col passare del tempo e con il susseguirsi delle epoche è cambiato il mondo. Con esso le possibilità per l’uomo di meravigliarsi di quello che lo circonda.

Ed oggi?

La società contemporanea differisce in molti aspetti da quella più antica che ha definito la filosofia. Riproporre nei tempi odierni l’approccio allo stupore significa rinnovare la ricerca verso quello che può produrre meraviglia e che sia caratteristico della vita dei nostri giorni.

Una risposta possibile è attorno a noi, talmente onnipresente da risultare invisibile. Ma quando lo si nota, diventa difficile negare che uno degli aspetti caratteristici del nostro tempo sia la portata dell’innovazione scientifico-tecnologica. La scienza è deputata a indagare il funzionamento del cosmo, ad essa rivolgiamo le nostre domande quando vogliamo comprendere con precisione un fenomeno; la tecnologia ci aiuta a risolvere i problemi quotidiani, ci fornisce le soluzioni ingegnose e gli strumenti per affrontare le più diverse situazioni.
I prodotti scientifico-tecnologici irrompono continuamente nelle nostre abitudini, occupano capillarmente tutti gli aspetti delle nostre vite, con una prepotenza tanto pervasiva che diventa difficile notarla.
Non è facile riuscire a individuare un orso polare in una tormenta di neve, bianco oggetto su bianco sfondo. Allo stesso modo, l’innovazione nella sua costanza rischia di perdere il suo significato, di perdere l’alone dello straordinario, e presi dalla frenesia delle nostre vite risulta complesso cogliere le possibilità di meravigliarsi che sono offerte dai meccanismi della scienza e dalle implicazioni tecnologiche.

Come la filosofia ci insegna, un esercizio di comprensione può nascere quando si smette di dare per scontato quanto si osserva, e al posto dell’ovvio si dà valore alla sua straordinarietà. Un piccolo gesto, un cambio di attitudine mentale che può tuttavia avere la potenza di gettare una nuova luce sulle cose e sui gesti di tutti i giorni. E non è necessario essere degli scienziati o degli ingegneri esperti per poter godere delle suggestioni scientifico-tecnologiche: la nostra vita quotidiana pullula di spunti in questo senso.
Quando allontanandoci dalla nostra automobile non riusciamo a ricordarci se effettivamente abbiamo chiuso le serrature con l’apposito comando a distanza, si presenta a noi l’ennesima occasione di sperimentare quel panico ossessivo-compulsivo che ci fa controllare ripetutamente di aver premuto il giusto pulsante. Tutto mentre un’azione invisibile e istantanea colpisce l’ammasso di latta a motore, che con un cenno di illuminazione dei suoi fari ci rassicura di aver barricato le entrate bloccando i malintenzionati che vorrebbero accedervi.

Siamo capaci di cogliere e apprezzare lo sforzo di conoscenza che ha prodotto questo risultato? In che modo questo cambia la nostra vita? In che modo la può cambiare un domani?

Internet: cervello collettivo in perenne evoluzione.
Stampanti 3D: strumenti permettono la concretizzazione materiale dei pensieri e dell’immaginazione.
Smartphone: surrogati portatili di onniscienza e ubiquità (e si può pure giocare a Fruit Ninja!).

Possiamo riappropriarci di infinite occasioni di meraviglia e di vertigine filosofica, se diventiamo capaci di lasciarci suggestionare dai dettagli che ci si offrono davanti. È possibile, se siamo disposti a intraprendere un viaggio al contrario, a decostruire il quotidiano, facendo quel piccolo sforzo per sollevare il velo dell’abitudine. Giocare con l’immaginazione, con l’auto-suggestione può diventare il primo passo per avvicinarsi verso una profondità che ha tanto da raccontarci, su quello che stiamo diventando e su quello che siamo rispetto a ieri.

Il mondo attorno a noi è in continuo mutamento, e scienza e tecnologia sono attori fondamentali di questo cambiamento. “Chi sono io?”, “Come funziona il mondo attorno a me?”. Difficile rispondere a queste domande senza comprendere nella propria riflessione quanto affermato dal discorso scientifico e le sue conseguenze in campo tecnologico.

Dare valore alla realtà di quello che siamo per immaginare quello che saremo, alla ricerca degli spunti per praticare una filosofia autenticamente contemporanea senza cadere vittime dell’anacronismo. E poter ambire quindi a sentirci “cittadini della Storia”, e non solo i cittadini del Mondo globalizzato.

Ci stiamo suggestionando troppo? Bene! Suggestioniamoci ancora e ancora… alla peggio, ci saremo allenati ad apprezzare di più quello che ci circonda, a darlo meno per scontato.
C’è chi la chiama sega mentale, a me piace chiamarla filosofia.

Matteo Villa

P.S. Ecco qualche stimolo video per esercizi di auto-suggestione:

 

Connettere p(e)r educare

Questa è solo una delle tantissime storie di innovazione che provengono da un luogo che non si chiama Silicon Valley e per questo fanno meno notizia.

Nonostante questa pregiudiziale un continente come quello africano sta dimostrando di potersi affacciare sulla scena con una miriade di progetti e startup, anche se ci sono ancora non pochi ostacoli da superare. Uno di questi è la connessione ad internet, ancora un sogno per moltissimi e una difficoltà per quasi tutti in Africa, dove l’energia elettrica è spesso un miraggio. Per ovviare a ciò e connettere i 2/3 del mondo che è ad oggi è offline si sono messi in moto vari progetti, come quello, già discusso, di Mark Zuckerberg, ma una più piccola e non meno interessante idea ha preso piede da una realtà totalmente africana. Il progetto, che è in definitiva l’oggetto stesso, si chiama BRCK. È opera di Erik Hersman e Juliana Rotich, già creatori di Ushahidi, la piattaforma di crowdmapping più usata al mondo, nata e sviluppata all’indomani dei conflitti in Kenya con l’intento di tracciare i combattimenti, come risorsa open source per la popolazione.

Ushahidi ora è una non profit tech-company con sede a Nairobi, Kenya, importante centro e incubatore di startups, e si occupa tra le altre cose di promuovere progetti di design e di hi-tech del tutto africani mettendoli in contatto con gli investitori.

BRCK, da leggersi brick, mattone, è uno di questi: consiste in un router mobile di forma rettangolare, del peso di 500 grammi, che semplicemente non ha bisogno di energia elettrica per funzionare e consente una connessione internet stabile anche in condizioni non agevoli. Ha un hard disk da 16 gigabyte, un’autonomia di otto ore ed è capace di passare dalla connessione WiFi a quella ethernet alla banda larga in automatico. Questo compatto mattoncino di 13x7x5 centimetri di  dimensioni può connettere fino a dieci dispositivi ed è stato pensato proprio per le regioni subsahariane nelle quali la connessione va e viene molto frequentemente e non sono rari i black out.

Ed è proprio questa l’obiettivo di fondo: connettere e mantenere la connessione, cosa fondamentale in un continente così vasto e in via di sviluppo in cui le comunicazioni e le risorse della rete stanno diventando necessarie per lo sviluppo stesso e per l’innovazione. Garantirle è garantire un futuro.

BRCK è stato lanciato a fine 2013 ed ha ottenuto copiosi finanziamenti prima su Kickstarter e poi da investitori, e vari premi, vendendo più di 2500 esemplari in 54 paesi.

Ora è tornato con l’iniziativa collaterale BRCK Education e con Kio Kit, un kit per la scuola presentato recentemente, che è un’espansione dell’idea originale. Non più solo connettere, ma connettere per educare. Attualmente in Africa ci sono 400 milioni di bambini in età scolare e la grande maggioranza di loro ha un limitato accesso ad internet. Il cuore di Kio Kit infatti è lo stesso router portatile BRCK a cui sono stati aggiunti 40 tablets, con materiali pre installati e altri scaricabili, resistenti a cadute e all’acqua, e 40 cuffie. Il tutto permette quindi, nelle intenzioni degli ideatori, agli insegnanti di creare una classe multimediale in pochi minuti, potendo collegare a una rete stabile molti dispositivi.

Sicuramente abbiamo di fronte un progetto importante per questa regione a livello sia etico che funzionale. Inoltre il valore aggiunto è dato dal fatto che il prodotto BRCK è totalmente pensato e prodotto in Africa, per l’Africa certo, ma non solo, come recita il testo della campagna: “Born in Africa. Made for anywhere”.

Potrà questa piccola idea vincere la corsa alla connessione dell’Africa o quantomeno dare un contributo alternativo e utile? In molti se lo chiedono.

Tanti sono infatti sono i progetti e gli investimenti per garantire una connessione di qualità in Africa, ma anche in altri paesi in via di sviluppo, come Project Loon di Google e Free Basics di Facebook. Una prima differenza è però che questi lavorano a livello infrastrutturale mentre BRCK si pone come un’alternativa più immediata e vicina alla gente, dato il costo non eccessivo del suo prodotto. Il progetto di Facebook poi è stato criticato perché ad ora permette l’accesso solo ad alcuni siti selezionati. Mentre l’obiettivo dei creatori di BRCK è appunto garantire la connessione internet libera e  per tutti, e grazie a ciò provare anche a vincere una delle grandi sfide dei nostri giorni: un’educazione altrettanto democratica e garantita. Se sarà questo progetto africano a dare una svolta decisiva non si può sapere, ma quello che si può intravedere è che sempre più persone iniziano a credere davvero che la rete possa essere un veicolo dalle possibilità illimitate. Sarà questa la vera democrazia della rete?

Tommaso Meo

L’ innovazione nuoce gravemente alla salute

“L’innovazione è distruzione creatrice”

Joseph Schumpeter

La sentenza di Schumpeter sembra chiara, ma come si innerva nella cultura contemporanea? Prendiamo il celebre film ripreso dal libro di Cormac McCarhy messo in scena dai Fratelli Coen “Non è un Paese per vecchi”.

“Non è un Paese per vecchi” ci racconta una storia che sembra traslabile a tutto il mondo contemporaneo, una condizione di profonda alienazione in cui versano milioni di persone in tutto il mondo, individui che non ce la fanno a reggere l’urto del nuovo che avanza e il vecchio che persiste per forza d’inerzia. Milioni di persone se ne stanno lì, tra l’incudine del vecchio e del passato che non passa e il martello del nuovo pronto ad abbattersi su di loro, una condizione claustrofobica che si traduce esistenzialmente in una bolla paranoica di mediocrità dove le persone esperiscono inadeguatezza e altre sensazioni negative di fronte al mondo che cambia.

Che cosa è successo? Come siamo arrivati qui?

L’indagine dovrebbe partire dalle trasformazioni economiche e sociali come ci suggerirebbe il buon Karl Marx. Con l’avanzare degli anni e il prolungamento della vita, nella terza e nella quarta età (probabilmente se l’andamento demografico continuerà nel trend degli ultimi decenni ce ne sarà anche una quinta) incominciano a emergere le crepe di un processo considerato di fondamentale importanza nel corso dello sviluppo dell’uomo, quello di equilibrazione. Si tratta di un’attività di mediazione che consente all’individuo di affrontare le perturbazioni provenienti dall’esterno coordinando in modo nuovo le proprie azioni. I cambiamenti, le scosse, le novità provenienti dall’ambiente mettono in crisi gli schemi abituali delle persone (modi di pensare, agire, relazionarsi agli altri), le quali, se non vogliono soccombere, sono costrette a mutare questi schemi per trovare un nuovo equilibrio. E’ questo un processo particolarmente attivo nelle prime età della vita che con l’avanzare degli anni e la crescente strutturazione dell’identità soggettiva però diventa meno flessibile fino ad atrofizzarsi.

Che cosa accade, allora, se le perturbazioni provenienti dall’esterno sono troppo forti, rapide e spesso violente e non si ha la forza di padroneggiarle? Si assiste alla dissonanza cognitiva allo stato puro, cioè al divario tra ciò che la persona è abituata a fare e ciò che le si chiede d’imparare a fare, divario che spesso la spinge ad arroccarsi su posizioni arcaiche, che le appaiono l’unica via d’uscita dall’ansia o dalla paura. La nostra società dei consumi, del nuovo, richiede uno sforzo cognitivo e un sapere “troppo” nuovo – email a raffica, messanger, whatsapp, instagram, messaggi, interazioni virtuali, il cellulare che squilla, neologismi che fioccano misti a parole straniere sia nel linguaggio scritto che orale – le persone restano disorientate, l’anziano e non solo è sempre più affaticato e magari spaventato.

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