La parola creatrice di realtà

<p>Abstract speaker silhouette with letters on a white background</p>

La parola crea, perché parlando non ripetiamo; imita, perché parlando non inventiamo […]; traduce, perché trasporta in un luogo nuovo la situazione presente di chi parla e i materiali di cui dispone.1

La parola è un dono.
È la capacità di comunicare e comunicarsi al mondo come nessun altro essere vivente può fare.
La parola permette all’uomo di relazionarsi in modo logico e razionale con i suoi simili, è la capacità di riflettere ed elaborare pensieri che portino allo scandaglio di sé, del senso della realtà e della propria esistenza.
Con le parole noi siamo in grado di costruire la nostra vita, la nostra cultura oltrepassando anche i limiti che la società via via che si cresce impone, raggiungendo luoghi fino a prima sconosciuti.

La parola ha potere, senso, corposità ma, paradossalmente, tutto questo valore viene perso quando ci si inserisce all’interno della società come soggetti attivi, a partire dalla scuola; è proprio a partire dai contesti chiusi e imposti che la parola perde il suo vero potenziale, cioè quello di creare e costruire, perché non porta più con sé l’effetto sorpresa, ognuno sa esattamente che detta in quel determinato contesto la parola significa solo e soltanto quella cosa.

L’uso e l’abitudine deteriorano la magia racchiusa nella parola, svuotandola di senso.

Ecco la crisi del linguaggio!

Il problema non risiede nel bambino che legge poco, risiede nel bambino che ha dei limiti linguistici impostigli e che non può sperimentare la sua fantasia attraverso l’uso delle parole.

Ogni parola, come ogni bambino, è un microcosmo che

porta con sé un universo che, liberato, rivela l’intero mondo contenuto implicitamente in essa2

Dunque la parola non è fine a se stessa, non è sola, è qualcosa che svela e rivela l’universo che racchiude dentro e si rende, per questo, misteriosa perché ‘dice’ un universo; eppure questo mistero permane solo se la parola viene lasciata libera di dire e non dire tutto ciò che racchiude, di essere presente in più contesti e di pronunciarsi in modi differenti.

Se ciò non accade vi è l’ovvio e l’oblìo della bellezza della parola in sé.

La bellezza dei bambini risiede nel fatto di essere liberi e di avere una creatività linguistica che non li fa essere imbrigliati in significati inflessibili, potendo, così andare alla ricerca di altri mondi e differenti modi di descrivere la realtà che li circonda e, spesso, di crearla, perché l’essere umano è la sua parola3  e il bambino ne è l’esempio.

Quando ascoltiamo i bambini raccontare un fatto, pensiamo che stiano inventando il racconto o che abbiano visto troppa televisione e non siano in grado di distinguere la realtà dalla finzione: niente di più sbagliato. Quando un bambino ci descrive un fatto realmente accaduto le parole non sono scelte a caso, come a noi può sembrare, perché vengono pescate da tutti i contesti possibili immaginabili, che loro hanno vissuto, senza porsi limiti, dimostrando una capacità linguistica ben superiore alla nostra.

Se la parola parla, come potrebbe essere falsa?4

E l’adulto, invece, cosa fa?
Li corregge, spiega loro che quella parola non va bene per quel determinato contesto e li sprona ad essere il più coerenti possibili con la realtà; ecco i limiti, le gabbie, l’imbrigliamento della fantasia che portano inevitabilmente all’impoverimento del linguaggio e, in seguito, alla scarsa capacità di pensiero critico, perché subentra la paura di sbagliare che di conseguenza inibisce la creatività e porta insicurezza verso se stessi.
Alla domanda “cos’è un cucchiaio?” solo un bambino può davvero sorprendere rispondendo con estrema naturalezza “È se stesso!”, sapendo esattamente cosa sta dicendo perché ogni parola esiste in quanto in relazione a un pensiero o ad una riflessione.5

Una risposta per i più banale e scontata oppure copiata, ripetuta, sempre per lo stesso problema, ossia l’incapacità di noi adulti di trascendere il contesto in cui stiamo parlando e l’ossessiva ricerca di una perfezione linguistica che porta alla morte reale della parola e del suo senso profondo.
La parola ha e deve mantenere la sua forza creatrice di realtà e di mondi possibili e questo potere le è conferito dalla sua incapacità di essere ripetuta, perché ogni volta è parola nuova, e dalla capacità di imitare dunque di non inventare.6 Dovremmo, quindi, essere in grado di capire che la parola deriva dal silenzio, dal sacrificio di avere saputo ascoltare, ciò che il bambino fa da quando nasce, e per questo è necessario non limitarlo continuando a stimolare il suo linguaggio attraverso il gioco e la filosofia pratica che sono in grado di allenare l’immaginazione e alimentare l’infinità dei mondi possibili.
Proprio attraverso la filosofia e i suoi allenamenti linguistici si può percepire la componente ludica del linguaggio, dove il gioco è da intendersi come una funzione dell’ingegno dell’uomo e non della ragione perché il linguaggio ricopre proprio il ruolo di gioco di ingenium per eccellenza visto che parlare non significa informare ma vivere ed esprimere la vita stessa e di crearla.7

La comprensione di tutto questo porta alla capacità di percepire il linguaggio come atto di libertà, se viene a mancare proprio la consapevolezza di questa funzione liberatoria si sarà sempre incapaci di creare il proprio mondo e quello possibile.8

Valeria Genova

Note
1- Panikkar R., Lo spirito della parola, Bollati Boringhieri Editore, Torino 2007, cit pag 50 2- Ibidem, cit pag 11
3- Parets Serra M., Els pobres i la Trinitat, Abbazia, Montserrat 1991, pag 17
4- Sabara Bhasya, I, I, 5 cit
5- Panikkar R., Lo spirito della parola, Bollati Boringhieri Editore, Torino, 2007, cfr pag 50 6- Ibidem, cfr
7- Ibidem, cfr pag 87
8- Ibidem, cfr pp 88-89

Io cambio

«Lei è chi non è nessun altro»

                  Lorenzo, 10 anniCORNICE2-02

Alla domanda «Che cos’è il Tempo?» Agostino d’Ippona rispondeva: «Se nessuno m’interroga, lo so; se volessi spiegarlo a chi m’interroga, non lo so» (Le Confessioni, libro XI, cap. 14).

Effettivamente più cerchiamo di dare una risposta univoca e definitiva a questa domanda, più stimoleremo una costante “caccia al tesoro”, che non sempre potrebbe andare a buon fine. La trama intessuta di eventi che dà forma a quello che convenzionalmente chiamiamo “tempo” è una delle questioni più annose che rende protagonista la storia della filosofia, ma che inevitabilmente tocca e coinvolge altri campi disciplinari facendosi slalom fra trappole linguistiche, filosofiche e scientifiche che tuttora non smettono di suscitare stupore e curiosità nel lettore.

«Dammi tempo», «Sto perdendo tempo», «Mi sfugge il tempo» sentiamo continuamente uscire dalle bocche delle persone; ma esattamente a cosa ci riferiamo quando parliamo di “Tempo”?

L’interesse sembra coinvolgere non solo adulti, ma anche bambini.

Chi è dunque il tempo?

rrrrrLewis Carroll, chiedendoselo, in Alice’s Adventures in Wonderland non esita a indirizzare la protagonista all’incontro con personaggi dall’identità quasi onirica, enigmatica, ma rivelatoria. Nel capitolo VII la piccola Alice, su consiglio del Cappellaio Matto, è costretta ad “ammazzare” il suo tempo facendolo fermare, come hanno fatto gli altri personaggi, all’ora del tè.

«Penso che potreste impiegare meglio il vostro tempo» non esita a rimproverare la bambina al Cappellaio, spaesata dagli indovinelli senza soluzione continuamente proposti. Ma ecco inesorabile la risposta del suo interlocutore:

«Se tu conoscessi il Tempo come lo conosco io, non parleresti di lui così senza riguardo. È una Persona».

Alice in effetti, non parla e non chiede nulla al tempo; sa solo di doverlo battere studiando musica ed è convinta che l’orologio possa solo segnare le ore e non gli anni, poiché quest’ultimi ci metterebbero molto prima di cambiare. Ancora una volta arriva ferrea la risposta del Cappellaio:

«Ah, questo spiega tutto. Il tempo non sopporta di essere battuto. Ma vedi, se tu ci andassi d’accordo, lui farebbe quasi tutto quel che vuoi con l’orologio. Mettiamo che siano le nove di mattina, proprio l’ora di cominciare le lezioni: basterebbe soltanto che tu gli dicessi una parolina sottovoce, e il Tempo farebbe correre la lancetta dell’orologio in un batter d’occhio! L’una e mezza, ora di pranzo!».

Ma come vivono i bambini il tempo?

Un primo modo è sperimentarlo tramite il gioco. In questo momento il tempo diviene soggettivo e, quasi come un rituale, si trasforma in un esercizio, una ripetizione delle cose fatte durante le giornate: ci si sveglia, si fa colazione, si accudisce qualcuno, si lavora e se è sera si va a dormire… La cosa interessante è il lasso di tempo che intercorre fra questi momenti; durante il tempo di un gioco possono passare tre giorni come due anni, si può diventare adulti in un batter d’occhio o ritornare bambini all’improvviso.

Come affrontare la tematica del tempo in un laboratorio di filosofia?

filobambini1_lachiavedisophiaMolte persone sono convinte che un primo approccio potrebbe essere quello di prendere in esame la parola “tempo” facendo domande dirette ai bambini al fine di coglierne i diversi significati. «Il tempo si vede passare?» «Se ne può misurare il passaggio?» «Il tempo passa per tutti? Per le persone come per gli animali o per le pietre?» «Se non esistessero gli orologi, esisterebbe il tempo?». Tutti questi interrogativi sono senza dubbio interessanti, ma le risposte date saranno risposte convenzionali; i bambini tenderanno a dire quello che l’adulto si vuol sentir dire.

Per questo motivo Filosofiacoibambini sceglie di parlare del tempo indirettamente, non cogliendolo di petto, ma avvolgendolo dall’interno, a partire da una cosa particolare e concreta. Il tempo è, fra le tante cose, una parola vaga, un concetto ambiguo. Abbiamo una buona idea di che cosa voglia dire “essere bambini”, “essere adulti” o “essere anziani” ma ci troviamo in difficoltà nel momento in cui dobbiamo stabilire l’età esatta in cui si transita da uno stadio all’altro. A quale età si smette di essere bambini? A quale, invece, si diventa vecchi? Tutto cambia continuamente e bisogna abituarsi. Difronte al cambiamento non resta che uscire da quelle rigide categorie con cui veniamo etichettati continuamente dagli altri, o da noi stessi. I confini che delineano chi siamo noi e chi sono gli altri sono confini malleabili che cambiano di continuo.

Filosofiacoibambini lavora sul cambiamento temporale non parlando del “tempo” in sé, ma facendo intuire come le cose nel tempo non sono sempre come appaiono. Un bambino o una bambina seduta sulla cattedra, seguita dalla costante domanda «Lui/Lei chi è?», è il pretesto che muove un’ora e più di laboratorio. Con la pretesa di capire chi sia quella persona si vagliano tutte le possibilità che essa può essere: passato, presente o futuro. «È una bambina!», ma lei non è sempre stata una bambina o non lo sarà per sempre; «lei è simpatica», ma non è la simpatia. Siamo simpatici, ma è importante avere la consapevolezza di non doverlo essere sempre. «A lei piace l’hip-hop», ma lei non è l’hip-hop, non gli è sempre piaciuto e se un giorno non gli piacerà più non dovrà aver il timore di cambiare le proprie convinzioni. Questo vale per tante altre cose: sentimenti, colori e tagli di capelli, peso, altezza, stati d’animo, hobby, modi di essere… Si parte parlando di cose presenti per poi arrivare a quelle non più o non ancora presenti. Smontare e rimontare. Giocando simbolicamente con le parole i bambini sperimentano come l’atteggiamento migliore difronte al cambiamento temporale sia quello di non essere confinati entro limiti precostituiti.

Giorgia Aldrighetti

FcB team ricerca

 

Facciamo che io ero un bambino di nove anni…

Serjoza si fece pensieroso, fissando il viso del portinaio già studiato fino nei minimi particolari, e in ispecial modo il mento […] che nessuno aveva visto, eccettuato Serjoza, che non lo guardava mai altrimenti che dal basso.

(L. Tolstoj, Anna Karenina)

Questo non è un autentico punto di vista dal basso, non è il punto di vista di un bambino di nove anni; è il punto di vista di un uomo oltre i quarantacinque che vuole fare il bambino di nove anni. Non siamo in basso, ci siamo abbassati.

Per Tolstoj sono passati trent’anni dall’ultima volta che ha reclinato il collo all’indietro per poter guardare un adulto in faccia. Dopo trent’anni piega le ginocchia, tocca terra e si riposiziona ad altezza bambino, si immedesima.

Facciamo che io ero un bambino di nove anni…

Il punto non risiede nella riuscita o meno dell’illusione. Poco ci interessa. Quel che importa è che a qualsiasi livello l’autore sia stato in grado di immedesimarsi nel suo bambino o nella sua bambina, resisterà sempre una distanza:      

“Il padre gli parlava sempre […] come se lui fosse rivolto a un certo ragazzino immaginato da lui, uno di quelli come ce n’è nei libri, ma niente affatto somigliante a Serjoza. E Serjoza […] cercava sempre di fingersi proprio questo ragazzo libresco.”

L’adulto osserva il bambino dall’alto, con uno scarto di centimetri che non gli è dato colmare e lo renderà per sempre miope. L’adulto guarda il bambino attraverso un filtro, un filtro che ha qualcosa della narrazione: non a caso il padre di Serjoza gli parla come ad un bambino libresco, immaginato.

Ma Serjoza è un bambino libresco e il suo vero padre, l’autore, non può fare altro che investirsi lui stesso nella parte, così come Serjoza cerca disperatamente di fare pur di compiacere le aspettative del padre-maestro.

Il capitolo ci parla dell’educazione di Serjoza. Doppiamente interessante per noi: non solo bambini, ma bambini in classe.

Il bambino di Tolstoj “sprofonda in meditazioni”: cioè, secondo gli adulti che lo circondano, si distrae. Non è un bravo studente, si perde osservando i bottoni sul panciotto del padre e dimentica i nomi dei patriarchi perché Enoch è il suo preferito e “all’assunzione di Enoch vivo in cielo si collegava tutt’un lungo ragionamento” a cui Serjoza si abbandona.

Eppure la sua anima si proclama “colma della sete di conoscenza”.

Secondo gli adulti, il problema è uno: Serjoza è svogliato.

Secondo Serjoza, i problemi sono due: quel che gli viene insegnato e il modo in cui gli viene insegnato. La materia è “inutile”; ma l’attributo “inutile” segue un aggettivo gravissimo: “noioso”. Ciò che gli viene insegnato è inutile poiché noioso.

Ed è noioso perché “il maestro non pensava quel che diceva”: Serjoza lo capisce dal tono con cui pronuncia le parole. “Ma perché si sono messi tutti d’accordo per dire queste cose sempre a un modo?”, si chiede “con tristezza”. Recidere la connessione tra apprendimento e godibilità è un delitto, ci dice Serjoza, ci dice Tolstoj. Riesce ad impedire all’insegnamento di funzionare.

Perciò al di là dello studio della materia, della filosofia coi bambini, indaghiamo a lungo la figura stessa del Filosofo coi Bambini. Il “personaggio”: che si muove, modula la voce, il tono, l’accento, gesticola, controlla ogni muscolo del viso e del corpo – in una parola, recita. Insegnare è un atto di recitazione. Non solo serve a catturare e poi mantenere viva l’attenzione per l’intera durata del laboratorio; nutre la curiosità, la partecipazione, l’entusiasmo, la voglia. Questo presuppone un’enorme quantità (e una particolare qualità) di energia.

Maestri meravigliosi lo fanno continuamente, ovunque. Per poter evitare di scrivere sulle pagelle “è bravo ma non si applica”, si applicano in prima persona. Allo stesso modo, venti Filosofi mettono in discussione il loro lavoro con un allenamento intenso, fatto di sessioni da sei ore e venticinque bambini.

E quando uno dei venticinque si perde, in realtà sono io che lo perdo. Penso a Serjoza e a quanto non possa permettermi di stancarlo, fingendo di non sentire quanto stanca posso essere io stessa di riacchiapparlo, per ogni volta che serve riaccenderlo.

Perché Serjoza è svogliato. Ma lo è soprattutto perché i suoi adulti sono svogliati.

Eugenia Bartoccini

www.filosofiacoibambini.net

«Chi sa, fa. Chi non sa, insegna»

“I migliori maestri sono quelli che ti indicano dove guardare, ma non ti dicono cosa vedere”

            CORNICE2-02

«Chi sa, fa. Chi non sa, insegna».

Questo famoso detto lascia l’amaro in bocca non solo a chi l’insegnamento lo pratica da anni, ma anche a chi si accinge a diventare, col tempo, un buon maestro. Questo detto lascia l’amaro in bocca anche per l’incoerenza presente al suo interno: «chi non sa fare, insegna», come se, insegnare non fosse anch’esso un “fare”, un operare concreto, un agire e, nel migliore dei casi, un creare qualcosa di nuovo.

Dove si insegna? Ovunque. A scuola, in palestra, in un campo sportivo, in aula, per terra… A chi si insegna? A tutti. A se stessi, ai bambini, agli alunni e perfino ai maestri stessi. Chi insegna? O meglio, cosa deve essere colui che insegna?

In ambito scolastico si discute molto su quale sia il profilo del bravo maestro e si investe gran parte del tempo a stilare una lista di buone regole. La pratica dell’insegnamento tuttavia non è una somma di tecniche da riprodurre meccanicamente. Ogni bambino è diverso, ha la propria peculiarità e il proprio tratto distintivo rispetto agli altri, quindi la produzione del suo libero pensiero non è qualcosa di standardizzato.

La figura dell’insegnante è spesso data per scontata. Si può scegliere la classe, la scuola, il tempo pieno o parziale ma il maestro, fin dalla più tenera età, ce lo ritroviamo davanti. Non sarebbe forse più importante sapere più cose possibili sulla persona che starà con i nostri figli per più di cinque ore al giorno, per nove mesi l’anno protratti nel tempo?

C’è da dire che ci sono maestri e maestri. Nonostante l’essenziale versatilità posseduta, un maestro eccellente per una certa fascia d’età non può esserlo, alla stessa identica maniera, per un’altra. Questo perché, ribadiamo, le competenze da far apprendere non sono tutto.

Problemi, addizioni, lettere maiuscole, minuscole e corsivi non sono gli unici frutti che raccogliamo dall’albero dell’istruzione, otteniamo molto di più. La qualità e quantità del raccolto dipenderà, in buona misura, dalla fortuna di aver avuto un buon maestro. Durante i fertili anni scolastici avviene infatti la naturale crescita del  rrbambino. Modi di fare, modi di vivere le emozioni, cambiamenti fisici, sperimentazione delle possibilità, necessità di praticare il dubbio e la coltivazione di interessi personali sono solo alcune delle esperienze che il maestro dovrà valorizzare.

Partendo da questo presupposto, come dovrà muoversi l’insegnante?

Innanzi tutto il saper fare del maestro è l’effetto del suo saper essere. Una sorta di socratico “conosci te stesso”. Il saper fare dell’insegnante è il frutto di anni di esperienza ed affinamento della pratica, affinché possa divenire sempre più efficace. È un saper destreggiarsi nella classe in maniera perfetta. È un camminare per i banchi quando c’è da camminare e uno stare fermo quando c’è da star fermi.

Il saper fare del maestro è studiare il fare dei bambini e guadagnare credibilità ai loro occhi. È possibile osservare molto solo guardandoli! Perché un bambino non parla se a farlo non è prima un suo amico? Perché alcuni tentennano sempre nel dire qualcosa, mentre altri agitano perennemente il braccio alzato pur non sapendo la risposta? Perché molti, quasi vivendo in un’ampolla di vetro, non riescono a gestire i loro sentimenti?

Il saper fare del maestro è accorgersi di tutti questi aspetti. È attendere anche mezzora prima di fare una domanda a un preciso bambino, o di contro, è non lasciare tempi di attesa.

Il saper fare del maestro è coordinare la classe così come farebbe un maestro d’orchestra; far capire con lo sguardo, usare i gesti per richiamare l’attenzione e dare la parola. Il tutto senza mettere in imbarazzo chi sbaglia.

Il sapere fare del maestro è passare ininterrottamente dal semplice al complesso. La classe è la somma dei suoi alunni, ma i singoli bambini (diversi gli uni dagli altri) sono gli elementi che compongono l’unicità di quel gruppo classe.

Il saper fare del maestro è sincronizzarsi sui ritmi dell’ambiente scolastico. La sua voce non dovrà essere piatta e ripetitiva, ma risonante e ritmica. Le parole, immagini e pensieri dei bambini sono simboli che non vanno interrotti urlando o sbattendo la mano contro la cattedra, ma dovranno essere accompagnati finché il loro ragionamento non avrà preso forma.

Il saper fare del maestro….

 

Giorgia Aldrighetti

(FcB Team Ricerca, Università di Trento)

Cavalli bianchi e zucchero filato

Quando sei piccola ti raccontano le favole e tu ascolteresti per ore quelle storie di amicizia, amore e allegria dove il bene vince sempre sul male. La vita sembra fatta di giostre e zucchero filato e tu giri a 1000 all’ora su quel cavallo bianco, sorridendo alla mamma che ti guarda compiaciuta e abbozzante un sorriso di orgoglio.

 
Ad un tratto esplori per la prima volta il sentimento dell’amicizia, quella pura e ingenua, che ti rende una cosa sola con l’altra persona: condividi i tuoi giochi preferiti, mangi il gelato insieme, vai su quel famoso cavallo bianco con quella persona dietro di te che ride felice di ciò che siete insieme.
 
– Io e te saremo migliori amiche per sempre!
– Sicuramente! Niente ci potrà mai dividere!
– Ok facciamo un patto: io ti regalo il mio cavallo bianco di peluche preferito e tu lo dovrai conservare fino a quando saremo amiche.
– Ma quindi per sempre!
– E certo per sempre! Tanto essendo amiche ci potrò giocare ancora lo stesso no?!
– Va bene!
 
Il mondo corre veloce e il tempo ruota attorno a quell’ansia positiva di potersi vedere, per giocare o per stare insieme a fare i compiti.
 
Il tempo da piccoli è amico: scorre veloce quando vuoi che il momento passi in fretta e si dilunga non appena è Natale.
 

Eppure esso scorre inesorabile, senza soste, senza limitazioni e soprattutto indifferente.

 
E la cosa, forse, peggiore è che ti fa crescere.
 
Un giorno, infatti, ti ritrovi cresciuta e scopri che vivere non è quella giostra,  non è il cavallo bianco e non sa di zucchero filato.
Cammini avanti e indietro per la stanza e per caso, buttato in angolo, tutto grigio, trovi il cavallo bianco di peluche.
Sì, proprio quello del patto, quello del ‘saremo amiche per sempre’.
Non ha più lo sguardo fiero, il pelo è arruffato e non ha più l’odore di nuovo di tanti anni fa.
 
– Chissà che fine avrà fatto…
 
Quell’amica con cui hai condiviso la tua infanzia, i tuoi allegri pomeriggi di merenda e compiti ad un tratto sparisce quasi senza che tu te ne accorga.
Basta cambiare scuola, mutare i propri ritmi, i propri interessi per intraprendere strade diverse che inevitabilmente allontanano.
 
E ti ritrovi amica di altre ed hai una nuova amica del cuore a cui confidi le prime delusioni d’amore e di nuovo il tempo scorre e ti sembra di avere trovato colei con cui condividere le prime esperienze adolescenziali.
La purezza del cavallo bianco però non c’è più.
L’invidia pacata, la maggiore consapevolezza ti rendono incapace di abbandonarti del tutto al sentimento semplice del bene, inteso come empatia, comprensione e ascolto.
 
Passano gli anni e ti ritrovi adulta.
Ti guardi attorno e vedi sul letto di tua figlia un cavallo bianco di peluche.
Lo afferri e lo annusi: sa di pomata per bambini.
 
– Quanto adora questo cavallo Margherita!…
Ma chissà dove sarà finita quella mia amica…
 
Ad un tratto quel vecchio cavallo ormai grigio ti lancia un indizio domandandoti: ‘Perché mi hai ancora qua, dopo che abbiamo cambiato una decina di case e di città?’
 
E tu non sai rispondergli perché hai perso la purezza di quando l’avevo ricevuto in regalo come pegno ‘d’amore’.
Pensi solo a quei giorni indelebili nella mente, a quella giostra che girava inesorabile sempre uguale e inizi a sorridere di quanto bastasse poco per essere felici.
 
Ti rendi conto di quanto quei ricordi siano importanti per sentirti sempre a casa anche quando non sei mai più a casa tua da anni perché tuo padre viaggiava e tu dovevi seguirlo; capisci che quel cavallo bianco è una delle tue radici, forte e che non ha bisogno di essere nutrita perché resistente a traslochi, lavaggi e stropicciamenti da parte di bambini.
 
Tutta la consapevolezza di non essere mai sola deriva da quel cavallo che se odori meglio sa ancora di zucchero filato e se chiudi gli occhi senti ancora quelle voci gaudenti di due bambine che sono cresciute insieme e che poi la vita ha inevitabilmente diviso arricchendosi di esperienza, sorrisi, sacrifici e ricordi.
 
In un momento tutto ti è più chiaro: l’amicizia si rinnova, di giorno in giorno, di anno in anno, e si alimenta anche col solo pensiero o, meglio, col solo ricordo.
Tu sei ancora amica di quella bambina, ovunque essa sia.
Il cavallo ce l’hai solo tu e in qualche pomeriggio nostalgico anche lei penserà a te.
 
Essere amici significa sentirsi col pensiero, ricordarsi, incontrarsi empaticamente, esserci ieri oggi domani, anche solo per pochi istanti. Il legame interno rimarrà, ieri oggi e domani; si arrugginirà, si opacizzerà, si allenterà, ma il tuo bisogno interiore di salire ancora su quella giostra con lei sarà più forte, più struggente e nemmeno la lontananza geografica potrà spezzarlo.
 
L’amicizia dei bambini è innocente, disinteressata, coinvolgente e spronante: non bisogna guidarla e men che meno pilotarla.
Il bambino sa, intuisce e percepisce l’empatia e il suo cavallo bianco lo donerà di sicuro alla persona giusta.
 
Valeria Genova
[Immagine tratta da Google Immagini]

«Facciamo finta che…»

“Così il nostro gioco non finiva mai, e neppure ci veniva a noia, perché ogni volta che ci ritrovavamo con atomi nuovi ci pareva che anche il gioco fosse nuovo e quella fosse la nostra prima partita.”

(Italo Calvino, Giochi senza fine)

CORNICE2-02

bambini

Armano soldatini di ferro e li preparano alla battaglia, fingono di mettere a bollire l’acqua sul fornello di plastica e accomodano sulle seggioline gli amici peluche per prendere il tè delle cinque. Usano pentole capovolte e con bottigliette schiacciate compongono note musicali; allestiscono pareti di cartone – attaccate con il nastro adesivo – e le decorano con i pastelli per poter mettere in scena il loro spettacolo…

«Stanno solo giocando» si sente ingenuamente uscire dalle bocche delle loro mamme, senza pensare che in quel “solo” si nascondono un’infinità di mondi fantastici che sono lì, ad attendere che qualcuno li veda, li scopra e li sperimenti tramite, appunto, il gioco. I bambini sanno distinguere perfettamente la sottile linea che differenzia la realtà dalla finzione, divenendo esperti attori e attrici nell’interpretare i giochi della loro fantasia.

Il gioco, tratto distintivo dell’infanzia, è un simbolo che porta alle spalle secoli GIOCOdi storia e – tra un nascondino, una finta festa di compleanno e un facciamo finta di… – si svelano le più veritiere immagini archetipiche. Nel gioco simbolico si è al contempo se stessi, ma anche “altro”. Durante il tempo di un gioco si sperimenta tutto ciò che l’adulto realizzerà nel corso della vita. Ci sarà complicità e cooperazione, solitudine e allontanamento, sfida, inganno, imitazione, sottomissione alle regole, ma anche ribellione e fuga. Ci sarà il tentativo di dar senso alle regole morali della vita collettiva del mondo reale, ma anche la destrezza di modificare a proprio piacimento le “regole del gioco”.

È raro sentir dire dai bambini “non    voglio giocare”, ma tuttalpiù si sentirà un “non voglio più giocare a questa cosa”. Ed ecco che continuamente si passerà da un gioco all’altro, riadattando la scenografia e mettendosi addosso la pertinenza del nuovo personaggio da far entrare in scena.

I bambini sanno perfettamente giocare da soli e creano da sé ciò di cui hanno bisogno; ecco perché non esitano nemmeno un secondo a far di un cucchiaio uno specchio. Ma i giochi sono anche strumenti creati dagli adulti per i bambini; ed è qui che nasce l’eleganza e lo stile della costruzione. Prendi un gioco, osservalo attentamente, scrutane i dettagli e scoprirai se il fine per il quale è stato creato è riuscito nell’intento o no.

Appare infatti che lo scopo per il quale vengono creati i giochi sia cambiato. Sembra che l’essenzialità della funzione simbolica sia passata in secondo piano e anziché creare giochi “aperti” che stimolano fantasia ed esplorazioni possibili, se ne creano altri “chiusi” che obbligano a godere dell’acquisto in un’unica maniera.

Entrare in un qualunque negozio di giocattoli, per un bambino, è sempre un’esperienza fantastica e ricca di stupore; tutte quelle cose in vendita lo fanno viaggiare in un universo di possibilità non ancora realizzate. Ma l’adulto dovrebbe far attenzione alla qualità e alla quantità del messaggio ludico. Scatole grandi per giochi piccoli; plastica e cartone che una volta scartati fanno tenere il giochino nel palmo di una mano. Alle sfumature tenue, calme e rilassate prendono il posto colori sgargianti che attirano immediatamente, ma al contempo inquietano, agitano e ben presto stufano. Costruzioni con le quali costruire l’impossibile, ma accompagnate da foglietti illustrativi che spiegano step by step che cosa montare e che cosa tralasciare. Bambole che danno ben cinque risposte diverse, ma ci obbligano a fare solo cinque domande. Giochi talmente pieni di dettagli e particolari che si fatica perfino a capire cosa si potrebbe aggiungere o togliere. Personaggi dall’identità e caratteri perfettamente delineati che fanno dire: «io sono così, punto». Catturano l’attenzione, ma chiudono l’immaginazione.

Non c’è nulla di diverso fra due bambini che fingono di esser pesci e vivere in fondo al mare, a un adulto intento a scrivere un romanzo d’avventura. O ancora, da una ragazza, seduta sul divano, che immagina cosa sarebbe successo se fosse uscita di casa quella sera. In tutti questi casi si vagliano situazioni possibili e controfattuali, per poi decidere il da farsi. La differenza è che i bambini, con il gioco, possono permetterselo di farlo sempre. Perché quello è il loro “lavoro”. E l’adulto che ben volentieri usa timbri di voce poco melodiosi – quando non se ne presenta assolutamente la necessità – non dovrebbe interrompere la magia e l’autonomia di quel fervore giocoso. Non dovrebbe ostacolare i bambini con comandi del tipo: “No, sbagli!”, “Non devi!” o “Fai così”; e nemmeno col ricatto del “Continua a farlo e non ti compro quella cosa”.

È facendo così che, la suggestione data dal loro facciamo finta di finirà per sbiadire…

Giorgia Aldrighetti (FcB Team Ricerca, Università di Trento)

C’era una volta…

Tutti cresciamo leggendo fiabe e favole o guardando le stesse in televisione.

Da bambini però è difficile capire l’enorme valore che esse celano dietro quegli strani personaggi che ci fanno così ridere e sognare; un valore che deriva da un significato profondo e da un messaggio che le favole e le fiabe vogliono trasmetterci.

Vi è mai capitato di osservare un bambino che guarda una fiaba in televisione o ascolta il genitore mentre gliela racconta? Che emozioni trasmettono i suoi occhi?

Meraviglia, stupore, sorpresa.

Eppure queste emozioni non nascono per caso, ma sono insite nell’essere umano da quando nasce per il bisogno di trovare il senso della sua vita, del mondo, per comprendere la realtà, per conoscerla e capirla.

Sono esigenze che necessitano di risposte e che i bambini trovano nei mondi incantati delle fiabe. Noi adulti, sempre pensando di sapere tutto, sorridiamo e proviamo tenerezza nel vedere l’attenzione incredibile con cui i piccoli guardano o ascoltano le fiabe, senza renderci conto che il loro inconscio sta assimilando esperienza di vita, principi etici e morali, educazione civica, consapevolezza e che tante di queste cose faranno parte della loro esistenza senza che nessuno se ne renda mai conto.

Le fiabe e le favole insegnano e il bambino è il migliore allievo che possano trovare, perché? Perché lui è curioso, ha voglia e necessità di conoscere, scoprire, rispondere ai più grandi interrogativi della vita, ad esempio “come sono nato?”, “dove è andata la nonna?”, “perché la mamma è diversa dal papà” ecc ma cerca risposte anche per gli interrogativi che, a nostro avviso, sembrano più banali, come “perché la Luna è gialla?”, “perché il Sole scotta?” e così via.

La fiaba e la favola permettono loro di riflettere senza snaturare la loro essenza pura e fantasiosa, mettendoli di fronte a situazioni che li inducono a pensare, ad escogitare le loro personalissime soluzioni. Con i racconti fantastici i bambini scoprono la morte, la ricchezza e la povertà, ciò che è buono e ciò che è cattivo, l’uguaglianza, la carità e la condivisione, tutti valori etico-morali che un ragazzino può ben apprendere se spiegati e raccontati in maniera fantastica perché vicina al loro modo di vedere la realtà. Tutti questi input si palesano nell’interiorità del fanciullo come conflitti (“lui è il buono, perché non lo capiscono?”, “perché il signore ha sparato all’orsetto?”, “perché il lupo ha mangiato la nonna?”) che poi cercano risposta nella sua mente e negli adulti che hanno accanto.

I libri di favole possono considerarsi i primi libri di Filosofia che un bambino può incontrare nella sua vita perché racchiudono tutte le questioni principali della nostra esistenza; ciò avveniva nel passato con le favole di Esopo e continua ad avvenire con le fiabe di Walt Disney. Basti pensare alla Cicala ed alla formica che insegna il bisogno di “guardare più in là del proprio naso”, o a Biancaneve e alla pochezza dell’esteriorità, a Pinocchio e al non dire le bugie, a Cappuccetto Rosso e al non fidarsi degli sconosciuti.

Ogni fiaba ed ogni favola racchiudono una morale, un insegnamento che attraversa il corpo fisico del bambino per arrivare a toccare le corde più profonde, smuovendo in lui un universo di emozioni e di consapevolezze; certo, un processo che è difficile che un bambino faccia da solo, ecco perché sono sempre necessari anche un dialogo ed un confronto costruttivi con gli adulti a lui vicino che lo aiutino a ragionare sul significato intrinseco di ciò che hanno letto o visto.

Questo processo mentale di acquisizione inconscia e rielaborazione logico-astratta di informazioni da parte dei bambini può considerarsi un “fare filosofia” , sicuramente grezzo, perché ancora non pienamente consapevole, ma comunque un “fare filosofia”.

Ecco che allora è necessario immergere da subito i nostri piccoli nel mondo fantastico delle fiabe, per fare loro il regalo più bello, quello del comprendere il mondo per comprendere se stessi e non viceversa: più si capisce il mondo attorno a noi, con le sue differenze, i suoi pregi e i suoi difetti, più si ha una visione di se stessi ridimensionata, come parte del tutto così come tutti gli Altri.

Valeria Genova

[Immagini tratte da Google Immagini]

Perché Filosofiacoibambini?

Nel leggere un post sul web intitolato “La filosofia nella scuola elementare” decido di farne una veloce Sentiment Analysis per vedere le opinioni degli utenti. Scorro i commenti che dimostrano curiosità, interesse e fiducia nel progetto, leggo con perplessità le opinioni sarcastiche, passo i commenti polemici e poco pertinenti dettati dalla non lettura informata del post e infine mi soffermo su quelli critici. In quest’ultimi scorgo più che altro paura, insoddisfazione, divergenza di vedute e poca chiarezza rispetto a cosa voglia dire effettivamente portare la filosofia all’infanzia.

FilosofiacoiBambini non è la sola pratica filosofica che si occupa di ciò, ma è quella che più mi sento di portare avanti. Vediamone alcuni punti.

#1 FILOSOFIA? BAMBINI

La questione del linguaggio è una tematica che mi sta particolarmente a cuore. Scrive M. Black “se la grammatica ci insegna qualcosa di filosoficamente rilevante bisogna trattarla con maggior rispetto”. C’è, infatti, un forte dibattito dettato dalla necessità di trovare quel termine corretto che unisca la parola “filosofia” ai destinatari di tale pratica, ossia i bambini. Ecco perché nel punto di domanda in #1 si troveranno varie preposizioni, ognuna delle quali, volta a sottolineare alcuni aspetti ed escluderne altri. Non posso fare a meno di notare che spesso la differenza terminologica altro non è che una presa di posizione, con il solo fine di differenziarsi dagli altri “addetti ai lavori”. In linea con M. Black mi sento di dire che il linguaggio, rappresentando la realtà, è parte della realtà esso stesso; le terminologie utilizzate non devono perciò avere pretese universali e metafisiche. Importante è adattarsi alle regolarità e irregolarità che l’esperienza ci fa scoprire, quindi è necessario che la lingua sia idonea a esprimere ogni cosa com’è o come potrebbe essere.

#2 APERTURA ALLA RICERCA

Martha Nussbaum nel volume Non per profitto parla di uno squilibrio tanto dannoso quanto attuale: la crisi mondiale dell’istruzione. A sottolineare il disagio di tale situazione sono le parole che accompagnano il suo discorso: “crisi strisciante” e “crisi silenziosa”. FilosofiacoiBambini, consapevole di ciò, pur agendo in svariati contesti, privilegia lo svolgimento della pratica filosofica nelle scuole (dall’infanzia alla primaria), che restano le migliori palestre per la mente. Proprio nella scuola dovrebbe esserci la costanza di portare avanti un percorso ben strutturato per vederne gradualmente i frutti. Le varie situazioni non sono sempre uguali; si incontrano sempre difficoltà nel momento in cui setting rigidi non si aprono alla fiducia del rinnovamento. Dietro ai laboratori svolti c’è una strutturata ricerca sperimentale – da parte di persone motivate e preparate – volta a osservare molte variabili, tra cui: diverse personalità nelle classi, componenti emotive, tendenze comuni, standardizzazione delle risposte, linguaggio usato, tipologie di ragionamenti, velocità di feedback, dinamiche di gruppo, etc. Il tutto viene monitorato con video, appunti e altro materiale. Ci teniamo costantemente aggiornati, progettiamo, sperimentiamo allenamenti nuovi con il fine di diffondere il metodo utilizzato in più luoghi possibili; scriviamo, partecipiamo a convegni e conferenze per presentarne i risultati.

#3 SHARING FILOSOFICO

In un mondo connesso, lo è anche la filosofia. Creazione, condivisione e diffusione sono tre parole chiave che FilosofiacoiBambini cerca di realizzare al meglio. L’accelerazione

delle dinamiche sociali nell’era dei social media porta con sé nuove esigenze e nuovi bisogni di comunicazione. Per esempio, visitando quotidianamente la pagina Facebook, Twitter e sito web, i genitori, gli insegnanti, o chi semplicemente è interessato potranno avere piccoli scorci su che cosa effettivamente si fa in classe. Si cerca di rendere fruibile, in tempo reale, le esperienze che quotidianamente sperimentiamo pubblicando post, articoli, aggiornamenti sugli spostamenti dell’associazione, riflessioni, foto, pensieri, informazioni logistiche, squarci di laboratori e così via. La velocità e la praticità dell’online permettono di cogliere al balzo varie tipologie di feedback da parte degli utenti e quindi gestire al meglio il passaggio funzionale di informazioni.

#4 RICETTIVITA’ AL CAMBIAMENTO

Rivoluzione è anche Evoluzione. È necessario essere ricettivi nel senso etimologico di “atto a ricevere”; capire quello che è stato per reggere bene le nuove esigenze. Fare filosofia coi bambini equivale a captare il cambiamento del tessuto sociale in maniera critica; i bambini di oggi non sono più quelli di ieri, non guardano più gli stessi cartoni animati, i giochi sono cambiati, le relazioni anche, le esperienze quotidiane sono più che mai diversificate e gli input che ricevono sono triplicati. Bisogna capire quali sono i nuovi bisogni in modo tale da lavorare qualitativamente su essi. Per fare ciò, è indispensabile includere nello studio tutte le varie realtà che circondano il bambino; da qui la necessità di una formazione rivolta anche agli insegnanti e ai genitori.

#5 PRATICA DI CREATIVITÀ

Leggendo i commenti del post di cui parlavo all’inizio mi soffermo su: “insegnamento che a quell’età sarebbe assurdo”, “fughe in avanti”, “creazione di una generazione di disadattati”. Vorrei rispondere che la pratica filosofica rivolta all’infanzia non è una filosofia dell’ipse dixit, non è sostituzione ad altre materie, ma integrazione e ampliamento; non è settorialità di vedute, ma apertura interdisciplinare a 160 gradi, non è ragionamento astratto, ma dialogo e ascolto sulle cose “a portata di bambino”; essa non è necessaria ma possibile, quindi realizzabile. In questo modo i bambini si abituano al pensiero logico, a quello trasversale, migliorano le funzioni esecutive, verbalizzano concetti, collegano campi semantici diversi, dimostrano capacità di problem solving e spesso li ritroviamo a ragionare “in team” nel momento in cui prendono decisioni comuni. Essendo liberi di pensare, diventano liberi di agire.

Carlo Maria Cirino -filosofiacoibambini

www.filosofiacoibambini.net

[Immagini di filosofiacoibambini]

Felicità…#100!

Si legge da un frammento di T. S. Eliot da quattro quartetti:

“I momenti di felicità…

ne abbiamo avuto esperienza, ma ci è sfuggito il significato”.

Che cosa voglia dire essere felici è una questione che vanta secoli di riflessioni filosofiche; vari modelli di eu̯dai̯monía si sono susseguiti per capire quale fosse la vera vita felice. La felicità viene collocata da molti filosofi come il fine ultimo di ogni uomo, ma la querelle su cosa voglia dire essere davvero felici sembra senza fine.

Cos’è che ci rende felici? E cosa ci svela la semantica della parola “felicità”? Essa è un accadere o un attendere? È qualcosa che va perseguito o ci imbattiamo in essa per puro caso? È qualcosa che esiste per sé, o non è altro che il piacere provato dalla cessazione del dolore?

Stando al modello tragico, il capriccio divino sembra essere l’unico responsabile (e garante) della felicità umana e quest’ultima, così come ci mostra Sofocle nella tragedia dell’Edipo re, non è altro che immagine fragile di “un’ombra che subito precipita”. Tale angoscia sull’instabilità cessa quando iniziamo a concepire la felicità non solo come “fortuna”, indipendente dal libero arbitrio, ma come qualcosa che l’uomo deve coltivare da sé. Scopriamo che l’anima, per il filosofo, può divenire dimora della felicità, quale benessere, cura di sé e assenza da turbamenti. Ma felicità è ancora tanto altro: è l’equilibrio del giusto mezzo, o all’opposto, è edonismo espansivo senza limiti. L’infelicità, perciò, non è altro che il prezzo da pagare da parte della stupidità umana, la quale, cieca difronte ai bisogni veri dell’anima, si imbatte in cose inutili o peggio ancora dannose.

Anche filosofiacoibambini s’interroga su questo e cerca di farlo cambiando prospettiva; ci sediamo in cerchio accanto ai bambini e ne parliamo con loro: la domanda che ci interessa non è “che cos’è la felicità?”, ma piuttosto “quali sono le cose che rendono felici?”. Una lunga freccia verticale viene così tracciata su un foglio: più si sale e più la felicità aumenta, più si scende più diminuisce trasformandosi nel suo opposto, la tristezza.

Cose che rendono felici: i piccoli, ad alzata di mano, elencano una svariata quantità di cose che li rendono tali. I bambini non si chiedono se quelle “cose” fanno felici tutte le persone in generale o solo loro individualmente, ma questo poco importa, rendono felici e basta.

La sensazione che si percepisce immediatamente è la semplicità con cui i bambini vivono il presente. Senza pensarci troppo, per loro felicità è qualcosa che, anche avendola provata una sola volta, li ha fatti stare bene. Le parole dette sono varie, ma tutte riflettono il loro punto di vista in una determinata situazione.

Se fuori è iniziata la primavera, felicità sono “i fiori rosa che si vedono sugli alberi”, felicità è “la sorpresa che trovo dentro l’uovo di Pasqua”, oppure “le vacanze di Pasqua” che la primavera porta con sé.

Felicità, per i bambini, è un giusto equilibrio fra il dare e prendere qualcosa di bello: “ricevere un regalo”, “dare un bacio a un amico”, “regalare dei mazzi di fiori o una collana a qualcuno”, oppure “prestare un giocattolo a un bambino”. Felicità sono i luoghi con le persone che li fanno stare bene: “la mia casa”, “la scuola con i miei amici”, “quando vado a casa della nonna” o il “parco giochi quando festeggio il compleanno”. Felicità è il bello estetico che la natura gli offre, “un’ape su un fiore”, “i colori di una farfalla”; oppure, sono le singole cose che arrivano alle loro menti in maniera intuitiva ed immediata: “le campane che suonano”, “un gelato”, “un biliardino”, “una torta con le candeline”, o “un fiume che vedi scorrere”. Felicità sono le emozioni e le relazioni che instaurano con persone ed animali. Ricorre spesso l’immagine dei cuori che simbolicamente rimanda a diversi riferimenti: “amore per la mamma e il papà”, “un cucciolo da tenere in braccio”, due amici che insieme fanno “tutto, tutto, ma proprio tutto!”. Ci sono poi cose che, dette con entusiasmo massimo, sono così rare e stravaganti da conquistarsi le posizioni più alte nella scala della felicità. “Vedere cosa c’è sulla luna”, “andare nello spazio”, “trovare una perla vera dentro la conchiglia in fondo al mare” sarebbero per i bambini felicità… cento!

Come piccoli filosofi -con sofisticati ragionamenti e dettagliate parole- i bambini sono in grado di capire la diversa importanza delle cose che rendono felici. Per esempio, “l’anello al dito di due persone che si sposano” rende più felice di “avere tanti regali per il compleanno”. “Non avere nessuno con cui giocare” è di certo molto più triste del “dover mangiare il minestrone con le verdure” o ancora, che “la noia” è più triste di un “gioco rotto”, ma molto meno triste del “dover andare all’ospedale”.

Le cose tristi, si sa, rendono tristi; ma perché fissarsi su di esse quando una cosa felice può risolvere tranquillamente una che non lo è?

Sono stupita nel vedere la creatività e la dinamicità di pensiero con cui, trovando molte alternative e soluzioni, riescono a reinterpretare cose spiacevoli in chiave piacevole. Ecco che un cucciolo può aiutare a risolvere la tristezza dell’ospedale: “se tu lo tieni in braccio, questo ti fa passare la voglia di essere disperata!”. E come può la primavera risolvere la tristezza del gioco rotto? È facile: “in primavera c’è Pasqua e quindi le uova potranno avere dentro un gioco uguale a quello rotto!”. E un disegno, come può risolvermi il fastidio dato dal quel qualcuno che ti spegne la tv sul più bello? “Beh, faccio una televisione di carta, mi metto dentro e gli altri mi devono guardare!”.

Così pensando e ragionando, ogni apparente problema ha svariate possibilità di soluzione. Finito il laboratorio esco e penso.

Penso che molte persone, soprattutto noi adulti, ritengano che la felicità sia qualcosa di estremamente complesso, che occorra guadagnarsela con molta fatica, che sia un investimento di tempo o la ricompensa a una giusta causa. Molti, ragionando così, seguono la massima del “Se sei felice, non gridare troppo: la tristezza ha il sonno leggero”.

Le cose però non stanno proprio così. Dopo aver parlato e ascoltato le idee e i pensieri dei bambini in classe, mi sento più leggera. Dopotutto capisco che mi piace (molto) di più pensare alla felicità come tanti piccoli cambiamenti che ognuno di noi, con serenità, dovrebbe mettere in atto per vivere bene gli eventi che puntualmente accadono. Per questo le parole di Seneca mi sembrano più che mai vere e pertinenti: “La felicità è un bene vicinissimo, alla portata di tutti: basta fermarsi e raccoglierla.”

Giorgia Aldrighetti -filosofiacoibambini-

www.filosofiacoibambini.net/it/

 

LA BUONA FILOSOFIA. Riflessioni e sensazioni dalla mia prima esperienza di filosofiacoibambini.

Gironzolando per i vivaci corridoi della scuola nell’incuriosita attesa di entrare in classe, sono sorpresa nel vedere i sorrisi dei bambini e l’entusiasmo con cui, correndoci incontro, urlano in coro “maestro ma che cosa facciamo oggi?”, “sei in classe da noi adesso?”; il tutto seguito da altre voci che, facendosi spazio fra quelle degli altri, chiedono ininterrottamente “ma usiamo anche la palla?”, “ma come li mettiamo i banchi oggi?”, “dobbiamo fare il cerchio?”.

E’ solo una volta ricreato un po’ d’ordine che si entra in classe.

Mi siedo alle loro spalle e li osservo attirata dai loro modi di fare: c’è chi, venendoti incontro timidamente, ti chiede chi sei o come ti chiami; c’e chi, più disinvolto, senza dire nulla inizia a raccontarti dettagli della sua festa di compleanno fatta il giorno prima. C’è poi chi, disteso sul banco con le gambe a penzoloni, sopracciglia aggrottate ed espressione assorta, ti guarda semplicemente senza dire nulla, perché sa perfettamente che sei lì per osservare che cosa si andrà a fare; perché il tempo di quell’ora è un po’ diverso rispetto a quello delle altre ore e sa precisamente che lui e i suoi compagni stanno facendo qualcosa che la maggior parte dei bambini nel resto delle scuole dell’infanzia ancora non fa.

Si inizia.

I laboratori svolti nascono con lo scopo di “mettere in scena”, tramite un semplice e neutro pretesto, delle situazioni-stimolo indispensabili al fine di collaborare dialogando. Uso la parola “neutro” perché è proprio questo quello che occorre; è necessaria una sorta di neutralità iniziale per poter riflettere partendo da punti di vista differenti e potenzialmente infiniti, andando oltre i luoghi comuni dell’esperienza. Al di là della struttura e variabilità di ogni singolo laboratorio di filosofiacoibambini, la cosa davvero interessante è tutto ciò che potrebbe accadere assistendo a uno di essi.

Scrive Narayanan, studioso di linguistica cognitiva: “Discorrere è come passeggiare”.

Direi che queste parole metaforizzano limpidamente la sensazione che si avrebbe assistendo alla diretta di un laboratorio. Il discorrere è il motore della lezione; il dialogo che intercorre fra maestro e bambini porta con sé un costrutto di parole che raccontano, spiegano, scherzano, chiedono, immaginano, ragionano e ovviamente, rispondono. La retroazione positiva di tutto ciò, conduce inevitabilmente a un passeggiare, ad un avanzare, a un progredire dialettico di discorsi, idee, ragionamenti e consapevolezze.

Essendo interessata alla filosofia del linguaggio, non posso fare a meno di notare che pensiero, parola e linguaggio, in questo lavoro, sono senza dubbio termini chiave. Potremmo parlare di “pensiero” come “cornice di parole in potenza”. Infatti, i laboratori sono anche occasioni di scoperta del possibile quale evento che invita i bambini a riflettere, esternare ed apprendere; è un e-ducĕre, tirar fuori ciò che sta dentro per volgerlo al nuovo, al diverso, anche grazie alla parola. “I bambini piccoli sanno qualcosa del linguaggio che i ragni non sanno delle ragnatele” scrive Gleitman (1972, 160), ed è proprio cosi; verbalizzando i loro concetti i bambini diventano dei piccoli grammatici, prendono coscienza di sé stessi e percepiscono il rapporto che nutrono con l’altro.

Il metodo utilizzato non mira all’impartire una nozione specifica o unitarie visioni delle cose, ma spinge a meravigliarsi di tutto ciò che potrebbe essere pensato, immaginato e quindi, fa scoprire i possibili modi con cui, tutto ciò, potrebbe essere espresso.

Il fine del laboratorio c’è, ma non è mai prefissato in anticipo; come in un rapporto di tesi ed antitesi, mutua continuamente in base alle tipologie di risposte date dai bambini. E i piccoli, nel dare i loro responsi, non sono poi così diversi da noi adulti, anzi; le loro minori conoscenze e nozioni tecniche li portano ad essere per certi versi migliori di noi “grandi”. Questo avviene perché i bambini si impegnano tenacemente a pensare a come le cose potrebbero essere altrimenti da come sono in realtà. In questi laboratori si conosce il punto di partenza, ma non si sa mai, al cento per cento, dove si andrà a finire. Anzi, in queste lezioni di filosofiacoibambini, non manca mai occasione di imbattersi nell’imprevisto, fatto di domande o risposte a cui noi stessi individualmente, non saremmo mai giunti o non ci saremmo mai aspettati.

“Serendipità è – filosoficamente – lo scoprire una cosa non cercata e imprevista mentre se ne sta cercando un’altra. Ma il termine non indica solo fortuna: per cogliere l’indizio che porterà alla scoperta occorre essere aperti alla ricerca e attenti a riconoscere il valore di esperienze che non corrispondono alle originarie aspettative”.

Anche quando queste vengono dalla bocca di un bambino di 6 anni.

Essere aperti alla ricerca e riconoscere il valore delle esperienze altrui sono requisiti indispensabili del maestro, il quale, sapendo gestire un percorso imprevisto, segue e raccoglie i pensieri dei bambini, cerca di coinvolgere tutti nella discussione, e infine, li guida a un ragionamento consapevole.

La teoria filosofica, ancor prima di esser teoria, era una pratica. In queste lezioni si sente il bisogno di ri-tornare a fare ciò e si percepiscono immediatamente i vantaggi avuti dall’uso di tale tecnica filosofica. Condividendo le nostre sottili identità impariamo a “stare nei mondi possibili” per esser poi pronti a “stare al mondo”.

La strada che conduce a una filosofia applicata all’infanzia è ancora poco battuta e per certi versi ancora troppo ignara delle possibilità da scoprire ed indagare. Filosofiacoibambini, tra le tante cose, è perciò attenta “all’educare ad essere”. È importante riconoscere che, in un periodo fertile come quello dell’infanzia, l’istruzione (intesa come acquisizione di nozioni) da sola non basta; è necessaria un’educazione che accompagni ai saperi acquisiti lo sviluppo di un pensiero che sia il più possibile vivo e fecondo, un pensiero che, essendo rimasto fin da subito flessibile e attivo riuscirà, in futuro, a gestire le variabili di una vita da costruire.

Giorgia Aldrighetti (FcB Team Ricerca, Università di Trento)

www.filosofiacoibambini.net