Libertà come responsabilità: intervista ad Antonio Calò

Quello dei migranti sembra un tema irrisolvibile ed è soprattutto molto divisivo tra chi accoglierebbe indiscriminatamente e chi allo stesso modo respingerebbe. Il tratto in comune tra queste due posizioni sembra quello di non avere però a portata di mente una soluzione al problema – o almeno un tentativo di risoluzione – né nell’uno né nell’altro caso. 

Così ne abbiamo parlato con qualcuno che una soluzione invece sembra averla: Antonio Silvio Calò, professore di religione e filosofia al liceo classico di Treviso, molto amato tra gli studenti ma balzato qualche anno fa anche agli onori della cronaca. Ne avevamo già parlato in questa intervista e, agli albori del 2022 e con un libro fresco di stampa (Senza distogliere lo sguardo. Una storia di impegno civile, UTET) lo abbiamo risentito per fare “il punto della situazione”.

 

Giorgia Favero – Si può fare. L’accoglienza diffusa in Europa (nuovadimensione, 2021) è uno dei suoi ultimi libri e racconta la sua esperienza personale quando la sua famiglia ha aperto le porte a sei ragazzi del Nord Africa. Un modello che ha portato in Europa e che si è tradotto nel progetto EMBRACIN di cui è capofila il Comune di Padova ma coinvolge sei Paesi europei. Qual è la sua proposta per affrontare la delicata questione migratoria?

Antonio Calò – È una proposta che può funzionare solo laddove c’è la volontà politica, perché in termini “tecnici” ha tutte le carte in regola per funzionare. L’accoglienza diffusa è un modo di accogliere le persone riportando il tutto a dei nuclei molto ristretti, da 3 a 6 persone; un’accoglienza più decorosa, sia per chi è accolto ma anche per chi accoglie, rispetto a queste grandi caserme da grandi numeri, i cosiddetti hub, in cui tutti subiscono grande pressione psicologica e sociale. Per me l’accoglienza diffusa – e il mio modello 6+6×6 – è un graduale inserimento, e sia chiaro che accogliere non significa solo dare da dormire e da mangiare – che sono sicuramente importanti – ma significa offrire un luogo dove dare effettivamente la possibilità di un inserimento professionale reale e concreto, affinché la persona si possa realizzare nel nostro contesto. Per questo è un’accoglienza che deve assolutamente contemplare l’accompagnamento. EMBRACIN ha già avuto l’approvazione della Commissione Europea ed è partito l’anno scorso ma il Covid naturalmente lo ha molto rallentato. L’idea di fondo è fare in modo che questa accoglienza diffusa e il conseguente graduale inserimento si possa applicare in sei paesi europei (Cipro, Grecia, Spagna, Italia, Slovenia e Svezia, con osservazione da parte della Germania). Ogni Comune di al massimo 5mila abitanti accoglie un nucleo di sei persone, ogni Comune di 10mila abitanti due nuclei e così via: se lo moltiplichiamo per i 58 milioni di italiani, e poi per i 500 milioni di europei, io vi garantisco che l’accoglienza diffusa limiterebbe moltissimo il tema dei migranti. Se c’è riuscita la famiglia Calò a ospitare sei persona in casa propria, sarebbe grave che non riuscisse a farlo un Comune.

 

G.F. – Questo libro raccoglie anche due importanti firme: quella di Romano Prodi e quella di David Sassoli, probabilmente uno dei suoi ultimissimi scritti. Chi era per lei l’ex Presidente del Parlamento Europeo?

A. C. – David Sassoli era un amico, un’ispirazione. Di lui apprezzavo particolarmente quella sua volontà di essere in sintonia con i giovani, in ascolto: tutte le questioni legate ai giovani per lui erano primarie. E poi, certo… chi è che ha fatto la proposta che Antonio Calò diventasse Cittadino Europeo 2018? David Sassoli. Chi è che ha messo in piedi una tavola rotonda alla sede dell’Onu a Ginevra sulla questione del rapporto Unione Europea e Unione Africana? David Sassoli. Chi è che veniva ad accoglierci quando venivamo con le classi a Bruxelles o a Strasburgo? David Sassoli. E chi si prendeva con Antonio Calò un panino con la porchetta e una birra in una trattoria a discutere di famiglia, di figli e del futuro dell’Europa? David Sassoli. Piango un grande amico e farò di tutto perché la sua testimonianza, il suo essere veramente cittadino europeo, possa continuare a esserci in modo attivo, ma non celebrando una persona – quando si celebrano le persone le seppelliamo due volte! Il cuore di David deve ancora pulsare tra di noi perché ha tantissime cose da dirci e da realizzare. La prefazione al mio libro è un manifesto sull’Europa, su cosa fare e cosa non fare, sull’importanza che per lui ha sempre avuto il tema dei migranti. Così si legge alla fine del suo scritto: «Questo libro ci fa capire che l’accoglienza è possibile, che si può accettare l’altro in modo rispettoso, che si può lavorare bene insieme ed essere persone capaci di creare delle relazioni senza pregiudizi e senza schemi. Tutto questo è possibile ed è indispensabile».

 

Giorgia Favero – Libertà è una parola molto amata ma forse addirittura abusata: sembra che l’altro (a maggior ragione se diverso, straniero, di altro genere, altra fede, altro orientamento sessuale, altra opinione) con il suo semplice esistere soffochi la propria libertà. Mi affido alle parole di un grande filosofo, Emmanuel Lévinas, secondo il quale bisogna abbandonare la logica della libertà dell’io per abbracciare la libertà come responsabilità. Responsabilità, per Lévinas, significa prendersi cura della libertà altrui. Secondo lei è un modello che può funzionare?

Antonio Calò – È un’idea del tutto condivisibile: per me l’unica libertà possibile è la libertà nella responsabilità. Io dico sempre ai miei studenti che nel momento in cui sono dentro a quella scuola, nel momento in cui conoscono, la conoscenza vera implica sempre una responsabilità: sapere è già essere responsabili e già muoversi all’interno della responsabilità, perché non puoi dire a te stesso di non sapere, se hai conosciuto non puoi dire a te stesso di non aver conosciuto. Se non pratichi la libertà nella responsabilità tu stai praticamente uccidendo l’individuo, nel senso che quell’individuo non può vivere senza questo atto che è l’atto di coscienza vero, il sapere di sapere, e che non può essere sterile: è fecondo, è un sapere nel noi, non nell’io. Il problema fondamentale è che oggi il mondo è chiuso dentro un Io che è diventato un gigante infinito, mentre il Tu e il Noi sono stati messi da parte e rischiano di essere oggetti semi-sconosciuti. Non solo nei confronti dei migranti, che sono semplicemente dei poveri in terra straniera. Anche nei confronti dei poveri italiani voltiamo la testa, pur essendo in realtà aumentati moltissimo ultimamente: eppure per noi non esistono, non dobbiamo vederli, non dobbiamo sentirli. Quindi vanno benissimo le caserme, vanno benissimo i luoghi dove non si vedono, non si sentono, non si toccano, non ci disturbano la vista.

 

G. F. – Spesso accade che di fronte fenomeni di grande portata in molti si sentano troppo piccoli per poter fare la differenza: le migrazioni, i cambiamenti globali, le discriminazioni di genere. Per citare Bauman, «i problemi globali si risolvono con soluzioni globali». Ma allora qual è (ammesso che ci sia) il potere del singolo?

A. C. – Io non ho la presunzione di cambiare le cose, io so solo una cosa: che sono cambiato io e questo per me è tantissimo. Io ho sentito urlare la mia coscienza di credente e di civile, e questa mi ha portato insieme a mia moglie ed ai miei figli ad aprire una porta, eppure di certo non posso pretendere che tutti sentino e provino che quello che ho sentito io. Ci sono tantissime cose che si potrebbero fare, partendo dal donare quello che si può – non solo in base ai possedimenti materiali ma anche in base alla propria sensibilità. Si può donare qualcosa di materiale ma anche semplicemente il proprio tempo e/o la propria professionalità. Sicuramente ci si può informare, che è già un primo passo per far andare meglio le cose. Ci sono mille modi per far capire che non ci siamo voltati dall’altra parte, che non siamo figure omertose, che non facciamo finta di non vedere e di non sentire. Sentirsi testimoni di qualcosa è già una presa d’atto importantissima nella coscienza di una persona. Essere cittadini attivi vuol dire essere partecipi di quello che sta succedendo.

 

Giorgia Favero – Nella rivista numero 16 dedicata all’educazione abbiamo parlato anche di scuola, evidenziando come nei programmi scolastici attuali manchi la componente del “tirare fuori” e si lavori soprattutto nell’ “istruire” i bambini e i ragazzi. Lo scrittore Alessandro D’Avenia nei suoi libri scrive che ogni insegnante nella sua ora di lezione può fare la rivoluzione: lei prova a fare la rivoluzione nella sua ora di lezione?

Antonio Calò – A dire la verità io ho sempre fatto la rivoluzione, e penso che la rivoluzione stia nella passione e nella relazione. La passione, quello in cui credi, che porti avanti con studi e aggiornamenti continui, non è sufficiente se non si è in grado di trasmetterla e di relazionarsi con gli altri – in questo caso con i tuoi studenti. Se non si è capace di fare questo, la scuola è già fallita. La rivoluzione – che è una cosa bellissima – avviene ogni giorno nel momento in cui creiamo questo ponte con gli altri e ogni giorno ne dobbiamo creare uno nuovo: ogni lezione deve permettere a ciascun ragazzo e ciascuna ragazza di sentirsi accolto nella sua ricerca come studente, per crearsi un’identità, alimentare quella voglia di porsi delle domande. Ma la rivoluzione deve essere dentro di noi affinché la coscienza continui a crescere.

 

Per approfondire, vi lasciamo la lettura del libro Senza distogliere lo sguardo. Una storia di impegno civile (UTET, 2022):

“Calò, professore di storia e di filosofia, attraverso la sua esperienza costruisce un decalogo civile, una nuova educazione pubblica, indissolubilmente legata alle nostre radici cristiane, in cui lo stato di diritto non travalica mai l’empatia, in cui l’indifferenza non è più una opzione”
(dalla quarta di copertina)

Buona lettura e grazie ad Antonio Calò per questa intervista!

 

Giorgia Favero

 

[Immagine tratta da Facebook.com]

la chiave di sophia

Uno di meno: una storia di cinismo consapevole

“Uno di meno” non è un libro, non è una poesia o un saggio, non è un film o una serie TV ma una semplice frase composta da tre parole che aprono le porte sulla nostra società e sulle mille contraddizioni che la popolano.
Nasce tutto da una notizia, non una notizia qualsiasi ovviamente, deve riguardare la morte di una persona… ma non una persona qualsiasi ovviamente, deve riguardare la morte di un immigrato, e se questo immigrato è particolarmente negro allora il gioco è fatto: la notizia rimbalza in(controllata) nel mare magnum dei social network e dopo pochi secondi di attesa l’osservatore avrà un ampio spaccato di vita reale condita con odio, bile, benaltrismo quanto non basta – perché quello non basta mai – e indifferenza imperfetta. Già, perché se fosse indifferenza autentica non ci si disturberebbe nemmeno ad esprimere un’opinione, mentre in questi casi risulta vitale mostrare a tutti gli altri il proprio cinismo.

Partendo a monte, ribadendolo per l’ennesima volta, esiste in Italia e in tutto l’Occidente europeo un problema chiamato immigrazione. Problema perché nel concerto dell’Unione Europea ogni singolo Paese deve gestire un po’ per conto suo un flusso di genti che se ha precedenti nella Storia non lo ha certamente nell’epoca contemporanea.
Non è solo un problema tecnico: difficoltà nell’approntare strutture dedicate all’accoglienza, difficoltà legate alle differenti normative tra Paesi di primo arrivo e Paesi di destinazione finale ecc. È soprattutto un problema sociale: se non c’è un programma di integrazione l’integrazione non avviene, gli immigrati non vengono a conoscenza delle leggi italiane e non abituandosi ad esse non può venire loro in mente di condividerle o di farle proprie.
Si creano così profonde spaccature tra la società autoctona e quella variegata proveniente da entità anche molto diverse tra loro. Tutto questo comporta avversione, che nella sua forma più evoluta si chiama odio, odio inattivo, cinico appunto, contro tutti coloro che non fanno parte della comunità italiana-bianca.

Mettiamo il caso che un giorno come un altro, uno di questi individui proveniente da un qualsiasi angolo dell’Africa, decida di gettarsi sotto un treno qualsiasi in una qualsiasi provincia italiana, mettiamo anche il caso che dai primi riscontri il movente sia la non idoneità allo status di richiedente asilo; alla luce di quanto detto poco sopra, quale potrebbe essere il commento-tipo del cinico-tipo?
Uno di meno.

Non ci si chiede più un perché.
Perché è andato via dal suo Pese, perché ha deciso di togliersi la vita, che persona era, chi era, cosa studiava, dove lavorava, in cosa credeva… non c’è tempo per porsi tutte queste domande, prima di tutto perché una risposta non la si vuole, e quando non si vuole sapere a che pro domandare? E poi diciamocela tutta, ci sono anche tanti italiani che si tolgono la vita o che muoiono nella più totale indifferenza mediatica, dobbiamo per forza provare compassione per questo signor nessuno?
Vogliamo dare risalto a chi viene qui per distruggere la nostra venerabile tradizione cattolica, appoggiata da chi vuole togliere i crocefissi dalle aule scolastiche, i presepi dagli asili, i canti di Natale, da chi… da chi non conosce il messaggio contenuto nel Vangelo di Gesù?

Nell’attesa di vedere un giornale, o un telegiornale, o una pagina social, o un’enciclopedia di sessantotto volumi che elenchi nel dettaglio finalmente tutti i 1.7801 decessi quotidiani – in media – nel Bel Paese, in modo tale da non creare disuguaglianze mediatiche, e nell’attesa di conoscere un sedicente cattolico osservante e consapevole del vero messaggio cristiano di cui si fa improbabile portavoce, domandiamoci a che cosa serve, di fatto, provare quella positiva e soddisfatta indifferenza nella morte di qualcuno.
È arrivato proprio il momento di chiederselo, perché il sadismo di qualcuno non basta a giustificarne una così vasta diffusione, e nemmeno può bastare una politica sbagliata sull’immigrazione per giustificare un atteggiamento di cui ognuno di noi è pienamente e consciamente responsabile.

 

 

A Prince Jerry, uno di meno.

Alessandro Basso

 

NOTE:
1. Dati Istat per l’anno 2017.

[Immagine tratta da google, modificata dall’autore dell’articolo]

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“Ma tu sei arrivato con il barcone?”

Nessuno avrebbe il fegato per porla; nessuno avrebbe la faccia tosta per pronunciare davvero quelle parole. Eppure, ad un certo punto, quella domanda squarcia (sì, squarcia, letteralmente) l’aria. “Ma tu sei arrivato con il barcone?”. E dopo un breve, addirittura troppo breve, momento di silenzio (perché in fin dei conti non richiede mica pause di riflessione una domanda del genere: o è si o è no) segue la risposta di Malick… affermativa.

A pronunciare la fatidica ma pur sempre legittima domanda, un bambino. Già, perché un bambino non si chiede, e in effetti non si deve chiedere se una domanda sia lecita o meno; non si chiede se una parola di troppo può essere inopportuna. Un bambino chiede e basta, come è giusto che sia. La sua curiosità è del tutto naturale, spontanea, innocente e per tale motivo esige di essere soddisfatta.

I bambini lo vedono alla tivù che alcuni uomini color cioccolato attraversano il mare e, qualche volta, arrivano in Italia con un barcone o con dei gommoni di fortuna. Lo vedono sul maxischermo rettangolare del salotto di casa, per loro è qualcosa di oggettivo, sanno che succede; ma sebbene siano molto più svegli di quanto molti adulti possano pensare, forse non riescono a percepire la portata del fenomeno. Alcuni di loro, senza dubbio, si porranno qualche domanda da grande: “Sarà brutto, sarà bello, sarà buono quel viaggio per mare?”. Ma ciò che conta per loro, alla fine, è la praticità dei fatti: tu quel barcone l’hai preso o no? E che c’è di male nel chiederlo?

Un modo di pensare e agire opposto a quello di noi adulti, che probabilmente riflettiamo di più e cerchiamo di ponderare al meglio le nostre parole, ma che di conseguenza abbiamo finito per accantonare quella spontaneità tipica dell’infanzia, rischiando di cristallizzare lo specchio delle nostre emozioni. Nascosti dietro ai sospetti, alle preoccupazioni e alle incertezze, mettiamo in gabbia la nostra capacità di provare ogni giorno quelle sensazioni che ci farebbero vivere più serenamente, e più vicini gli uni agli altri.

Perché quella domanda avremmo voluto farla anche noi, perché anche noi vogliamo conoscere e capire; ma per fortuna c’era Leonardo, nove anni, che la mano l’ha alzata subito, e senza nessun timore.

Avremmo voluto sapere la risposta a quella domanda per cercare di conoscere un po’ di più la persona che avevamo di fronte, per intuire dal suo modo di rispondere qualcosa di più del suo vissuto. Così come vorremo delle risposte a molti altri interrogativi che la nostra mente formula, ma che la nostra voce non sempre riesce ad esternare. Eppure domandare è così facile: non prende molto tempo e non costa fatica. Il difficile viene poi, ed è l’ascoltare; il mettersi a disposizione dell’altro e il lasciarsi andare alle sue parole. Il lasciarsi andare che è lasciarsi influenzare. Perché ascoltare equivale talvolta a prendere in considerazione un nuovo e diverso punto di vista. E questo difficilmente noi lo vogliamo fare.

 

Federica Bonisiol

 

[Immagine di Adolfo Felix da Unsplash]

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Intervista a Emanuela Scribano: uno sguardo su Dio e il Mondo, sulla religione e sulla contemporaneità

Una grigia giornata fa da sfondo al mio viaggio in treno verso Venezia. È mezzogiorno e mezzo e siamo agli inizi di aprile ma la primavera sta ancora facendo fatica a sbocciare. Come metto piede fuori dalla carrozza, improvvisamente il sole squarcia le nuvole, regalando a questa incredibile città la luce che merita. È un segno: sarà una chiacchierata illuminante, e così è stato.

Emanuela Scribano è attualmente Professore Ordinario all’università Ca’ Foscari, insegna Storia della Filosofia Moderna alla Triennale e Storia della Filosofia alla Magistrale. Prima di venire a Venezia la sua carriera ha inizio a Firenze. Si laurea nel 1972, è Ricercatore fino all’1981 ed Assistente fino all’87 sempre in quella sede. Successivamente diventa Professore Ordinario di Filosofia della Religione all’Università di Venezia finché nel ‘96 inizia ad insegnare all’Università di Siena per un anno Storia della Filosofia Moderna e poi Storia della Filosofia fino al 2011, anno in cui torna a Ca’ Foscari.

Dopo una breve attesa fuori dal suo studio vengo accolto all’interno, con l’offerta di mettermi a mio agio. La ricerca principale della Professoressa Scribano riguarda la Filosofia Moderna, in particolare il pensiero inglese (Natura umana e società competitiva. Studio su Mandeville, Milano, Feltrinelli 1980), il pensiero metafisico moderno (Da Descartes a Spinoza. Percorsi sulla teologia razionale del Seicento, Milano, Franco Angeli 1988) e la storia dell’argomento ontologico (L’esistenza di Dio. Storia della prova ontologica da Descartes a Kant, Roma-Bari, Laterza 1994). Inoltre si è concentrata sulla connessione tra pensiero moderno e medievale (Angeli e beati. Modelli di conoscenza da Tommaso a Spinoza, Roma-Bari, Laterza 2006). Ha scritto due companium: Guida alla lettura delle “Meditazioni metafisiche” di Descartes, Roma-Bari, Laterza 1997 e Guida alla lettura dell’ ”Etica” di Spinoza, Roma-Bari, Laterza 2008. Attualmente si interessa delle connessioni tra scienza e metafisica nella prima Filosofia Moderna (Macchine con la mente. Fisiologia e metafisica tra Cartesio e Spinoza, Roma, Carocci 2015).

Oltre a questa intervista mi trovo nel suo studio per parlare della mia tesi di laurea: ho deciso che sarà lei il mio Relatore. Questa decisione nasce dalla grande ammirazione che ho provato durante le esposizioni delle lezioni nel corso dei suoi Insegnamenti, dalla grande disponibilità a dialogare con gli studenti e dalla grande esperienza e conoscenza che la Professoressa dimostra con ogni sua parola, oltre che da un mio gusto personale per gli argomenti di cui lei è esperta.
Spero di essere stato in grado di far risaltare queste sue qualità con le mie domande e con la rielaborazione delle sue risposte.

 

Professoressa, uno dei suoi principali interessi − che abbiamo indagato anche durante le lezioni di Storia di Filosofia Moderna di quest’anno − è il rapporto tra Dio e il Mondo. Come introdurrebbe questa tematica, così pregnante per qualsivoglia teoria fisica dell’Universo, ad una persona non del mestiere?

A chi mi chiedesse come mai esista un collegamento filosofico tra Dio e il Mondo, direi che esiste una via scientifica nella risposta alla domanda che mi ha posto: quella della spiegazione ultima dell’ordine dell’Universo e delle leggi di natura.

Credo che esista una domanda che sorga spontanea a chiunque osservi la natura, e la domanda può essere anche molto semplice: perché il mondo ha questo aspetto e non un altro? O ad un livello più raffinato: perché le leggi di natura sono stabili? Ciò significa che esiste un interrogativo spontaneo nell’uomo che introduce alla dimensione metafisica.
Se pensiamo ad uno scienziato come Einstein, ci ricordiamo tutti la sua celebre affermazione di credere nel Dio di Spinoza: molti l’hanno presa come un’ammissione di ateismo sotterranea; io non credo. Piuttosto penso che esprima questo bisogno di metafisica di cui stiamo parlando. Non solo da parte della scienza per il suo ruolo che potremmo dire fondazionale dell’osservazione, ma anche da parte dello spettatore ingenuo.
Inoltre, la domanda sul rapporto tra Dio e Natura, e la risposta a questa domanda, è stata in genere l’antidoto al nemico peggiore della scienza: il caso.

 

Uno degli ambiti a cui lei si è dedicata è il collegamento tra Cartesio e Spinoza. Alla luce dell’introduzione fornita alla domanda precedente, come collocare questi due pensatori?

L’inserimento è efficace e quasi si impone, perché entrambi hanno cercato di dare una risposta forte alla domanda sulla validità delle leggi di natura. Per entrambi, con ragioni molto diverse, il nostro Mondo è l’unico Mondo possibile. E la garanzia di questo si trova nel fondamento delle leggi di natura, radicate, per entrambi, in un’entità necessaria: Dio, la cui esistenza e la cui natura non potrebbero essere diverse da quello che sono.
Questa necessità dell’esistenza e della natura di Dio, trascina nella necessità anche il Mondo e quindi assicura la stabilità alle leggi di natura. Se vogliamo, quella di Cartesio e di Spinoza (in questo solidali) è una delle risposte più forti contro un’interpretazione degli eventi come casuali, dopo quella che aveva fornito Aristotele con il suo finalismo.
La fondazione su Dio è di certo la fondazione più forte della stabilità delle leggi di natura che il nostro pensiero scientifico abbia conosciuto.

 

La principale problematica sociale (e non solo) con cui Spinoza ha avuto a che fare al suo tempo − e che qualsiasi commentatore di Spinoza prima o poi deve affrontare − è l’accusa che gli è stata rivolta di ateismo. Può sintetizzarci la questione?

Prima di tutto mi fermerei sulla parola “ateo”, che è una parola negativa e quindi dipendente, semanticamente dipendente: è una mancanza di qualcosa, una mancanza di Dio. Quindi prima di tutto bisogna avere una nozione precisa di quello che si intende per Dio quando si parla di ateismo. Certamente, in questa accezione parassitaria e negativa della parola “ateo”, non c’è dubbio che Spinoza sia ateo rispetto all’immagine giudaico-cristiana di un Dio libero, creatore, provvidente, dotato di attributi morali.
La cosa misteriosa è che Spinoza accusava gli altri di ateismo: come spiegare questa reciprocità dell’accusa?
Il fatto è che l’ateismo di Spinoza è davvero peculiare e nasce come conseguenza di una riflessione sulla cultura teologica giudaico-cristiana. Ovverosia: se si prende sul serio quello che questa teologia ha sempre asserito su Dio (soprattutto se si prende sul serio il fatto che sia infinito), allora tutto ciò che questa teologia ha detto su Dio (libero, creatore, distinto dal Mondo, che compie miracoli, che sospende le leggi di natura ecc.) non è sostenibile.
La peculiarità di Spinoza è l’aver elaborato un ateismo teologico, che si presenta come la conseguenza coerente di quello che tutti i teologi hanno affermato, a livello di principi, e negato poi per le conseguenze stridenti con quei principi.

Nei nostri tempi, credo che questo tipo di ateismo non esista. La nostra difficoltà è quella di collocare l’ateismo di Spinoza nella sua cornice teologica. Mi piace citare un bel libro di uno studioso italiano, G. Cantelli, dedicato a Bayle, Teologia e ateismo: niente di meglio per classificare e qualificare l’ateismo del Seicento, e Spinoza in particolare.
La nostra curiosità di storici della filosofia è questa peculiarità di un ateismo fondato sulla teologia, cioè la pretesa di Spinoza di essere stato l’unico interprete coerente degli stessi principi di coloro che lo accusavano di ateismo. Un paradosso molto attraente storicamente.

 

Quando si tratta di questi argomenti, tra le parole chiave figurano sicuramente Teismo, Deismo e Ateismo. Ce le può spiegare?

Innanzitutto, la distinzione tra teismo e deismo risale a Kant, ed è stata una necessità storico-culturale che l’ha motivata, perché soprattutto in ambito inglese era esploso il fenomeno del deismo, cioè un tipo, se vogliamo, di religione naturale che non riconosceva a Dio attributi classici come l’intervento nel mondo, la provvidenza e i miracoli. Per cui la parola deismo, nella quale la parola Dio è implicata nella radice, è sembrata a Kant equivoca, perché rischiava di avallare come buoni interpreti della teologia autori che in realtà l’avevano naturalizzata profondamente. Ecco quindi che la proposta di Kant è un neologismo: accanto a deismo parliamo di teismo. E quando parliamo di teismo parliamo invece di un Dio provvidente, intelligente, che progetta il mondo, che interviene nel mondo, che è trascendente rispetto al mondo. Non quell’ente primo che era diventato il rappresentante della metafisica del deismo, che rischiava di essere buono sia per i credenti che per i non credenti.

Per quanto riguarda l’ateismo, invece, credo che ci siamo intesi precedentemente. Forse posso aggiungere che l’ateismo è da sempre una parola militante, agressiva, specialmente nell’età moderna, associata all’idea di immoralità. Quindi l’appellativo ateo non è neutro, almeno non lo è stato. Questa associazione tra ateismo e immoralità è andata modificandosi direi sopratutto a partire dall’impulso fortissimo che ha dato Kant (anticipato da Bayle), svincolando la morale dalla credenza in un Dio. E, paradosso dei paradossi, la figura che ha consentito di esemplificare al meglio la liberazione della morale dalla presenza di Dio è stata proprio quella di Spinoza.
Quindi Spinoza, nato come ateo di sistema con una connotazione altamente negativa, viene, prima da Bayle ma dopo ancora in modo ancora più radicale da Kant, presentato come esempio di persona la cui morale è libera e indipendente dalla credenza in un Dio. Questo contribuisce a liberare l’ateismo da questa valenza negativa, quindi è come se aver definito ateo Spinoza sia stato un boomerang e abbia segnato una reazione che ha svincolato l’ateismo dallo scomodo abbraccio con l’immoralità.
Oggi, però, direi che il termine “ateo” ha mantenuto una valenza militante, sia pure ribaltata (ad esempio esiste il giornale dell’ateismo). Quindi ha una valenza rivendicativa: ora sono gli atei a voler essere chiamati atei contro la religione. Per questo preferisco, e credo che sia il termine forse più giusto, l’aggettivo “laico” per designare qualcuno che non si muove in un’ottica teologica, né per approvarla né per negarla ma che è estraneo alla problematica. Questa credo che sia una novità semantica dei nostri tempi che a me piace molto e che per certi aspetti credo sarebbe piaciuta anche a molti filosofi che hanno subito l’appellativo di “ateo”.

 

Nei tempi contemporanei, fecondi di grandi scoperte scientifiche e tecnologiche, si può pensare ad uno scontro ancora presente tra una concezione di Dio (anche se solamente deista) e nessuna concezione di Dio?

Sicuramente la scienza continua a conoscere questa ambivalenza. Tra quella che possiamo dire una richiesta di una fondazione metafisica forte e invece quella di una proposta che interpreti i risultati scientifici come ipotesi utili e che agevolino la ricerca scientifica senza chiedere una garanzia, un suggello metafisico. Certo, stiamo sempre parlando del “Dio della fisica”, quindi di quel Dio infondo naturalizzato in cui gli attributi morali non vengono considerati (o considerati poco interessanti), che alla fine è stato utilizzato credo senza infingimenti anche da personaggi che non avevano per nulla la spiritualità di Spinoza ma erano veri materialisti. Sto pensando ad un Hobbes che, con tutto il suo materialismo addirittura attribuito a Dio, ha sostenuto che un primo principio nella scienza è ciò a cui lo scienziato mira: ad una causa prima materiale. Questa ricerca interna alla scienza, sicuramente continua se pensiamo però a quel Dio naturalizzato di cui stiamo parlando dall’inizio di questa intervista. Perché finora, paradossalmente, del Dio che porta la gente in Chiesa non abbiamo parlato mai.

 

Si è fatta un’idea del perché le religioni, oggi, facciano così fatica a dialogare e si siano estremizzate?

Io credo che non sia un fatto recente. Che a noi sembra recente semplicemente perché tra le grandi guerre di religione e l’attuale conflitto − che sicuramente è anche una guerra di religione − c’è stato un lungo periodo di tregua.
Penso che dobbiamo partire prima di tutto da un punto che dò per scontato, insieme al grande antropologo René Girard: la religione non genera di per sé violenza, la violenza è un fatto intrinseco alla natura umana; ma certamente la religione è un fattore catalizzatore della violenza straordinario, per tutta una serie di fattori. Prima di tutto per l’intrinseca pretesa di verità, imprescindibile per una religione (non avrebbe senso credere in qualcosa che non si crede vera). Esiste quindi un impegno veritativo nella religione che nemmeno la scienza pretende. Questa richiesta di verità porta in sé un germe di intolleranza, quindi credo che si debba serenamente prendere atto che la religione è intrinsecamente un catalizzatore di qualcosa che non crea, la violenza umana, ma che sicuramente enfatizza. Ma se ci ricordiamo le analisi dei filosofi che hanno vissuto tra le violenze delle guerre di religione, essi sostenevano che la religione è tollerante solo quando è in minoranza e vediamo come questo senso della pericolosità della religione, visti i tempi, fosse fortissimo.
Credo che un altro elemento di forte esaltazione del potenziale pericoloso della religione sia il monoteismo. Storicamente sono le religioni monoteiste, che ovviamente enfatizzano la pretesa veritativa, che sono più violente delle religioni politeiste.
Se questi due elementi che ho sottolineato hanno qualche plausibilità, io credo che la domanda sia perché abbiamo beneficiato di un lungo periodo di pace religiosa piuttosto del perché ora ci ritroviamo con questo problema. Penso che siamo debitori di una vasta laicizzazione della nostra cultura: non c’è dubbio che l’Europa, ed in parte gli Stati Uniti, si sia ampiamente laicizzata oltre ad aver posto limiti politici molto stretti all’invadenza delle religioni. Questo vale soprattutto per i Paesi di religione Cattolica.

Per i Paesi di religione Protestante il fenomeno è più interessante ancora: oltre alla laicizzazione, la Riforma si è polverizzata in tante piccole Chiese con tanti piccoli nomi, e questo fin da subito: come se l’esser stati degli eretici avessero reso difficile l’utilizzo della categoria dell’eresia. Non che non sia stata utilizzata nemmeno in campo protestante, ma sicuramente la persecuzione dell’eretico non ha avuto paragoni rispetto a quello che è successo nel Cattolicesimo. A mio parere, questo pulviscolo di Chiese generato dal mondo Protestante (basta guardare gli Stati Uniti per rendersene conto) ha riprodotto un fenomeno politeista all’interno di una religione monoteista: la convivenza di punti di vista diversi ma non conflittuali.
Questo è stato un potente fattore di disinnesco della violenza, infatti la guerra di religione ora viene riportata attraverso religioni che non sono passate attraverso questo processo, né di laicizzazione né di polverizzazione interna delle credenze, ma che ripresentano il potenziale violento della religione (nel senso detto prima di innesco della miccia che la natura umana porta in sé).
Naturalmente sto semplificando il discorso in modo assoluto, ma credo che siano due elementi importanti da non sottovalutare.

 

La nostra rivista ha come obiettivo principale quello di portare la filosofia nel quotidiano. In quale misura, secondo lei, la filosofia potrebbe essere utile per la vita contemporanea?

Naturalmente questa sarà anche deformazione professionale, ma credo che interrogarsi sui presupposti delle nostre credenze sia un esercizio utilissimo anche per la convivenza pacifica. Per rispondere ho deciso di proporre quindi un esempio per chi non usa la filosofia o pensa che sia molto distaccata dalla quotidianità.

Il mondo moderno ci ha portato all’improvviso in contatto con la diversità, quindi con correnti migratorie che ci fanno sperimentare la vicinanza con persone che hanno usi e costumi completamente diversi dai nostri. Le reazioni a questo fenomeno sono state differenti: dall’intolleranza all’accoglienza, lo sappiamo. Cosa c’è dietro? Possiamo razionalizzare i nostri atteggiamenti o di accoglienza o di rifiuto, che vadano al di là di una risposta emotiva, di pietà umana o di repulsa altrettanto umana? Io credo di sì. Se vogliamo cercare di inquadrare la nostra reazione, chiediamoci se ci sentiamo vicini alla filosofia della rivoluzione francese, cioè dei diritti umani che hanno pensato l’umanità come genere umano (per cui un individuo è un uomo non distinguibile se non numericamente dall’altro e quindi latore di tutti i diritti che la sua appartenenza al genere umano comporta). Ci sentiamo di sposare questa filosofia giuridica, della storia, dell’antropologia e quindi della legislazione che sorpassa gli stati e tende a presentarsi come tendenzialmente cosmopolita, oppure noi pensiamo che non esista il genere umano? Che esistano invece solo i gruppi umani, le società umane , cioè che ciò che fa la mia persona ed il mio valore non sia di essere un uomo ma di essere, ad esempio, italiano in questo tipo di società, di avere questo tipo cultura, questo tipo di costumi? La conseguenza di questo pensiero è che la persona che non partecipa in nulla del mio ambiente culturale non mi assomiglia in nulla e quindi non mi sento di appartenere ad uno spazio comune a queste persone. Ci sono stati dei teorici − diciamo anche molto antipatici − di questo tipo di approccio, ma il fatto che siano stati antipatici non toglie che avessero degli argomenti, cioè non toglie che ognuno di noi abbia un senso di appartenenza che è molto più circoscritto rispetto a quello del genere umano.

Ecco, chiederci noi cosa sceglieremmo, come sosteremmo una delle due posizioni o come cercheremmo di far convivere eventualmente queste due visioni così estreme − genere umano o gruppi sociali −, io credo che sia un esercizio utilissimo, perché ci fa superare il livello puramente empatico o puramente antipatico della nostra reazione e ci impegna a chiederci: ma infondo noi cosa vorremmo? Un mondo dominato dall’appartenenza a gruppi sociali o un mondo dominato da quello che si chiama genere umano? E se scegliamo per l’una o per l’altra delle due opzioni le nostre azioni non sono le stesse.
Quindi acquistiamo lucidità e capacità di capire le argomentazioni che stanno dalla parte di chi invece oppone genericamente un rifiuto rispetto all’accoglienza o respingimento e ci consente di parlarci. Magari per andarcene via con la stessa posizione ma intanto abbiamo capito che non sono solo posizioni emotive. Devono impegnarci, possono impegnarci, ad un’attività di giustificazione che ci aiuta poi a farla valere su un piano che non sia quello puramente momentaneo della piccola reazione individuale.

 

Massimiliano Mattiuzzo

 

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Unione Europea: ognun per sé e Dio per tutti

Non è mia intenzione ammorbare quanti avranno voglia di spendere parte del loro tempo per leggere questa mia riflessione, con discorsi volti unicamente a distruggere – così come la moda attuale vuole – l’idea comunitaria che regge il sistema politico ed economico europeo nel quale viviamo. Esistono critiche costruttive lì da qualche parte, sovrastate dal mare di sfoghi collettivi anti-sistema che infiammano moltissime persone, urla incontrollate, j’accuse improbabili lanciati da politici altrettanto improbabili; esistono e sono nascoste molto bene.
Tuttavia esistono anche dubbi, forse sani, forse no, legati al concetto stesso di Unione Europea che d’altra parte, visti i recenti comportamenti tenuti dagli Stati nazionali in seno all’organizzazione, inevitabilmente sorgono anche nelle più positive intenzioni.

Cos’è l’Unione Europea?
La risposta è una sola: dipende.
Dipende se intendiamo l’Unione Europea così come ci è stata raccontata, come si presenta, oppure se vogliamo farci del male e riscoprirne definitivamente la natura.
Quando e perché è nata l’Unione Europea?
Un continente uscito con le ossa rotte dal secondo conflitto mondiale aveva capito che i moti di supremazia di un singolo Paese potevano creare danni ingenti a cose e persone, quindi la possibilità per risollevarsi e prosperare era racchiusa nella collaborazione tra Stati. Dallo scontro si era passati quindi al dialogo in modo tale da affrontare meglio un futuro che – con l’inizio del dualismo USA-URSS – non si presentava certamente roseo e felice.
Un po’ come si vede nei documentari di avventura, o nei film in cui i protagonisti si trovano in una situazione di precarietà e ognuno mette in comune i propri viveri, gli Stati europei nel 1951 misero in condivisione reciproca le materie prime più importanti: il carbone e l’acciaio, entrambe utili per il settore energetico ed infrastrutturale, dando vita alla CECA.
Il primo passo verso l’Unione Europea fu proprio questo: il libero scambio di merci.

Fatta questa premessa risulta abbastanza chiaro che le radici dell’Unione Europea sono economiche, che poi l’apertura dei confini abbia interessato altri settori è fuor di dubbio, ma è diretta conseguenza di una visione decisamente materialista e del resto non poteva essere altrimenti.
Un’altra domanda che sorge spontanea è la seguente: l’UE ha mai smesso di pensare ed agire in termini economici e materialisti?
Nel già citato dualismo USA-URSS in cui anche l’Europa faceva parte dei territori contesi, assieme ad Africa, America latina e Asia, fu necessario un ulteriore passo in avanti, questa volta non nella sfera materialista ma in quella psicologica. Per rafforzare il concetto di Europa dovevano essere creati gli europei, i cittadini che avrebbero dovuto emergere dalla condizione di subalternità alle super-potenze.
Senza voler favoleggiare segreti machiavellici, se volete creare un fronte comune “umano” contro qualcuno o qualcosa che appare invincibile, dovete prima di tutto coinvolgere altre persone e farle sentire parte di un grande progetto; del resto il motto «l’unione fa la forza» è sicuramente più motivante di un «se non mettiamo assieme le economie siamo spacciati».
L’apparato extra economico dell’Unione Europea, che comprende il mito di fondazione, la simbologia, le festività laiche ecc, è servito da panacea, da utile racconto per far ingerire lo sciroppo amaro del cinico materialismo. Non è nemmeno una novità, nel corso della Storia fu un processo già sperimentato in piccolo, specialmente nel Settecento quando si formarono gli Stati Nazionali.

Appurata la base materialista dell’UE, appurata la bella immagine che di sé ha costruito negli ultimi sessant’anni viene da chiedersi cosa non sta funzionando, quale ingranaggio si è rotto o allentato.
È sotto gli occhi di tutti infatti il comportamento tenuto dai singoli Stati nel delicato tema dell’immigrazione, comportamento che ha portato alla luce numerosi rancori, anche estranei a questo problema principale e vecchi antagonismi latenti da chissà quanti anni.

Il fenomeno migratorio attuale ci ha colti di sorpresa, poche persone avevano intuito cosa avrebbe raccolto l’Europa dopo secoli di sfruttamenti e tentativi, spesso fruttuosi, di controllare indirettamente le politiche interne dei Paesi nati durante la decolonizzazione (anni ’60 e ’70 del Novecento, quindi l’altro ieri); ciò ha messo a nudo la vera natura che è propria dell’Uomo: l’egoismo.
Gli esseri umani sono capaci di aggregarsi, di modificare l’ambiente per adattarlo meglio alle proprie esigenze, sono in grado di strutturarsi in gerarchie per controllare un determinato territorio, sono capaci di spingere i confini invisibili dell’ignoto, ma alla fine dei giochi, quando si tratta di reagire improvvisamente ad un elemento considerato pericoloso o dannoso, emerge puntualmente l’egoismo che può essere individuale, oppure – come nel caso in questione – nazional collettivo.

Diversi Stati facenti parte dell’UE nei mesi scorsi hanno letteralmente chiuso le loro porte lasciando il gravoso compito di gestire i flussi migratori ad altri Stati, quelli che la geografia e il fatalismo un po’ indotto hanno voluto porre proprio come prima tappa degli sbarchi.
Davanti a tutto questo, come potrebbe un cittadino qualunque, anche se disinteressato dalla polemica a priori contro le organizzazioni sovranazionali, non considerare il mito, lo storytelling legato all’Unione Europea, inutile e – se insistentemente riproposto – irritante?

Balbettare una retorica che sembra dilatarsi in modo inversamente proporzionale alla sua efficacia, quanto può contenere le opposte derive estremiste, quelle ultranazionaliste, che stanno ottenendo un buon successo elettorale?
Per quanto tempo, infine, potrà ancora reggere la credibilità di questa Unione Europea nata per sopperire alle difficoltà, se si lascia vincere proprio dalle nuove sfide del presente?

 

Alessandro Basso

 

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Cos’è l’AfD, chi l’ha votata e come sta reagendo la Germania

<p>immagine da google immagini</p>

Uno studente italiano migrato in Germania cerca di spiegare meglio l’AfD, il partito tedesco di estrema destra protagonista del momento.

 

La stampa italiana, sull’onda di quella tedesca, ha dato una narrazione quasi unilaterale di queste elezioni in Germania, sottolineando il grande risultato dell’AfD (Alternative für Deutschland), che ha ottenuto il 12,6% ed è quindi cresciuta dell’8% rispetto alle ultime elezioni. Per una sorta di tacito accordo poi tutti i giornali italiani hanno iniziato a connotare l’AfD come “ultradestra”. Suppongo che il termine dovrebbe evocare qualcosa di enorme e mostruoso, ma in realtà non significa quasi niente. Se ve li immaginate come dei cloni della Lega di Matteo Salvini vi sbagliate. Il leader del partito Alice Weidel ha un dottorato in economia, è lesbica con una compagna di colore e due bambini; non proprio un ritratto simile a Salvini insomma. Tuttavia lo stesso partito ha come figura di spicco anche Alexander Gauland (che invece ricorda Salvini anche fisicamente, solo un po’ più anziano e avvinazzato), il quale subito dopo la vittoria ha aizzato la folla al poco rassicurante grido di “Wir werden sie jaggen” ovvero “le (alla Merkel) daremo la caccia”.

Due figure che rappresentano bene le due anime del partito. Da un lato il volto più arrabbiato e popolare, che raccoglie i voti delle classi povere ad Est, dall’altra la faccia più rassicurante che intercetta l’insoddisfatta borghesia del Sud. Per capire meglio la Germania e il suo voto forse occorre comprendere meglio queste due classi. L’Est è stato il più grosso bacino di voti dell’AfD, con una media del 22,5% dei voti. Se lo si somma al 17,4% della Linke, partito di sinistra radicale, si nota che quasi il 40% della popolazione ha dato un voto di protesta contro il governo: evidentemente quell’immagine della Germania ricca e felice che ci viene proposta non è vera ovunque.

Diversa è la situazione a Sud, dove i voti sono stati meno (intorno al 12%) e sono arrivati per lo più da ex elettori della CDU. La borghesia benestante (e non troppo colta) delle cittadine della Bavaria e del Baden-Württemberg non ha digerito la politica migratoria della Merkel, che ha fatto entrare troppe persone senza imporre sufficienti controlli e regole di integrazione. In realtà in questi paesini l’immigrazione si è vista più alla tv che sentita sulla propria pelle, ma notizie come quelle delle violenze di Colonia la notte di Capodanno sono state sufficienti. Se la Lega in Italia tende ad indicare nell’immigrazione la causa della povertà e della mancanza di aiuto dello Stato, l’AfD, agendo in un paese più ricco, usa una strategia diversa, mirata a difendere i valori tradizionali (qua potete vedere un esempio di una loro pubblicità, che fa abbastanza ridere se non si pensasse che ha avuto così successo).

afd-manifesti_la-chiave-di-sophiaNell’ordine i manifesti recitano: “Nuovi tedeschi? Facciamoceli da soli”, “Burka? Io preferisco il Burgunder” (vino tedesco, ndr), “L’Islam?” Non si adatta alla nostra cucina”.

La vera vittoria dell’AfD comunque non è nei numeri; perché il 12,6% consente di essere un’opposizione con una voce forte, ma non di cambiare gli equilibri del paese. La vera vittoria è la completa monopolizzazione del dibattito pubblico. Giornali e tv parlano solo più di come affrontare in parlamento l’AfD. Un settimanale serio e di qualità come die Zeit su internet fa ironia da terza media sulla notizia che il Guardian indica nei suoi grafici l’AfD con il colore marrone invece dell’abituale blu. La Merkel nel suo primo discorso dopo il voto ha già subito annunciato che bisogna riconquistare i voti dell’AfD e imporre controlli più forti sull’immigrazione. Insomma la Germania è confusa e impaurita e questo non potrà che portarla più a destra, là dove l’AfD vuole. Peccato perché in realtà di queste elezioni si potrebbero fare anche delle letture alternative a quella che incorona l’AfD: il quarto mandato di fila di Angela Merkel, che cala ma si conferma in un momento di crisi mondiale in cui una flessione era inevitabile, il voto degli under 25, che è andato molto più ai Verdi che all’AfD…

Lorenzo Gineprini

[Immagine tratta da Google Immagini]

 

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Immigrazione e disuguaglianze secondo la dialettica servo-padrone

Otto miliardari nel mondo hanno la stessa ricchezza di 3,6 miliardi di persone. Il rapporto Oxfam ci informa di una dato impietoso, impossibile da concepire per la portata dello squilibrio. La bilancia pende drasticamente da un lato, riempiendo le tasche di un’esigua minoranza di miliardari della moneta attuale, il potere. Le disuguaglianze sociali sono la naturale conseguenza di tale disparità economica, riconsegnando dunque determinati ruoli sociali alla varie componenti. Solo attraverso ciò si delineano le figure in gioco, si determinano le persone in base al reddito, alla propria posizione da soggettività in mezzo ad altre soggettività  immerse in una logica competitiva.

La corsa al guadagno diventa ragione di vita e ragione dei popoli imponendosi come legge globale, interiorizzando la prospettiva capitalistica nell’ideale umano. L’ideale che diventa ossessione, il guadagno utile e necessario diventa desiderio e bramosia di qualcosa di più, sempre di più, guadagnare per guadagnare. Poste tali dinamiche economiche vanno considerate anche le differenti condizioni socio-culturali nel panorama mondiale. Difatti il capitale si centralizza, si accumula nei grandi centri, risucchiato dalle zone ricche di risorse da derubare e saccheggiare fin dai tempi delle prime colonie. Decentramento e creazione di disparità diventano una realtà sempre più evidente ed è la base della disparità data dalle otto persone in rapporto ai 3,6 miliardi citati ad inizio articolo.

La differenza di condizione sociale stabilisce ruoli, scrive copioni per i vari attori in scena. Servo e Padrone e non sono più delle fantasie letterarie o figure hegeliane de La fenomenologia dello spirito. Difatti la dialettica si instaura effettivamente, la condizione di sfruttamento è da identificarsi con chi è stato derubato, con chi si è ritrovato inferiore economicamente e socialmente a quelle otto persone che detengono il potere, ovvero la componente rappresentata dal Padrone. Le due figure sono assolutamente attuali anche in virtù delle condizioni lavorative che prevedono un lavoratore assoggettato ad un datore di lavoro. Proseguendo per questa linea, infatti, il rapporto dialettico tra le due figure che sono in contatto per uno scambio di servizi e benefici, si evidenzia la dipendenza che emerge da entrambe le fazioni. La dipendenza data da un servo che è pronto a compiere quel determinato lavoro poiché potrebbe trattarsi della sua unica possibilità rimasta. La dipendenza data da un padrone che, magari, non sa svolgere un lavoro e la possibilità economica lo rende assoggettato e sostenuto dal frutto del lavoro del suo sottoposto.

Disperazione e pigrizia agiata si equilibrano, trovano realtà e non solo teoresi nel fenomeno dell’immigrazione e della condizione di disoccupazione che attanaglia i vari paesi europei. La crisi economica, in molti casi, porta ad un abbassamento delle aspettative, ad un’accettazione di condizioni di sfruttamento e di inferiorizzazione e il farsi servo di migranti in fuga da un paese in guerra o privo di condizioni favorevoli e di giovani in seria difficoltà nell’approccio al mondo del lavoro. Dunque un semplice squilibrio dato da un’ambizione umana sempre crescente riesuma personaggi che pensavamo esistessero solo all’interno delle favole e dei racconti capaci di farci volare con la fantasia quali il “buono” ed il “cattivo”.

La verità ultima è che siamo ancora immersi in logiche infantili biunivoche basate sul conflitto tra il bene ed il male e forse è quello che la gente, il popolo brama di più, ne è quasi assuefatto. Il tema dell’immigrazione come tanti altri trattati nei quotidiani e nella vita pubblica e sociale riesce a soddisfare quel bisogno di conflitto che l’uomo infelice, l’uomo insoddisfatto e magari proveniente da un ambiente subculturale richiede per potersi sentire padrone della scena, della discussione e della ormai svalorizzata “cosa pubblica”.

Il capro espiatorio è servito attraverso una comodità di accusa e scelta che si copre gli occhi davanti a discorsi più complicati preferendo la soluzione semplice, la scorciatoia mentale destinata a non risolvere le questioni, bensì accentuarle e incriminarle sempre più per scaricare odio ed insoddisfazione. Tale condizione persevera e viene tutelata dalle molte piccole coscienze che credono di essere in una condizione privilegiata, da tutti quelli che credono di essere i padroni e quindi di dover recitare tale ruolo non curandosi empaticamente della situazione di chi invece risulta essere meno agiato e fortunato, come si suol dire “lontano dagli occhi, lontano dal cuore”. Eppure in un panorama del genere chiederei a chi è, o almeno si sente, padrone se egli o ella si senta sicuro/a di quella condizione, se si senta tutelato dal momento che senza un adeguato servo si ritroverebbe incapace di auto-sussistere. Chiederei se il servo rimarrà sempre servo perché, può darsi, che esso possa essere già altro da sé e se ragioniamo nella cara logica biunivoca…

Alvise Gasparini

[Immagine tratta da Google Immagini]

 

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Oltre il muro degli stereotipi

Osservare il mondo che ci circonda è un’attività che compiamo quotidianamente, non le diamo troppo peso perché è pressoché impercettibile, ma è di grande aiuto nella codificazione dei comportamenti delle persone e nella scelta del tipo di interazione: osservando il viso corrucciato di un amico scegliamo un approccio cauto, comprensivo, se invece i lineamenti sono distesi anche la comunicazione diventa rilassata; diversa ancora è la situazione in cui notiamo della sofferenza, automaticamente scatta in noi la volontà di sostenere, aiutare e ascoltare.
Modifichiamo il nostro comportamento a seconda delle circostanze, ed è un tratto caratteristico del tutto naturale per l’essere umano.

Cosa succede, invece, quando notiamo un approccio accentuato nei nostri confronti? Cosa pensereste di una persona che eccede nell’essere comprensiva o che esagera nel mostrare vicinanza in un momento triste? Molto probabilmente gli attribuireste un malcelato disinteresse, un voler apparire ‘amico’ nonostante la scarsa attitudine al concetto più basilare di amicizia. In poche parole vi sentireste presi in giro, e provereste diffidenza nei confronti di quella persona.
E quando invece l’altra persona dissimula molto bene il suo reale stato d’animo? O subentra la nostra bravura e la conoscenza di quella determinata persona con la quale abbiamo un legame profondo (“sorride ma so che soffre”) oppure ci fermiamo alle apparenze (“sorride, quindi sta bene”).

Nell’esatto momento in cui decidiamo di abbracciare la causa delle apparenze, ecco che nascono gli stereotipi, figure standardizzate che rappresentano comportamenti fissi, soggetti ad interpretazioni prestabilite e di conseguenza trattati in modi altrettanto fissi e standardizzati.
Non c’è via d’uscita, non c’è margine di elasticità capace di contenere variabili.

Sempre più spesso, nonostante l’aumento diffuso della sensibilità nei confronti del prossimo (specialmente i bambini, gli adolescenti e le loro problematiche, le donne vittime di abusi, ecc.), le persone – nel mondo reale come in quello virtuale – si riparano dietro il muro degli stereotipi, e da quel luogo evidentemente sicuro, lanciano giudizi, accuse, traggono conclusioni, formulano ipotesi che vogliono assumere il ruolo di somme verità.
Nulla sfugge da questo sistema, né temi delicati riguardanti gli angoli più reconditi dell’interiorità del singolo individuo, né tematiche sociali di più ampio raggio.

Esempi concreti? Il suicidio è il risultato di un’elaborazione complessa compiuta dall’individuo, ha varie forme, può essere rituale oppure frutto di reinterpretazioni fanatico-religiose, oppure può essere una via di fuga da un mondo che non viene percepito più come proprio, e non solo. Le cause del suicidio sono quindi innumerevoli, ma nel momento in cui manca la comunicazione delle motivazioni da parte della vittima, gli stereotipi fanno irruzione nella scena: il mondo alla deriva, la società senza più valori, l’egoismo, il governo che non aiuta, gli immigrati negli hotel.
Se un adolescente si droga, se risponde male agli insegnanti, se esercita bullismo o ne è vittima, il minimo comun denominatore – stereotipato – è la colpa dei genitori, la scarsa educazione, la società senza più valori (ancora), la politica (in alternativa al governo), ecc.

Per quanto riguarda le tematiche collettive invece, è nell’immigrazione che troviamo il terreno più fertile per lo sviluppo degli stereotipi: se vediamo un immigrato ridere, ballare, giocare a pallone, vuol dire che sta bene, e in aggiunta – senza alcun collegamento logico – stava bene anche prima nel suo Paese; se non è il ritratto della fame e della sofferenza stereotipata (denutrizione, segni freschi di percosse, manifestazione continua di stenti e difficoltà motorie) significa che non soffre e non ha mai sofferto.
Non solo, è qui per delinquere e ha compiuto l’attraversata del deserto e del Mediterraneo perché ha sentito nel suo villaggio che in Italia ognuno fa quel che vuole.

Stereotipiamo tutto, anche la guerra: è fatta solo di bombe, eserciti contrapposti e azioni stile Apocalypse Now; la pace: in cui può esserci solo tranquillità e forme di governo democratiche; la famiglia: che se non è composta dal binomio padre-madre crea ingenti problemi ai bambini.
Anche il pianeta, inteso come collettività di individui, siamo riusciti a stereotipare: il detto «tutto il mondo è paese» lo abbiamo preso alla lettera, e siamo arrivati a credere che in ogni angolo della Terra vi siano le stesse cose, materiali e non, che popolano il nostro paesello di cinquemila anime facente parte del contesto occidentale.

Cosa c’è quindi oltre gli stereotipi?
Un universo inesplorato fatto di imprevisti, con pianeti che ruotano su orbite irregolari, stelle sconosciute che possono essere come appaiono, oppure essere altro.
Dove gli abitanti possono sorridere perché sono felici o per sfidare la paura, le persone possono ballare per aver trovato una serenità tanto agognata, dove gli adolescenti possono sbagliare da soli nonostante la presenza dei genitori, e dove i figli crescono lo stesso anche senza un padre o senza una madre.
Dove la guerra, specialmente quella dilungatasi per decenni, è fatta anche di strascichi secondari, di carestie, di lotte quotidiane per la sopravvivenza e la pace è fatta da governi la cui caratteristica principale è la persecuzione, la detenzione prolungata con l’accusa “libera opinione” o “libero gusto sessuale”. Dove parte chi può partire, chi ha le caratteristiche fisiche per farlo, chi ha la possibilità di offrire le proprie braccia per un lavoro onesto.
Dove per certi versi «tutto il mondo è paese» e per altri non lo è.

I pericoli, i timori e la diffidenza ci accompagneranno sempre, possono vincere sulla logica perché rientra negli ingredienti con cui l’essere umano è fatto, ma totalizzare la nostra vita su concetti di tale natura, probabilmente non è il metodo più saggio per affrontarla.

Alessandro Basso

[Immagine tratta da: Google]

 

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Walther ha sparato ancora

«Mi piace, lo confesso, fondamentalmente mi piace poter controllare ogni aspetto della mia vita, mi piace avere un disegno fisso del mondo che mi circonda nel quotidiano, mi piace sapere che questo è giusto e quello è sbagliato, mi piace usare due categorie: ciò che si fa, ciò che non si fa.
Sono affezionato alle mie convinzioni e molto difficilmente me ne separo: è troppo doloroso lasciarle andare, è un passo troppo arduo, troppo oscuro. Ho paura.
Può mostrarmi tutte le statistiche possibili e immaginabili, ma sono solo numeri, percentuali, grafici a torta, a colonna, a spirale, a parallelepipedo; non mi avranno mai, glielo ripeto commissario, non mi avranno mai.»

C. allentò la cravatta, erano trascorse quattro ore e quell’osso duro ancora non mollava, più che altro non aveva ancora capito il motivo del suo arresto.
Il respiro tornò regolare; ne aveva interrogati parecchi in vent’anni di carriera, dall’ultimo dei ladri di polli al mafioso, mai aveva avuto la sfortuna di imbattersi in tanta cocciutaggine.
T. se ne stava zitto, aspettava la sua contromossa muovendo impercettibilmente gli occhi acquosi.
Voleva passare per vittima, su questo C. ne era fermamente convinto. Furbo il tipo.

«Non prendiamoci in giro T., lei ha sparato ad una persona che non era nemmeno nella sua proprietà, ma per strada e soprattutto non stava minacciando nessuno, a meno che il semplice passeggiare alle 22.30 non sia diventato improvvisamente sovversivo.»
«Questione di punti di vista.»
«Prego?»
«Proprio così, punti di vista. Vede commissario, lei dice che quell’uomo stava passeggiando per la strada, che è legittimo ci mancherebbe, ma alle 22.30 le brave persone sono a casa, i padri di famiglia intendo, e poi le ripeto, lo sguardo, il colore della sua pelle…»
«Continui»
«Con i tempi che corrono… lei capisce commissario, mi ha inteso, del resto siamo nella stessa barca, quanti ne avrà fermati, quanti ne avrà incarcerati per poi vederli scagionati dopo nemmeno ventiquattro ore?»

Ora era T. a fare le domande, era successo all’improvviso, un banalissimo contropiede.
In effetti non aveva tutti i torti: uomini e mezzi per acciuffare uno spacciatore, uno di quelli particolarmente pericolosi di via Roma, il nuovo ghetto dell’illegalità; uomini, mezzi e indagini, un’operazione iniziata alle 3 del mattino per essere sicuri di trovarlo in casa.
“Tagliata la testa il corpo muore di conseguenza”, queste le parole del questore; già parole, perché la verità era diversa.
Eppure non era questo il punto.

«Non è questo il punto T.»
«E qual è?»
«Che le domande le faccio io, lei sta divagando e soprattutto sta cercando di giustificare un omicidio con il movente del sospetto. Non c’è flagranza, non c’è intenzione manifesta, così, su due piedi lei ha deciso che Y.W. 23 anni, senegalese con regolare permesso di soggiorno, residente in Italia da sette anni, incensurato, era in procinto di compiere un danno alla sua proprietà?»
«Vengono qui per rubare, io non potevo sapere che lui era l’unico a non farlo, vengono qui e fanno i terroristi.»

C. aprì il fascicolo di T., finse di leggerlo, in realtà gli era bastata la mattinata per impararlo a memoria: erano carte, documenti, prove, segni di un passato violento.
E poi l’arma del delitto, simbolo del piombo.

«L’arma non è in regola, lo sa?»
«In regola?»
«Una Walther P38 con matricola abrasa, dal fascicolo risulta in suo possesso dal 1975, così come risultano due arresti per resistenza a pubblico ufficiale, un processo poi caduto in prescrizione connesso indirettamente alla strage di Bologna del 1980, e qui ci sono le testimonianze dello stesso processo che la identificano come appartenente ad una organizzazione politica extraparlamentare, una a caso… probabilmente oggi non vuol dire nulla ma all’epoca si chiamava terrorismo.
Come mi giustifica la sua morale?»

Silenzio.
Cadde un silenzio che parve infinito, interrotto dal rumore di una lampada difettosa, interrotto dal respiro ormai stanco dei due contendenti.
Entrò il vice, C. capì immediatamente: era arrivato l’avvocato.
Si alzò, non aveva più voglia di rivolgere altre domande a quell’uomo, sarebbe stata un’ulteriore perdita di tempo. Raggiunse la finestra in fondo al corridoio, la aprì per respirare aria che non sapesse di chiuso, guardò in strada, ai cancelli del commissariato c’era un capannello di persone con uno striscione: “Noi siamo con T.” e “C. servo dei poteri forti”. 

Il caso di T. e del senegalese ucciso era rimbalzato sui principali notiziari, sulle prime pagine dei quotidiani più importanti, persino nei salotti televisivi, dove avevano già deciso che T. si era solo difeso; nessuna prova, nessun testimone ma il verdetto già definito.
I partiti politici fecero a turno per accaparrarsi una sua testimonianza ad una qualche assemblea popolare, interventi diretti per raggiungere anche l’ultimo dei circoli e l’ultimo dei tesserati.
Nuovi ingranaggi mossi dall’emozione della grande macchina sputa-voti.
Il mito dell’uomo forte, l’uomo con le palle incarnato da T.: novello eroe contemporaneo, farcito di luoghi comuni, memoria non pervenuta, laureato in superficialità.

Alessandro Basso

[Immagine tratta da Google Immagini]

 

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