Parresìa digitale. Rispondere alle domande del web con la filosofia

I nuovi scenari di comunicazione digitali stanno ponendo alla società odierna delle sfide che hanno delle conseguenze decisive sul piano culturale e politico. Tuttavia, non si tratta di problematiche affatto nuove, ma del riproporsi di dinamiche comunicative che la filosofia ha analizzato già da millenni.

Andiamo per un momento all’ultimo corso tenuto da Foucault nel 1984, in cui analizza la storia del concetto greco di parresìa, termine con il quale nell’antica Grecia si indicava il dire-il-vero, il discorso che, mettendo da parte tutti i personalismi e gli interessi particolari, ha come unico obiettivo la verità; e che si sostanziava nel dovere-privilegio di parlare a nome della polis nelle discussioni politiche. Tuttavia, questa pratica diventa pericolosa con l’avvento della democrazia, perché, argomenta Platone, essendo concessa a chiunque facoltà di parlare, discorsi veri e discorsi falsi si confondono e diventano indiscernibili. Anche Demostene nella terza filippica sottolinea come il popolo preferisca chi lo lusinga a chi dice la verità e come ciò renda impossibile la parresìa: nella assoluta libertà di pronunciarsi è impossibile esercitare la parola come strumento di ricerca e comunicazione della verità.

Come questa struttura dialogica perversa si stia riproponendo oggi sul web è sotto gli occhi di tutti. Il circolo vizioso della comunicazione digitale nasce dalla capacità di penetrazione e dalla pervasività degli strumenti digitali, che permette l’identificazione quasi scientifica degli interessi e desideri della propria audience. Da questa grande potenzialità comunicativa discende un uso che mira a accondiscendere a tutte le opinioni per acquisire sempre più pubblico: in questo coacervo di informazioni scritte con il fine di attrarre lettori, la parresìa, la facoltà di esprimere il vero, è inibita in partenza.

Da redattore di una rivista web di musica classica come Quinte Parallele, posso dire che il riscatto da tale scenario deve passare necessariamente da un cambiamento di rotta degli attori che si occupano di informazione e/o cultura. È necessaria una redenzione nell’utilizzo di queste tecniche di comunicazione: la conoscenza delle inclinazioni e del comportamento delle persone deve essere usata per indurre al pensiero critico e all’informazione, piuttosto che per assecondare le opinioni, spesso superficiali, dei lettori, al fine di acquisire pubblico. Nel nostro progetto editoriale cerchiamo di andare in questa direzione, sfruttando le potenzialità della comunicazione digitale per invitare le persone all’ascolto e all’approfondimento della musica d’arte. E possiamo dire che è una strada che funziona, perché i lettori rispondono quando sollecitati. Infatti, la cultura e il pensiero sono elementi costitutivi di ogni essere umano, così come anche le bassezze e le oscenità.

Decidere su quali aspetti puntare significa decidere quale idea di futuro si vuole costruire.

 

Francesco Bianchi

Francesco Bianchi, studia filosofia tra Macerata, Padova e Jena e marketing a Roma. Le infinite vie del Geist lo portano a dirigere nel dopolavoro Quinte Parallele, la rivista di musica classica che fra qualche anno renderà più diffuso Wagner di Beyonce.

Onniscienza portatile, istruzioni per l’uso

Hai mai voluto essere Dio?
Onnisciente e ubiquo.
In un mondo in cui siamo tutti umani, a volte anche troppo, la filosofia, la più grande fabbrica di frasi a effetto della storia, suggerisce un’idea di saggezza distante dall’immagine di colui che tutto sa: “so di non sapere” è piuttosto l’ammissione di umiltà che apre la via per la conoscenza.

Ok, Socrate, io so di non sapere, ma Google lo sa. Le risposte che cerco sgorgano dal palmo della mia mano attraverso il mio smartphone, che quando ha la batteria carica ed è ben aggrappato a un segnale Wi-Fi mi offre tutto il sapere condiviso dall’umanità sul web. Posso sapere tutto. Sono connesso con tutti.
Onnisciente e ubiquo.

So che posso sapere.

Gli antichi non si sarebbero sconvolti più di tanto vedendo bruciare la biblioteca di Alessandria, la più grande e ricca dell’epoca ellenistica, se avessero potuto tenere tra le dita uno smartphone. Nelle nostre tasche, di biblioteche di Alessandria ne abbiamo a milioni.

Una vera libidine per il filosofo, che prende il suo titolo in quanto “amante della conoscenza”.
Il filosofo dell’era moderna ha a disposizione un campo senza confini dove ammirare le meraviglie prodotte dallo spirito umano.
E poter imparare di tutto: quali sono le città del pianeta che ospitano più abitantiCome appare il cielo notturno, visto dal polo sud? Quanti elastici ci vogliono per stringere un’anguria fino a spezzarla in due?

Attento, goloso di conoscenza. Davanti a questo buffet sterminato di nuove informazioni, la distanza che separa la ricerca della verità dal cazzeggio asistematico è breve.

Se ti è capito di voler essere Dio, o perlomeno di avere qualcuno dei suoi poteri, probabilmente significa che non lo sei. Che il tuo cervello, come quello dei tuoi simili, è capace di processare in maniera funzionale una quantità limitata di informazioni.

La quantità di conoscenza disponibile in modo tanto rapido e accessibile può essere fruita armoniosamente solo se accompagnata da una consapevolezza qualitativa. Non è superfluo soffermarsi su come organizziamo e gestiamo le informazioni che acquisiamo, non è superfluo cominciare un discorso sul metodo, perlomeno fino a che rimaniamo umani, troppo umani.

So che posso sapere, ma forse so anche di non sapere quello che voglio sapere.

Google sa un mucchio di cose, ma continua a presentarsi come un foglio bianco. Un saggio onnisciente ma muto, pronto a darci tutte le risposte, a patto che siamo noi a fare il primo passo scegliendo una domanda.
L’apertura verso possibilità indefinite può lasciare spiazzati. Basta ricordare quando il professore iniziava l’interrogazione dicendo: “prego, mi parli di un argomento a suo piacimento”. Senza la consapevolezza dei punti di forza e di debolezza, la libertà può risultare fatale.

Tutto il sapere del mondo vale poco, se non si è addestrati a porre delle buone domande. Nell’epoca della connessione, non sono solo i dispositivi elettronici e le strutture informatiche che possono essere collegate in una rete grande come il mondo: anche noi abbiamo la possibilità di connettere la marea di informazioni in cui siamo immersi con le nostre vite, sfruttando le possibilità delle tecnologie digitali per i nostri obiettivi e le nostre motivazioni.

Se potessi entrare oggi nella biblioteca di Alessandria, quale sezione visiteresti per prima? La risposta a questa domanda potrebbe dirti qualcosa di più su come sei.
Ogni giorno, quali sono le cose che chiedi ad internet, che tutto sa? Quale immagine di te riflette?

Quale può essere quindi la domanda degna delle possibilità che abbiamo oggi?

 

Matteo Villa

 

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La fallacia del bravo cittadino

Da qualche anno l’attenzione pubblica ha volto lo sguardo all’ambiguo rapporto tra internet e la privacy di chi internet lo utilizza. Si è discusso molto, e si continua a discutere, in che misura sia legittima la mercificazione delle nostre informazioni più intime, così come dei nostri vissuti. Termini come Big Data, pubblicità mirata, marketing personalizzato sono stati sulla bocca di tutti. La personalizzazione dell’esperienza online, avvicinando domanda e offerta, non fa di per sé alcun danno, e − se pur qualcuno può sentirsi violato − non è l’unico modo in cui la pubblicità entra prepotentemente nella vita quotidiana. Basti pensare alla 5th Avenue a New York così come al caso tipicamente americano dei naming rights, per cui una società può comprare per un certo numero di anni il diritto a dare il proprio nome ad edifici o luoghi pubblici. L’utilizzo di big Data, così come di ogni medium in generale, è di per sé moralmente neutro.

I governi hanno preso lentamente nota del fenomeno, hanno cercato di regolamentarlo dove possibile e dove necessario. Obama nel 2014 ha richiesto che fosse fatto un report sui Big Data, ma per ora nulla di efficace e decisivo è stato fatto in questa direzione, e nulla sembra annunciare un prossimo cambiamento. Molti avvenimenti importanti hanno attirato l’attenzione pubblica e questi temi sono passati in secondo piano. L’elezione di Trump, la Brexit, la fragile situazione politica italiana hanno ricevuto giustamente più attenzione, spostando il dibattito ai margini. Eppure nulla di ciò che in un primo momento aveva suscitato il problema della privacy è cambiato. La necessità di una regolamentazione rimane.

Dato questo sfondo ciò che mi interessa trattare è un argomento che si sente spesso ogni volta che il diritto alla privacy viene in qualche modo violato. Il problema che sorge dalla collezione e dall’uso di Big Data introduce un problema più ampio. Si sente dire:

Non mi riguarda se vengo “spiato”, perché non ho niente da nascondere. Al contrario, se ciò serve per aumentare la sicurezza di tutti, ben venga.

Questo ragionamento suona subito in modo strano e al contempo è abbastanza di buon senso da essersi diffuso a macchia d’olio. Ma se è vero che ogni discorso vive di presupposti, vediamo quali sono quelli del caso. Prima di tutto è evidente che l’argomentazione sottende una disequazione: la sicurezza è un valore più importante della libertà. Ciò è discutibile, ma si può legittimamente sostenere e con motivazioni valide. Ciò che squalifica veramente tale discorso è un altro presupposto: chi argomenta in questo modo ammette implicitamente e per principio che qualunque soggetto possa violare la sua privacy, siano esse corporazioni, governi o hackers, sia in sostanza buono e saggio. Egli fa ciò che fa per il bene comune, ed essendo io buono non ho nulla da temere.

Non c’è bisogno di richiamarsi al fantasma di Antigone per ricordare che la norma del singolo non è la norma del Potere. Le due volontà non solo possono divergere, ma anche confliggere; e ciò significa che il presupposto non regge, l’argomento è fallace.

La logica seguita dai privati è il profitto, l’aumento di capitale; la logica seguita dai governi è invece il controllo. Entrambi possono spingersi oltre ciò che è avvertito dall’individuo come proprio bene. Questi casi critici, di cui non si parla e di cui non ci interessa, sono esattamente ciò che fa implodere l’argomento del bravo cittadino. Essere “spiati” riguarda tutti e rimettere il problema alla bontà di chi trae vantaggio da ciò non è la soluzione. La soluzione, che in questo caso non può che avere la forma del compromesso, emerge dal confronto critico con il problema, dalla consapevolezza che bisogna essere coscienti di quanto accade e di quanto velocemente muta la realtà con cui ci relazioniamo, in modo di evitare in futuro errori simili alla fallacia del bravo cittadino.

Francesco Fanti Rovetta

[Immagine tratta da Google Immagini]

Cogliere le informazioni sulla salute: sappiamo come leggere un articolo di giornale?

Gli articoli relativi alla salute spopolano in giornali, riviste, blog ecc., proponendoci informazioni molto varie relativamente alla scoperta di nuove malattie, di recentissimi approcci terapeutici o focalizzandosi sulle proprietà salutari di qualche alimento. Queste fonti informative sono essenziali per tutti noi, poiché riescono a donarci strumenti e consigli tramite i quali possiamo contribuire a preservare la nostra salute o correre ai ripari, se essa viene compromessa da qualche malattia. Nonostante ciò, tutti noi abbiamo avuto modo di sperimentare quanto queste forme divulgative siano molto difficili da interpretare: per fare un breve esempio, spesso si legge su alcune riviste quanto faccia bene mangiare la cioccolata, ma il mese successivo potremo imbatterci in un articolo pubblicato probabilmente nella medesima testata che sostiene esattamente il contrario. Tale situazione si avvera in virtù del fatto che gli articoli in questione richiamano studi condotti in qualche università, senza mai scendere troppo nel dettaglio di chi ha condotto veramente quegli studi, su chi li ha finanziati e, quasi sempre, senza fornire alcun dato reale che possa in qualche modo giustificare “scientificamente” il contenuto stesso dell’articolo. A tutto questo bisogna anche aggiungere che frequentemente si avvera pure la situazione contraria, ovvero gli articoli divulgativi vengono redatti con terminologie troppo “auliche” per essere interpretabili da chi non possiede alcuna base scientifica o specifica della materia di cui si tratta.

A questo proposito due studiosi italiani, Paolo Legrenzi e Carlo Umilità, all’interno di un notevole libro dal titolo Neuro-Mania mettono in luce come alcune forme patologiche vengano presentate in giornali divulgativi, quotidiani e settimanali non d’interesse medico, corredate da informazioni neuroscientifiche che ne accentuano i risultati. In particolare i due mostrano come i dati indicati a supporto delle patologie siano in molti casi parziali e mal scritti, ovvero la specificità e la complessità degli stessi è talmente elevata che potrebbe essere compresa solo da uno strettissimo numero di addetti ai lavori. Per confermare la loro tesi riportano alcuni studi che hanno messo in mostra la qualità delle credenze delle persone relativamente alle neuroscienze; in particolare essi si soffermano su uno studio eseguito dall’università di Yale [1] tendente ad accertare se un’eventuale predilezione per le spiegazioni neuroscientifiche affondi o meno le proprie radici nei modi di rappresentazione del mondo da parte del grande pubblico. Lo studio ha rivelato che una spiegazione, se corredata da indicazioni “neuro”, anche se generiche, ha più appeal nei lettori rispetto ad una tesi non supportata da tali dati. Inoltre, ha messo in luce come nessuno, tranne gli esperti del settore, riesca a cogliere la differenza tra dati corretti e sbagliati, poiché il solo presupposto che la tesi sia giustificata e supportata da dati “neuro” è sufficiente per riporre fiducia in tale tesi. Ciò comporta che la propaganda sui risultati ottenuti della prospettiva “neuro” è riuscita a persuadere gli animi del grande pubblico sulla validità oggettiva delle tesi espresse. A questo proposito Legrenzi e Umiltà asseriscono: «bisogna essere davvero esperti per non farsi ingannare. Per tutti gli altri, e cioè la grande maggioranza delle persone, l’aggiunta dell’informazione neuro, di per sé corretta, fa la differenza. La differenza che corre tra una spiegazione credibile e una ritenuta sbagliata. In altre parole, la spiegazione sbagliata diventa credibile grazie all’arricchimento neuro che ha, per così dire, un potere salvifico. Le persone tendono a fraintendere il senso di tale arricchimento, che trasforma in spiegazione soddisfacente quella che, in sua, non lo è. In altre parole l’informazione neuro è un valore aggiunto che rende credibile qualcosa di fasullo» [2].

Tale situazione viene ribadita dagli studi di Jörg Blech, giornalista e divulgatore scientifico-medico per Der Spiegel, il quale sostiene che gli articoli che si trovano in molte riviste non specializzate spesso vengono scritti da giornalisti che, seppur molto bravi nel fare il loro lavoro, non se ne intendono di medicina. A questo proposito scrive: «molte delle notizie diramate della stampa sono riprese dai giornalisti in maniera assolutamente acritica. Possibili terapie vengono di colpo strombazzate come se fossero rimedi sensazionali, ma nella maggior parte dei casi dopo un po’ di tempo non si ha più notizia di esse. La tendenza all’esagerazione è una malattia professionale di molti giornalisti che si occupano di medicina: spesso, per far sembrare importanti e significativi i loro servizi, essi gonfiano i dati sulla diffusione di certe malattie e il pericolo che queste possono costituire» [3]. Su questo tema sono stati scritti innumerevoli articoli e Blech sceglie di giustificare la sua affermazione facendo riferimento allo studio condotto dall’Harvard Medical School pubblicato nel giugno del 2000 [4], nel quale venivano esaminati 207 articoli riguardanti tre farmaci, pubblicati nel Wall Street Journal, nel New York Times, nel Washington Post, in altri 33 giornali e apparsi sulle principali televisioni nazionali. I risultati furono molto chiari: nel 40% degli articoli mancavano dati e cifre sull’asserita efficacia dei farmaci, inoltre nei rari articoli che riportavano qualche cifra si parlava solo dei dati sull’utilità relativa dei farmaci. Nella quasi totalità degli articoli non si parlava né degli effetti collaterali né si riportavano gli esiti di altri studi; in più, quando l’articolo era scritto da un esperto della materia non si riportava mai se esso avesse qualche rapporto o legame finanziario con i produttori di farmaci.

Il piccolo spunto di questo articolo mira a porre una domanda banalissima: siamo sicuri di saper leggere un articolo medico riportato in un giornale? Riusciamo, cioè, a selezionare gli aspetti principali di tali articolo e ponderare l’idea che ci faremo leggendo lo stesso, cogliendo quando si tratta di un messaggio rilevante e quando invece non lo è?

Tale ragionamento risulta banale solo all’apparenza, poiché tutti noi leggiamo una marea di notizie e scegliamo quelle che ci convincono maggiormente; tuttavia, quando si tratta di salute è necessario farsi qualche domanda in più prima di sposare una particolare tesi riportata in uno dei nostri giornali preferiti, in particolare è necessario capire esattamente da quale fonte proviene l’informazione, quali dati esistono a supporto e chi ha prodotto (e con quali interessi) gli stessi, e soprattutto se tali articoli sono scritti in modo da essere oggettivamente compresi anche da chi non si trova tutti i giorni a lavorare o leggere di queste particolari forme patologiche.

In conclusione è possibile affermare che comunicare la salute è di certo un’attività difficilissima, ma allo stesso tempo recepire le informazioni sulla salute e saperle soppesare con buon senso è forse uno dei maggiori sforzi che ognuno di noi, tutti i giorni, è chiamato a compiere.

Francesco Codato

NOTE
1. Cfr S. Birch, P. Bloom, The curse of knowledge in reasoning about false beliefs, in “Psychological Science” n. 5, 2007;
2. P. Legrenzi, C. Umiltà, Neuro-mania, Il Mulino, Bologna 2009, p. 71;
3. J. Blech, Gli inventori delle malattie, Lindau, Torino 2006, p. 59;
4. Ibidem, pp. 59-60.

Le molteplici vie interpretative dei messaggi legati alla salute: dal contesto al valore dell’informazione

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Nel precedente articolo abbiamo visto come il concetto di salute, pur rappresentando uno dei cardini dell’umana esperienza, non può essere ridotto ad una sola e chiara unità di senso, ma la sua posizione e determinatezza dipendono dai continui mutamenti che i contesti socio-culturali attribuiscono alla nozione di uomo e al relativo concetto stesso di salute. In altri termini, non esiste una sola definizione di salute ma sussistono una moltitudine di concetti tra loro simili che, valutati nella loro interezza, riescono a restituire il senso del concetto medesimo. Inoltre, abbiamo visto come una delle situazioni fondamentali all’interno di questo paradigma sia quella di riuscire a comunicare con chiarezza e con metodo la propria definizione di salutare al fine di ottenere un “vantaggio competitivo” che possa persuadere gli animi nell’assecondare tale dimensione unificante il senso.

Questo ragionamento, che sulla carta può apparire molto teoretico e di difficile interpretazione, è stato ben riassunto da un esempio, spesso citato nella letteratura bioetica, che trova una esemplare rappresentazione nel libro di Nikolas Rose, La politica della vita, Einaudi 2008 (pp. 224-227). L’esempio di Rose fa riferimento al sito internet del Prozac creato nel 2001 dalla Eli Lilly per promuovere l’alfabetizzazione scientifica tramite la divulgazione di forme di salvaguardia della salute, che ebbe un enorme successo a livello di visite. Come riporta Rose (p. 226), l’home page di questo sito era intitolata “La tua guida per valutare e guarire dalla depressione”. Il sito, da quanto dichiarato, non voleva sostituirsi alla diagnosi medica né proporsi come forma alternativa alla stessa, ma si prefiggeva la volontà di aiutare le persone a capire cosa fosse la depressione e quali misure si potessero attuare per curarla o prevenirla. Per realizzare tale proposito il sito forniva non solo una spiegazione biologica della patologia associandola a disfunzioni di neurotrasmettitori ecc., ma esponeva come per prevenire e superare questa patologia fosse necessario cambiare il proprio sé, ovvero praticare ciò che in filosofia assume il nome di “tecniche del sé”, tanto che lo stesso Rose scrive: “il processo di guarigione, riportato nel sito, prevedeva un intero dispiegamento di tecniche del sé: praticare scoperta di sé, volersi bene, mangiare bene, […] e leggere il volantino informativo di Prozac.com” (p.227).

Da questo piccolo esempio possiamo trarre almeno due grandi spunti di riflessione, la prima è che per porre le basi per la diffusione di un concetto relativo alla salute, in questo caso per divulgare cosa sia la depressione, non basta individuare un messaggio focalizzato unicamente sul farmaco o sulle cause che possono portare a riscontrare tale patologie, ma è necessario inserire tale messaggio nell’ambito di una dimensione di senso più ampia che preveda dei cambiamenti all’interno della vita dei soggetti. Il sito del Prozac mirava proprio a questo: non soltanto fornire informazioni sul farmaco o sulla patologia, ma offrire le stesse all’interno di un contesto che fosse facilmente assimilabile da chiunque visitasse il sito e che potesse farlo diventare un vettore di “alfabetizzazione scientifica”. In altri termini, le differenti modalità di espressione della comunicazione della salute, mirando ad uno specifico contesto di riferimento, pongono in essere delle modalità di trasformazione della soggettività in grado di orientarne la peculiare esplicazione nel mondo. Il sito del Prozac e la campagna pubblicitaria creata per questo farmaco ha rivoluzionato il modo d’intendersi stesso del soggetto, infatti noi tutti oggi sappiamo dell’esistenza della depressione, ovvero dell’infelicità patologica, e associamo comunemente la stessa non solo al campo della salute, ma anche a delle modalità differenti con le quali poterla usualmente definire o inquadrare, situazione che prima della stessa campagna nessuno di noi avrebbe potuto fare. Ne segue che la divulgazione del messaggio relativo alla depressione è riuscito a cambiare il contesto di base sul quale noi agiamo e attribuiamo importanza alle nostre espressioni vitali quali indicatori di salute.

Se la prima riflessione è relativa alle modalità con le quali è necessario comunicare, ovvero far breccia sul contesto di senso che si deve modificare, la seconda è relativa alla valenza del messaggio stesso che si pone in essere. Anche in questo caso l’esempio di Rose è fondamentale, poiché produrre alfabetizzazione riguardo la salute, dunque cambiare e agire sui contesti, può essere interpretato eticamente almeno sotto due diverse modalità espressive: da una parte si può cogliere tale situazione come una forma benefica d’informazione che può portare dei grandi vantaggi ad alcune persone, generando un reale valore per l’utente e per la sua vita; dall’altro lato questo fenomeno può essere visto come creazione di un concetto assimilabile alla mera vendita o creazione di notorietà del brand che produce la soluzione a quel problema. In altre parole, agire sull’alfabetizzazione vuol dire lavorare sul contesto di senso, che può, a sua volta, portare a creare delle necessità e dei bisogni fittizi che non esistevano in precedenza, o viceversa vuol dire fornire delle risorse per catalizzare, organizzare e rispondere a bisogni reali che non avevano ancora trovato completa espressione.

Il problema fondamentale relativo alla comunicazione della salute che ci si pone in bioetica è proprio questo, ovvero quando le azioni di divulgazione sono generate per il bene della collettività e quando invece esse sono generate per il solo profitto di chi detiene i brevetti di un particolare farmaco o di una particolare istituzione sanitaria?

Risolvere tale quesito è praticamente impossibile, poiché l’indeterminatezza oggettiva del concetto di salute pone in essere delle dinamiche interpretative del tutto soggettive del messaggio comunicativo che, agendo su contesti generali che poi si personificano, danno vita molteplici e soggettive vie interpretative. Ne segue che la citazione di Rose, riportata nelle righe precedenti in cui si mette in luce cosa il sito del Prozac proponesse quale forma d’informazione, può essere salutata da alcuni come una manna dal cielo e, nel contempo, vista da altri come mera forma di pubblicità del più basso livello culturale.

Produrre un messaggio univoco e senza alcun dubbio etico all’interno della sfera della salute è assolutamente impraticabile e chiunque agisce in questo difficilissimo campo, come vedremo nei prossimi articoli, deve continuamente lavorare sui contesti e confrontarsi con questo immenso quesito per riuscire a generare informazioni capaci di apportare reale valore alle singole persone che si trova ad assistere.

Francesco Codato