La fragilità umana: una bellezza da custodire

Imperfezione deriva dal latino perficere – letteralmente compiere – che va ad indicare il non compiuto, non finito, ciò che deve ancora venire a completarsi. L’essere umano è la personificazione materica stessa di questo termine. Credo che l’imperfezione sia la fonte stessa della narrazione: dove vi è perfezione, là scema il raccontare. La parola perde la propria capacità diventando completamente superflua. L’uomo, invece, è parola.
Nessuna narrazione dell’umano sull’umano può prescindere da quella che è una delle caratteristiche peculiari e connotanti di questi: la vulnerabilità. Richiamare solo la capacità di agire e volere, ignorando la vulnerabilità, fornisce una rappresentazione utopica e priva di fondamenta realistiche dell’essere umano. Basti riprendere qui le parole della filosofa Martha Nussbaum: «una parte della particolare bellezza posseduta dall’eccellenza umana consiste proprio nella sua vulnerabilità» (M. Nussbaum, La fragilità del bene, 2011).

Antigone può essere qui un esempio di grande valore. La sua è una tragedia che porta ad interrogarsi su importanti temi, quali la giustizia, i rapporti familiari, il sacrificio personale, la trasgressione delle norme. Antigone è un personaggio rivoluzionario, il cui nome porta con sé la riflessione sulla liceità degli atti umani. Chi si fa onere di tale riflessione non può trascendere la propria condizione di essere umano fallibile.
Antigone cammina verso la grotta della condanna accompagnata dall’amore per il fratello Polinice e per il diritto del singolo contro il nomos despotes. Né uno né l’altro la rendono immune dal timore, dal dubbio, da quel che già Nietzsche definì come l’assalto della realtà.
L’eroina tragica è consapevole che la sepoltura data al fratello contro la legge di Creonte non può che condurla verso la sua fine. Una consapevolezza che non può portare con sé alcuna gioia, ma solo la risolutezza a non cedere alla paura e al desiderio di volgersi indietro per imboccare una via meno dolorosa. Antigone anela la morte, ma non certo con gioia. La sua è una scelta quasi del tutto obbligata, data dalle circostanze che le rendono preferibile gli inferi al mondo dominato dall’arbitrio umano.

È chiaro, quindi, che le molteplici capacità e la consapevolezza che l’essere umano può acquisire nel corso della sua esistenza non possono debellare la fragilità che lo caratterizza. Antigone ci insegna a sopportare i dolori dell’esistenza: la sua superiorità sta nella consapevolezza della caducità della vita, manifestata attraverso l’esasperazione dell’esperienza della sofferenza, elevata ad arte.
Appare qui una struttura triangolare in cui la fragilità umana viene continuamente a confrontarsi e, quindi, scontrarsi. L’essere umano accede alla propria condizione di vulnerabilità attraverso la mediazione del corpo, del tu e del noi.

Innanzitutto, come il filosofo francese Vladimir Jankélévitch ha lucidamente puntualizzato, «l’uomo è fondamentalmente vulnerabile […] la morte può entrare in lui attraverso tutte le giunture del suo edificio corporeo» (V. Jankélévitch, Pensare la morte?, 1995). La fragilità o vulnerabilità è coestensiva alla vita: ogni creatura vivente è esposta al rischio di essere ferita e spezzata nella sua integrità a causa dei più svariati fattori esterni o interni quali violenze e malattie. In termini antropologici, la vulnerabilità del vivere indica come la promessa inscritta nella vita sia sempre esposta al rischio di essere ferita, spezzata, interrotta (P. Sequeri, E. Garlaschelli, L’umano patire, 2009). È solo grazie al corpo, infatti, che ciascuno si intuisce come un essere che nasce, cresce, invecchia e muore, che agisce e patisce, che sente dolore e piacere.

In secondo luogo: l’altro, il “tu”. La presa di coscienza del corpo come “proprio” procede di pari passo alla relazione instaurata con l’altro da sé. L’identità di sé si costituisce solamente nella relazione ad altri. L’io è sempre in relazione con alcune strette persone: la famiglia, gli amici. Si legge attraverso loro. Ci si apre a loro e in quest’apertura si scorge la possibilità di essere feriti.

Una ferita che può provenire, infine, anche dal consorzio degli esseri umani. Il suo simile può sempre agire contro di lui, lo può ferire, lo può trattare con violenza fino al punto da esporlo al rischio della morte. Basti citare brevemente Thomas Hobbes, per il quale il bisogno di sicurezza sociale è a fondamento della convivenza tra gli uomini. Questi, al fine di evitare la guerra di tutti contro tutti, accettano reciprocamente di rinunciare a porzioni della propria libertà (T. Hobbes, Leviatano).

Nonostante i risvolti che si possono presentare, credo che la fragilità umana sia il volto più umano dell’umano e che, come tale, vada preservato come quanto di più bello e prezioso che vi sia.

 

Sonia Cominassi

 

[Photo credit Mohan Murugesan via Unsplash]

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Elogio della casualità e dell’imperfezione: l’esempio dell’arte orientale

Narra la leggenda che al mondo siano esistiti soltanto quattro esemplari di yohen tenmoku, le ciotole per il tè di origine cinese che presentano un motivo a stelle nei toni del viola e del blu scuro, simili a una galassia. Attualmente si conosce l’esistenza di tre esemplari, tutti catalogati dal Giappone come tesoro nazionale: il motivo è che questo motivo “galassia” è il risultato dello yohen, la metamorfosi che avviene durante il processo di cottura della ceramica. Ecco allora che le ciotole sono in realtà ognuna diversa dall’altra anche se ugualmente uniche.

Chiunque si occupi d’arte cinese e giapponese, prima o poi deve confrontarsi con la ceramica, un’arte che in questo contesto geografico non è mai stata considerata “minore” o banalmente “decorativa” come in Europa. La raffinatezza degli oggetti, da saggiare con il tatto, la vista e l’udito, è tale da chiamare in gioco la sensibilità, la cultura e l’intelligenza di chi li incontra. I giapponesi, da sempre abilissimi ad acquisire, adattare e fare propri gli oggetti di importazione, assorbono dalla Cina un tipo di manifattura che chiamano appunto tenmoku e che pone l’enfasi sugli effetti ottenibili sulla vetrina (cioè sul “rivestimento”) e che non possono essere stabiliti a tavolino. Non è possibile, nemmeno per un ceramista esperto, controllare il processo di trasformazione durante la cottura, dunque quella delle “ciotole stellate” è di fatto una combinazione irripetibile: si stima possa essere una ogni decine di migliaia di esemplari posti a cottura. Un gioiello partorito dalla totale casualità.

Questi oggetti ceramici si rifanno a un ideale di bellezza estetica semplice e rigorosa tipica del buddhismo zen che ruota attorno al concetto di vacuità. Le ciotole utilizzate per il chanoyu (la cerimonia del tè) sono realizzate con la tecnica cosiddetta raku che prevede l’estrazione del materiale ceramico dal forno quando è ancora incandescente: in questo modo, un po’ come un dolce che se estratto troppo presto dal forno si sgonfia, la ceramica si raffredda molto velocemente e la vetrina prende forma in modo repentino, dunque in modo imperfetto. Saggiando con le dita e con le labbra la superficie del manufatto si percepiscono delle irregolarità, dei veri e propri “vuoti di materia” (segni, avvallamenti, strati e gocce di colore…) che contrariamente al nostro dolce non lievitato sono segni di eccellenza e motivo di ammirazione. In ugual maniera l’ambiente riduttivo (cioè privo di ossigeno) in cui vengono posti inizialmente i manufatti provoca anche un vuoto a livello cromatico che si diffonde sulla superficie dell’oggetto creando disegni, forme e linee del tutto casuali, un po’ come i motivi “galassia” delle yohen tenmoku. Ecco allora che nella cerimonia del tè le ciotole (come ogni altro componente del chanoyu, dalla sala fino ai rumori e ai gesti stessi che si compiono)1 diventano un’occasione per meditare sul concetto chiave della filosofia dello zen: il vuoto appunto. Il vuoto come esperienza estetica diventa veicolo di meditazione e più imperfetta è la ciotola, più il vuoto viene percepito, dunque più ci si avvicina a quello stato di illuminazione, inteso come non-attaccamento e come vivere nel qui ed ora, che costituiscono lo scopo della meditazione.

Altra ode all’imperfezione nella ceramica giapponese è la tecnica (ormai molto nota anche in Occidente) del kintsugi. Essa prevede la riparazione del vasellame ceramico rotto o crepato attraverso il versamento di metallo liquido con lo scopo di “ricucire” e rinsaldare le crepe. La fragilità del manufatto viene dunque esaltata, non nascosta, e lo si fa attraverso metalli preziosi come il rame, l’argento e l’oro, che danno all’oggetto “rotto” un valore economico addirittura maggiore. Il senso del kintsugi è quello di mostrare, attraverso l’esperienza estetica che si fa dell’oggetto, come l’esistenza sia segnata dallo scorrere del tempo, dalla transitorietà e dunque, di nuovo, dalla vacuità. Noi lo possiamo anche leggere come un elogio alla resilienza, come una accettazione e poi esaltazione della fragilità in quanto componente naturale del vivere e che può tramutarsi in motivo di forza.

L’oggetto ceramico dunque, sia quello ottenuto con la tecnica raku che riparato con il kintsugi, assume un carattere denominato sabi, termine che indica una qualità dell’oggetto data dalla semplicità e dalla manifestazione dell’essenza propria delle cose. A questo i giapponesi accostano il termine wabi, che indica l’esperienza estetica che si fa di un oggetto sabi (dunque essenziale) e in questo modo la locuzione wabi sabi è una delle modalità con cui in Giappone si può definire la bellezza: qualcosa di semplice, essenziale, naturale e dunque imperfetto, che ti fa sentire altrettanto semplice, essenziale, serenamente imperfetto, lontano da ogni attaccamento ma ben radicato nel qui ed ora, trascinato nello stato di grazia dato dalla vacuità.

Tutto questo anche con una piccola, banalissima ciotola da tè.

 

Giorgia Favero

 

NOTE

1. Per approfondire il rapporto tra la vacuità e il chanoyu (ma anche le altre discipline artistiche come il teatro no, l’ikebana e la calligrafia di china) si veda la preziosa e interessante pubblicazione di G. Pasqualotto, Estetica del vuoto. Arte e meditazione nelle culture d’Oriente, Marsilio, Venezia 2001.

Alla ricerca della perfezione: il doppio volto della corsa al successo

Se dovessi descrivere il mio rapporto col successo, mi salterebbe subito alla mente il perturbante freudiano: qualcosa che esercita un fascino irresistibile, simultaneamente a paura e repulsione. Questo perché la scalata verso la massima realizzazione e il riconoscimento sociale, seppure appaia una meta allettante, può risultare allo stesso tempo ansiogena – se non terrorizzante – per la prospettiva di un possibile fallimento.

Dopotutto, siamo una generazione cresciuta con la convinzione di poter raggiungere qualsiasi scopo grazie alla sola forza di volontà. Incoraggiati da genitori, favole televisive, uno stato di benessere diffuso e la consapevolezza di un forte stacco generazionale, uno solo è stato il mantra della nostra giovinezza: possiamo qualsiasi cosa, basta volerlo.

E se un problema ci si para davanti, osserva Miriam Goi in L’ossessione per il successo ci sta distruggendo?, ci sarà sempre una soluzione pronta all’uso per risolverlo in totale autonomia, dalle app per dimagrire ai libri per smettere di fumare, dai corsi per “inventarsi un lavoro da zero” ai gadget motivazionali (You have as many hours in a day as Beyoncé, recita uno slogan tanto incoraggiante quanto minaccioso). Il mantra si rivela così un’arma a doppio taglio, poiché non solo il trionfo ma anche l’insuccesso dipendono interamente e solamente da noi stessi: il fallimento è impietoso e si consuma in solitudine.

E così non importa quanto siamo stanchi, sottopagati, tristi, malati: il nostro profilo Instagram dovrà sempre e solo mostrare una versione perfetta della nostra vita, in una costante ansia da prestazione e rincorrendo desideri che non sappiamo neanche se definire genuini o indotti.

Forse è per questo che, specularmente a questo meccanismo, se ne instaura un altro, inconscio, difensivo, che disincentivando all’azione schiva il possibile fallimento: la procrastinazione. Come argomenta Oliver Bukerman (in L’ossessione per la perfezione ci fa rimandare le cose) la procrastinazione è solo paura mascherata, paura che deriva da standard troppo alti: se il progetto che abbiamo in mente (la carriera, una relazione amorosa, ristrutturare casa, ecc.) rischia di non essere perfetto, meglio rinunciare – anzi, rimandare. Perché l’eterno procrastinatore, ovvero l’eterno perfezionista, non può ammettere di voler rinunciare, può solo temporeggiare per non affrontare quello che teme di più al mondo: l’inadeguatezza rispetto alle aspettative (proprie e altrui). In una parola, la banalità.

Non siamo più figli di un platonismo che insegna innanzitutto ad accettare i limiti umani, assumendo che sia impossibile raggiungere la perfezione (esclusiva ultima del mondo delle idee), ma che tale perfezione sia piuttosto un modello per guidarci in un mondo ontologicamente imperfetto. Oggi, al contrario, se considerare la perfezione alla portata di tutti da un lato ci sprona a inseguire i nostri sogni più coraggiosi, dall’altro ci porta a colpevolizzarci per i nostri limiti, ossessionarci fino alla psicosi, mentire a noi stessi per proteggerci. Ci hanno insegnato ad essere ottimisti, fino a non saper gestire le sconfitte. Mentre è proprio il pessimismo l’unica soluzione: il partire dal presupposto che le cose potrebbero, non sicuramente ma con una certa probabilità, andare male, ci aiuta ad accettare la possibilità del fallimento come parte del processo, a porci una meta con una approssimazione meno precisa, a ritagliarci un margine di errore. E ci permette di buttarci, come quando da bambini ci buttavamo a giocare senza paura di sbucciarci le ginocchia (perché tanto sì, ce le sbucceremo).

Rinunciare al mito della perfezione per abbracciare la perfettibilità della realtà: ripartire da Empedocle, quando sosteneva che la vera perfezione è l’imperfezione, perché offre sempre infinite possibilità di miglioramento.

Anna Merenda Somma

Anna Merenda Somma, Ravenna, classe 1990, da piccola voleva fare la disegnatrice Disney, poi l’arredatrice Ikea, poi la giallista e infine, alla costante ricerca di mestieri sempre più ardui, l’insegnante. A 14 anni scopre la filosofia ed è amore a prima vista, poi è la volta degli studi di genere, e l’amore si rinnova. Consegue la laurea in Scienze Filosofiche nel 2016 a Firenze, e da allora si occupa di identità di genere, femminismo, eteronormatività, queer theory, LGBTQ rights e altre cose difficili da pronunciare. Specializzata anche in procrastinazione e dolci bruciacchiati.

[Immagine tratta da Google Immagini]

Come stai? Bene! (sbagliato)

Come stai?

A volte dietro questa semplice domanda si nascondono le risposte più impensate, anche dalle persone che crediamo di conoscere bene. Spesso quelle risposte vengono bloccate, represse, ingoiate e rimangono dentro come macigni, mentre la nostra bocca pronuncia un flebile “bene grazie”.

L’apparenza a cui siamo costretti il più delle volte è un’abitudine deleteria, un’usanza che ci uccide dentro per dare dimostrazione della nostra perfezione all’esterno.

Perché siamo costretti a mentire, a fingere benessere, a pensare che tutto stia filando liscio? Per paura, per bisogno e necessità. Per gli altri. Si mente pensando all’altro, a chi potrebbe soffrire del tuo malessere, a chi potrebbe sì consolarti ma non aiutarti.

Eppure tutto poi viene fuori, in un modo o in un altro.

Occhi acuti, sguardi attenti e orecchie in ascolto percepiscono ogni minimo cambiamento, ogni espressione diversa e piano piano ti inducono ad estrarre dal petto quel macigno, senza che tu debba necessariamente dare spiegazioni.

La mente in queste situazioni è assolutamente assuefatta, percorre imperterrita la sua strada, ascolta le parole altrui ma le sente da lontano, come una eco, a volte fastidiosa, altre confortante, ma comunque inutile ad interrompere la sua corsa.

Quale corsa poi?

Un percorso ardito verso il nulla, verso qualcosa che si prospetta già determinato, finito, senza uscita eppure una strada che ti rapisce e ti inghiotte come un vortice senza darti il tempo nemmeno di respirare.

Arriva poi un giorno, quando la mente si ritrova sotto acqua, in apnea da troppo tempo, e, anche se lei continuerebbe lo stesso in tali condizioni, il fisico dice basta! e inizia a mandare segnali di malessere, quello stato che la mente aveva represso, vivendo di mezze felicità, di attimi di gioia e di gabbie costruite ad hoc.

E quella domanda ‘come stai?’ inizi a fartela tu. Sì, inizi finalmente a parlare con te stesso, a cercare chi sei o chi sei diventato e perché sei diventato così. Le risposte ovviamente non arrivano perché la mente continua a mentire e a non ascoltare il corpo.

E perché mente?

Perché vuole vivere!

Perché nonostante il dolore, la sofferenza che si possono provare in determinate situazioni, la mente si sente viva!

Il dolore non è qualcosa che va bypassato o da cui occorre scappare, il dolore è qualcosa che va attraversato, vissuto fino in fondo, perché no anche subìto per poterlo conoscere e per dire, una volta superato, di avercela fatta veramente, senza più la paura di ricadere nello stesso tunnel.

A volte la vita ti permette di avere queste esperienze che all’inizio sembrano casuali, capitate per chissà quale motivo, solo alla fine delle stesse ti rendi conto che niente è per caso e che erano le ennesime prove per conoscere di più se stessi.

Dire per ogni cosa “a me non capiterà mai” è sbagliato. Può capitare tutto a tutti ma questo non vuol dire essere persone cattive, false, amorali.

La nostra vita ha bisogno di scosse di amoralità, di finzione e di sorpresa per aiutarci a capire i nostri limiti, le nostre debolezze, le nostre mancanze o le nostre necessità, altrimenti se tutto filasse sempre liscio non potremmo mai capire cosa vogliamo veramente dalla vita, perché saremmo adagiati ad una routine in cui tutto scorre come sempre.

Ora la routine a me fa paura, come mi fanno paura il mare calmo o il cielo sereno. Sono tutti momenti di apparente stasi in cui tutto può succedere all’improvviso. La vita che ti sorprende ogni giorno, il mare mosso o il cielo tempestoso ti turbano sicuramente perché non danno certezze, però ti mettono alla prova, ti sfidano, minando le tue certezze, mettendo alla prova la tua coerenza, cercando di farti guardare dentro per trovare la forza che nella routine non hai bisogno di manifestare.

Recentemente, la scrittrice di Harry Potter, J.K.Rowling, durante il discorso ai laureandi di Harvard ha speso bellissime parole per il concetto del “fallimento”:

Fallire ha voluto dire spogliarsi dell’inessenziale. Ho smesso di fingere di essere qualcos’altro se non me stessa e ho iniziato a indirizzare tutte le mie energie verso la conclusione dell’unico lavoro che per me aveva importanza. Non mi occupavo davvero di nient’altro, se non trovare la determinazione nel riuscire in un campo a cui credevo di appartenere veramente. Ero finalmente libera perché la mia più grande paura si era davvero avverata, ed ero ancora viva […]

Una certa dose di fallimento nella vita è inevitabile. È impossibile vivere senza fallire in qualcosa, a meno che non viviate in modo così prudente da non vivere del tutto – in quel caso, avrete fallito in partenza.

Fallire mi ha dato una sicurezza interiore che mai avevo raggiunto superando gli esami. Fallendo ho imparato cose su me stessa che non avrei mai imparato in un altro modo. Ho scoperto che ho una volontà forte, e più disciplina di quanto avessi pensato; ho anche scoperto che avevo amici veramente inestimabili.

Il sapere che vi rialzate più saggi e più forti dalle cadute significa che sarete, da allora in poi, sicuri nella vostra capacità di sopravvivere.

Non conoscerete mai voi stessi, e la forza dei vostri legami, fino a quando entrambi non saranno provati dalle avversità.

Una tale conoscenza è un vero dono, per tutto ciò che avrete vinto nella sofferenza, e per me ha più valore di ogni altra qualifica abbia mai guadagnato.

Il fallimento come il dolore, come il senso di colpa o il senso di assenza e mancanza, sono occasioni!

Occasioni per liberare noi stessi dalle gabbie mentali in cui ci ostiniamo a vivere.

Occasioni per sentirci liberi di dimostrare chi siamo senza vergognarci.

Occasioni per urlare agli altri che sì, nemmeno noi siamo perfetti!

Una volta raggiunta la consapevolezza del fallimento come occasione, ci saremo davvero rialzati più forti di prima e avremmo capito la forza di noi stessi che prima era celata dentro di noi.

Stay hungry

Stay foolish

è un frase ormai anche troppo utilizzata, eppure è un motto che deve far parte della nostra vita sempre e comunque.

Essere affamati, avere voglia di prendere a morsi la vita, qualunque cosa essa ti presenti davanti è lo spirito che ti permette di affrontare le avversità.

Essere folli è andare incontro all’imperfezione, abbandonando la strada del consueto, del banale e del finto perfetto, perché solo nella follia assapori veramente il gusto della vita, dolce o amaro che sia, e solo la follia ti concede il lusso di osare, sbagliare e ricominciare.

L’abitudine spesso sbiadisce i colori

Ravviviamoli perdendo, ogni tanto, l’equilibrio.

Valeria Genova

[Immagine tratta da Google]