Chi vuole vivere per sempre?

Quanto a lungo può vivere un essere umano? Quanto a lungo ambireste a vivere voi?

Che vi siate posti o meno queste domande durante qualche vostro intimo viavai di pensieri, sappiate che la scienza è intensamente interessata a capire la risposta alla prima domanda e arrivare ad assecondare le aspettative più esose sulla seconda domanda, ad un certo prezzo. In vari laboratori del mondo, in particolare negli Stati Uniti (la Silicon Valley è un hot point a tal proposito), una cricca di scienziati audaci e imprenditori estremamente facoltosi stanno unendo le loro rispettive risorse, ovvero abilità tecno-scientifica e ingenti investimenti economici, per sfidare l’oltraggioso limite connaturato alla nostra natura di mortali: la morte, appunto. Ma prima di vedere chi sono gli sfidanti dell’immortalità, vediamo come gli umani, abitanti dell’Occidente in primis, si sono “disabituati” al proprio destino in scadenza.

Oggi è molto più probabile che l’umano medio muoia per i rischi connessi a un’alimentazione eccessiva e inappropriata piuttosto che a causa di un virus, di un attacco terroristico o per la fame. Infatti, nel 2014 è accaduto per la prima volta nella storia che la bilancia tra affamati e obesi pendesse dalla parte di quest’ultimi: 2,1 miliardi di persone sovrappeso a fronte di 850 milioni di persone denutrite. Yuval Noah Harari, nel suo ultimo libro Homo Deus. Breve storia del futuro (Bompiani 2017), illustra molto bene la situazione a tal proposito, analizzando le cause di morte nel mondo intero, conclude che lo zucchero è attualmente molto più pericoloso della polvere da sparo, in quanto il diabete è un’arma che uccide di più delle armi vere e proprie. Eppure, l’aspettativa di vita si è comunque allungata di molto, tanto che solo una minima percentuale di individui muore prima di raggiungere l’età adulta. Questo perché siamo diventati piuttosto bravi a curare le malattie, tanto che la morte sopraggiunge sempre più spesso dopo anni di cronicità di una certa patologia. Mentre impariamo ad allungare la vita procrastinando la morte (ma non sempre garantendo che la sopravvivenza aggiunta sia all’insegna della salute), stiamo anche diventando molto bravi a creare la vita in laboratorio, artificialmente. Una domanda dovrebbe sorgere allora spontanea: che prospettive ci sono per l’umanità considerato tutto questo potere di cui ora disponiamo? È ormai evidente a molti che un obiettivo sempre più stringente è quello di metterci al riparo, assieme al nostro pianeta, dai rischi del nostro potere.

Il potere di manipolare la vita e la morte, sottraendoli a quell’alone di mistero e imprevedibilità a noi poco gradito, ci seduce come la più grande rivincita sul nostro destino di mortali da sempre consegnati al volere divino o naturale, a seconda delle prospettive. Quando non avevamo strumenti contro la morte, essa era il momento più sacro per la comunità e la cerchia di persone più affezionate si riuniva attorno al morente per celebrare con lui o lei la sua vita, esaltandone il significato alla luce dell’imminente fine. Fino al 1800 l’aspettativa di vita media era attorno ai 30 anni (non mancavano le persone longeve, ma erano l’eccezione e non la regola). Si moriva facilmente e spesso senza nemmeno capire perché. Michel de Montaigne scriveva nel XVI secolo che morire di vecchiaia è una morte rara, singolare e straordinaria, molto meno naturale delle altre: è l’ultima e più estrema forma del morire.

Ci sono voluti molti contributi nella storia del progresso scientifico per arrivare a comprendere i meccanismi di morte e, in seguito, definire procedure e strumenti per procrastinarla. È stato necessario violare ripetutamente l’integrità dei cadaveri, studiati fin dall’antichità e spesso di nascosto, per carpire i meravigliosi segreti del corpo umano: anatomia, fisiologia e patologia, in circa 2000 anni. Ma è bastato poco più di un secolo per acquisire delle capacità inaudite. La scienza, infatti, ha partorito la sua più potente alleata: la tecnica medica. Nel XX secolo abbiamo scoperto come rendere reversibile un arresto cardiaco, come accertare l’arresto cardiaco irreversibile, abbiamo creato la morte cerebrale, inventato i trapianti, l’editing genetico, sconfitto varie patologie o spostato nel tempo il momento della loro vittoria. E molto altro. Adesso stiamo cercando di fermare l’invecchiamento in vari modi, ad esempio, si vuole capire come impedire alle nostre cellule di morire disattivando il loro programma di autospegnimento. Ma è possibile? Sì, le cellule cancerose sono potenzialmente immortali perché hanno disinnescato il loro programma di autodistruzione, dobbiamo solo capire come volgere il meccanismo a nostro vantaggio. Ma altre linee di ricerca guardano al nostro DNA, anch’esso coinvolto nel processo di invecchiamento. Oppure, nel caso non sia questa la via, c’è chi sta pensando a come trasferire la mente in un altro corpo, sintetico, senza recuperare a tutti i costi quello in via di estinzione.

Al momento abbiamo vinto parzialmente il traguardo di vivere più a lungo, di guadagnare più salute globalmente e di morire molto probabilmente di vecchiaia sempre più avanzata, solo quando l’ultimo disguido tecnico avrà la meglio sulla corretta fisiologia. Non c’è netta separazione tra l’intervento che ha intento curativo da quello migliorativo, il confine è sfumato. Si inizia sempre, in medicina, con l’idea di salvare dal peggio, ma sempre più spesso si finisce per usare le scoperte per ottenere di meglio molto prima che il peggio arrivi, giusto per migliorare gli standard della specie umana. Il confine tra terapia e miglioria non è ben chiaro né tantomeno condiviso. Sempre Harari, sostiene che il sogno dell’umanesimo della tecnoscienza sia sconfiggere la morte. Google è una delle aziende che ha investito maggiormente, attraverso società ad essa legate (Calico e Google Ventures) nella ricerca di abolire il limite della mortalità o, nel frattempo, di potenziare la longevità aggiungendo qualche decennio alla volta. Questo è l’obiettivo dentro i laboratori della ricerca, quelli finanziati da potenti società che ormai primeggiano nell’economia mondiale, ma poi, eventuali risultati saranno alla portata di tutti? Viste le enormi somme destinate a questi scopi, è probabile che i fruitori saranno coloro che potranno permettersi le cifre molto alte per ripagare i costi dei preziosi elisir. Se queste ricerche avranno successo, aumenterà ancora una volta la forbice tra chi può e chi non può garantirsi un privilegio ad alto costo. Ma chi vuole vivere per sempre, o anche solo fino a 150 anni? Forse molti di noi sono già sereni nell’accontentarsi di una sobria vecchiaia, negli attuali standard, auspicandosi soprattutto più anni di salute piuttosto che di vita a qualunque costo. Il problema, però, è che potrebbe non farci piacere sapere che un giorno alcuni individui molto potenti e spregiudicati saranno in grado di garantirsi oltremodo la loro intralciante presenza sulla scena mondiale.

Allora viene da pensare che nella morte c’è un principio di giustizia, come scriveva Anassimandro, più di 2500 anni fa: l’ordine del tempo porta la sua giustizia facendo cessare tutte le cose. La nascita è il sorgere dell’ingiustizia e questa si paga con la morte, ma questo, all’uomo del XXI secolo, non va proprio giù.

 

Pamela Boldrin

 

[Photo credit: Ornella Binni via Unsplash]

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Plotino e l’immortalità dell’anima

Quando parlava di sé, Plotino, un grande filosofo del III secolo d.C., era molto modesto: si definiva un semplice discepolo di Platone. Si presentava quindi agli altri come un pensatore non originale, che si limitava a riproporre teorie già formulate in passato. «Le nostre teorie» – egli scrive – «non sono nuove né di oggi, ma sono state pensate da molto tempo anche se non in maniera esplicita e i nostri ragionamenti sono l’inter­pre­ta­zio­ne di quelli antichi, la cui antichità ci è testimoniata dagli scritti di Platone». Sant’Agostino stesso affermerà che Plotino è un «Platone tornato nuovamente in vita» (Contra Academicos, III, § 18). Tuttavia, come scrive Francesco Chiossone, gli studiosi di Plotino sanno bene che egli «fu molto più che un emulatore»; il filosofo greco, infatti, «seppe concepire un sistema speculativo mirabile per coerenza e profondità, ristabilendo il primato della metafisica e contribuendo così in maniera decisiva alla rinascita del Platonismo».

Per avere un piccolo assaggio della capacità di Plotino di trasmettere e rielaborare la grande tradizione filosofica che lo precede, è possibile leggere il suo trattato su L’immortalità dell’anima, recentemente pubblicato dall’editore Il melangolo. Il testo è un breve estratto delle Enneadi e lo scopo delle sue pagine, come si evince chiaramente dal titolo, è quello di «dimostrare l’immortalità dell’anima deducendola dalla sua incorporeità». La potenza concettuale che Plotino esibisce è indubbia; si tenga tra l’altro presente che «il repertorio di argomenti di cui si serve qui Plotino continuerà a essere utilizzato da filosofi e teologi dei secoli futuri».

Ma quali sono esattamente le prove che Plotino adduce in favore della tesi dell’immortalità del­l’anima? Innanzitutto egli esclude che l’anima sia un corpo o un aggregato di corpi. «La vita appartiene necessariamente all’anima», nota infatti Plotino; «ora, quale potrebbe essere un corpo di per sé dotato di vita? Il fuoco, l’aria, l’acqua e la terra sono di per sé inanimati», e «non esistono altri corpi oltre a questi. […] Ma se nessuno di essi possiede la vita, è assurdo dire che la loro unione crea la vita», così come è assurdo identificare l’anima a uno di essi. Se è impossibile che «un ammasso di corpi generi la vita», «ancora più impossibile», per Plotino, è che «cose senza intelligenza diano origine all’intelligenza». In sintesi: «il corpo non genererà mai l’anima».

Non essendo un elemento, un corpo o un aggregato di elementi o di corpi, l’anima è necessariamente semplice, incorporea, immateriale: «quest’essere», scrive Plotino, «non ha a che fare né con la quantità né con la massa, e la sua essenza è di tutt’altra natura». Ma questo implica che l’anima non possa essere annientata in alcun modo. Spiega infatti Plotino: «tutto ciò che, venendo all’esistenza, implica una composizione, si dissolve poi naturalmente negli elementi di cui è composto; ma l’a­ni­ma non finirà così, perché è una, semplice, e la sua natura consiste nel vivere in atto. Forse potrebbe morire se fosse divisa e frantumata, ma, come si è già dimostrato, l’anima non è una massa né una quantità. Potrebbe allora andare distrutta se subisse una qualche alterazione; l’alterazione, però, quando è causa di distruzione, sopprime la forma ma lascia intatta la materia e questo accade solo a un essere composto. Se dunque l’a­ni­ma non può essere intaccata in nessuno di questi modi, sarà necessariamente incorruttibile».

Plotino fornisce anche altre prove dell’immortalità dell’anima. Una di esse è basata sul principio per cui “il simile conosce il simile”. L’anima – argomenta Plotino – non conosce solo cose finite, materiali e divenienti: essa, col proprio pensiero, può concepire e contemplare anche gli «esseri celesti e […] quelli ultracelesti, cercando di ogni cosa l’essenza e risalendo fino al primo principio». L’anima, cioè, è in grado di oltrepassare col pensiero le cose temporali e di affacciarsi sulle realtà eterne. Questa sua capacità «fa sì che l’anima, partecipando di conoscenze eterne, sia anch’essa eterna». Infatti, – si chiede Plotino – come potrebbe ciò che è corporeo pensare l’incorporeo? Come potrebbe ciò che è mortale avere notizia di ciò che è eterno? Solo il simile può conoscere il simile; sicché, se l’anima conosce non solo cose caduche, ma anche cose atemporali, divine ed eterne, ciò accade perché evidentemente lei stessa è un che di divino e di eterno. «L’a­ni­ma coglie l’eterno con ciò che essa ha di eterno», scrive infatti Plotino.

Un’altra prova si sviluppa a partire dalla considerazione che l’anima è principio di vita, e dunque vita per essenza. Che l’anima sia principio (cioè causa e sorgente) di vita, e in particolare principio della vita dei corpi, è innegabile. Infatti, poiché gli elementi che compongono i corpi sono inanimati, lo saranno anche i corpi che tali elementi vanno a formare. L’animazione, la vita, il movimento e in generale ogni forma di “attività” provengono quindi da qualcosa che, pur “abitando” elementi e corpi, non è un elemento o un corpo. «L’anima», scrive Plotino, «è il principio del movimento, e fornisce il movimento alle altre cose, mentre lei si muove da sé; e inoltre dona la vita al corpo […], mentre lei la possiede da sé, e non la perde proprio perché la possiede da sé». L’anima non può morire appunto perché, essendo principio di vita, «non può certo ricevere il contrario di ciò che apporta», ovverosia la morte.

Se l’anima morisse, infatti, essa accoglierebbe in sé la morte, ne verrebbe invasa, e quindi la vita sarebbe morte, nel senso che la vita, che l’anima è, si identificherebbe alla morte, e quindi al proprio altro. Ma che qualcosa (in questo caso la vita, la non-morte) sia identico al proprio altro (la morte, la non-vita) è, anche per Plotino, un assurdo; anzi, la definizione stessa dell’impossibile, di ciò che non può aver luogo. Ne segue che l’anima, in quanto è principio di vita, è vita inestinguibile e immortale.

Gianluca Venturini

 

BIBLIOGRAFIA

Plotino, L’immortalità dell’anima, trad. di F. Chiossone, Il melangolo, Genova 2017

[L’immagine è una rielaborazione digitale del quadro di W.A. Bouguereau, Psyche et l’Amour (1889) – immagini tratte da Google immagini]

 

 

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L’immortalità dell’anima secondo Cicerone

Nel discutere dell’immortalità dell’anima nel primo libro delle Tuscolane Cicerone si interroga sul valore che può avere la morte per l’uomo. È un accadimento in sé negativo? Si può dire infelice il defunto? Si può dirlo felice? Tutto ciò nella narrazione si svolge all’interno di una dialettica di domanda e risposta tra due dialoganti. La risposta da ultimo sarà che il defunto non può essere infelice se cessa di esistere, e se l’anima continua ad esistere allora egli sarà contento di non essere finito nel nulla, e quindi l’uomo dopo la morte sarà felice o non sarà, e via dicendo.

Più intriganti di questa argomentazione, lineare e tipica nei modi dell’indirizzo antico di ispirazione platonica, sono gli argomenti aggiunti a mo’ di corollari in sostegno della tesi dell’immortalità dell’anima. Cicerone mostra che molti atteggiamenti umani affermano in modo implicito l’immortalità dell’anima. Pur non interessandosi del problema, o addirittura negando l’immortalità dell’anima, gli uomini vivono come se essa fosse immortale. Questi comportamenti sono tutti accomunati da un atteggiamento di fondo: la cura per il futuro oltre la propria morte. Questa attenzione per il mondo, per gli altri uomini e per se stessi dopo la propria morte è per Cicerone la prova che ognuno sa intimamente l’immortalità della propria anima e vive coerentemente con questa credenza.

Un esempio citato da Cicerone, ma che può essere esteso facilmente, è Achille. Egli, ci narra Omero, sacrifica la propria vita per una vita aumentata nel ricordo della posterità. Tale ambizione non avrebbe alcuna presa sul nostro immaginario se fossimo veramente convinti che tutto si esaurisca con la nostra morte e con quella degli altri. E cosi ogni forma di ambizione, e più in generale ogni forma di affermazione della vita sulla morte, della permanenza sul nulla.

«Però il più valido argomento per provare il tacito giudizio sull’immortalità dell’anima, espresso dallo stesso istinto di natura» scrive Cicerone, «è la preoccupazione generale e vivissima per ciò che accadrà dopo la morte»; successivamente aggiunge: «Dunque lo zelante agricoltore pianterà alberi di cui egli non vedrà mai i frutti, e il grand’uomo non pianterà leggi, istituzioni di uno stato? La procreazione della prole, la propagazione del nome, l’adozione di figli, la diligente redazione dei testamenti, gli stessi elogi funebri scritti sulle tombe,  cosa vogliono significare se non che pensiamo anche al futuro?»1.

Di contro una visione che rifiuta l’immortalità dell’anima per Cicerone potrebbe o cedere all’incuria verso il futuro o cedere a comportamenti che contraddicono questo rifiuto.

Questo modo di pensare che ricerca verità nei comportamenti comuni e ne esplicita i presupposti, che è caratteristico del filosofare antico, risulta però improponibile alla sensibilità epistemologica moderna. Tuttavia una sua ripresa potrebbe aver effetti positivi in quanto mostrerebbe che ogni agire ha i suoi presupposti e individuerebbe (anche in funzione critica) quali sono i nostri.

 

Francesco Fanti Rovetta

[Immagine tratta da Google Immagini]

 

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James Dean: attore, icona, mito

A 24 anni si è ancora forse troppo giovani per capire cosa fare della propria vita. Si è da poco entrati in un mondo nuovo, fatto di grandi sfide e decisioni da prendere. Ci si guarda intorno spaesati.
Il 30 settembre 1955, sulla Route 466, James Dean moriva in un incidente stradale, al volante della sua Porsche 550 Spyder, “Little Bastard” come l’aveva lui stesso soprannominata.
A soli 24 anni se ne andava un ragazzo già uomo, un talento purissimo del grande cinema americano, un timido ribelle.
Tanto è stato scritto negli anni di Dean, fiumi di inchiostro. Il suo viso è ritratto ovunque: fotografato con cappello da cowboy e sigaretta stretta tra i denti, con un sorriso sornione e furbo, immortalato con il suo sguardo di ghiaccio, un’aria da ribelle senza tempo e una bellezza immortale.

È stato e continua ad essere lo specchio di un’epoca: figlio di una generazione che aveva versato sangue sui campi d’Europa e del Pacifico durante la Seconda Guerra Mondiale e che stava costruendo l’America di oggi, rappresenta l’inadeguatezza e la ribellione di un giovane uomo che cerca il suo posto. “Rebel without a cause”, come il titolo originale di Gioventù bruciata, è l’espressione che più si avvicina a ciò che Dean rappresenta.

Nei soli tre film in cui ha recitato si percepisce tutta la sua anima, la sua potenza; non si limitava solo a recitare, portava tutto sé stesso all’interno del suo personaggio, si fondeva in un tutt’uno. Che si chiamassero Cal Trask, Jim Stark o Jett Rink poco importava, esisteva solo uno, James Dean.

Celebri sono le sue improvvisazioni, come quella incredibile e commovente ne La valle dell’Eden, in cui interpretando Cal porta al padre 5000 dollari per risarcirlo di una perdita economica. Il suo viso è carico di gioia. Il padre però lo respinge e nella sceneggiatura originale Dean avrebbe dovuto andarsene. Invece rimase sulla scena, mutando gradualmente espressione, disperandosi, piangendo, aggrappandosi abbracciato al padre.
Se lo si vede recitare si ha subito l’impressione di trovarsi di fronte ad un attore diverso dagli altri: ci si immedesima subito nella sua irrequietezza, un’angoscia che sembra non trovare quiete. Si viene catturati dalla sua bellezza portata in maniera timida, con quel senso di ribellione e imbarazzo di un ventenne che è già uomo, che se ne frega, che vuole vivere a 100 all’ora.

Fu proprio la sua passione per la velocità a portarlo via così presto; correva regolarmente in moto e in auto e quando morì stava andando a Salinas, in California, per partecipare ad una corsa.

È stato definito in molti modi: sfacciato, ipersensibile, insicuro, sofferente, un ribelle che usava la provocazione come maschera del proprio disagio. Ma forse più semplicemente Dean era «troppo veloce per vivere, troppo giovane per morire», uno di quei ragazzi destinati a diventare un mito che trascende il tempo, un simbolo di ribellione emotiva e interiore, diversa dalle grandi correnti giovanili che avrebbero investito il decennio successivo alla sua morte. Il suo fascino e la sua bravura rimangono limpidi ancora oggi. La sua stella ha brillato per pochi anni, ma la sua immagine di timido ribelle in jeans, maglia bianca e giubbotto rosso rimarrà immortale.

Lorenzo Gardellin

[Immagine tratta da Google Immagini]

Stampanti di corpi per vivere in eterno

E se fossimo alle porte di una rivoluzione evolutiva? In un futuro lontano (ma non troppo) sarà possibile “stampare” organi grazie a stampanti 3D dotate di “inchiostro” a base di cellule. Questi organi artificiali potranno poi essere trapiantati sostituendo le parti malate o danneggiate del nostro corpo: un ulteriore passo verso l’immortalità? Probabilmente sì. Il tempo sarà l’unica variabile in gioco nell’inesorabile progresso tecnologico che un giorno ci consentirà di replicare e sostituire qualunque parte del corpo. Persino il cervello un giorno sarà stampabile? Il cervello è stato definito “il pezzo di materia più complesso dell’universo” ma è pur sempre materia finita con determinate caratteristiche. Una volta studiate e mappate, si potranno replicare? Avremo interi corpi “di riserva” in grado di superare il naturale decadimento materiale e in cui ci potremo trasferire a nostro piacimento? Tutto è possibile anche se gli interrogativi si susseguono veloci: che cosa siamo noi e che cosa il nostro corpo? come faremo a trasferirci in un altro corpo? il mio bagaglio di conoscenze resterà intatto? E soprattutto: sarò ancora proprio io? Ma la vera domanda che questa prospettiva ci pone è: che cos’è la coscienza? Dove ha sede? E poi, è davvero “solo” materia ciò di cui siamo fatti? Per alcuni studiosi la risposta potrebbe essere affermativa, basti pensare a come ogni singola emozione può oggi essere spiegata in termini biologici come scambio di enzimi, ormoni, neurotrasmettitori, elettricità, et cetera.

Tutto è materia, persino un concetto come la felicità è una relazione chimica all’interno del nostro corpo. Tuttavia, la replicabilità dell’intero corpo umano ci fa pensare il contrario. Infatti, per quanto possa essere riprodotto esattamente il mio corpo, nulla farà in modo che il mio punto di vista si sdoppi. Vale a dire che l’altro corpo sarà sempre “altro” da me. Il cervello è la parte del nostro corpo in cui “risiediamo” più che in altre? Forse sì: trapiantare il cuore, ad esempio, non cambia chi siamo, mentre trapiantare un cervello probabilmente sì. E di conseguenza anche la ipotetica sostituzione di un cervello non lascerà il mio punto di vista intatto ma, se ipotizziamo che la sede della mia coscienza sia proprio il cervello (dove si troverebbe “diffusa” tra le varie aree cerebrali e ne emergerebbe quale combinazione di attivazioni, come alcuni recenti studi hanno suggerito), io mi spegnerò nel momento in cui il mio cervello sarà staccato da un corpo, e resterò legato ad esso. Ecco allora che, forzando il corso di questa fantasiosa ipotesi, forse un giorno troveremo il modo di trasferirci in un corpo nuovo di zecca semplicemente trapiantando il nostro cervello (dopo che avremo trovato anche il modo di conservarlo adeguatamente nel tempo), come fosse un pilota in una nuova automobile.

Questo potrebbe rivoluzionare quella che per millenni è stata la strategia dei geni, intenti a garantirsi nuovi corpi in cui essere ospitati («Noi siamo macchine da sopravvivenza ‐ robot semoventi programmati ciecamente per preservare quelle molecole egoiste note sotto il nome di geni» scriveva Richard Dawkins nel 1976), portando la teoria evolutiva ad una nuova dimensione, quella individuale appunto, superando quella propria della specie. Non più una lotta per la sopravvivenza di molecole all’interno di individui, non più una lotta tra individui per la sopravvivenza della specie, ma la prosecuzione dell’individuo stesso che abbia trovato il modo di superare i limiti naturali eternando ostinatamente se stesso attraverso nuovi supporti che superino il tempo.

Fabio Fornaroli

Fabio Fornaroli è laureato in filosofia e appassionato di tecnologia e neuroscienze. Lavora nell’ufficio stampa di una azienda di trasporti pubblici locali ed è autore del progetto musicale “La Finestra”.

[Immagine tratta da Google immagini]