Come trovare la totale libertà nella più assoluta solitudine

«Ci troviamo così bene nella libera natura perché essa non ha alcuna opinione su di noi»1 scriveva Friedrich Nietzsche, riferendosi a quel tipo di bene che l’uomo prova nel momento in cui riesce ad allontanarsi dagli altri, cioè coloro che ci giudicano e ci guardano, poiché, nel momento in cui veniamo guardati, noi non riusciamo più a essere noi stessi ma riusciamo a vederci solo attraverso le lenti, la prospettiva e le considerazioni altrui.

Quando gli altri ci guardano, non possiamo sottrarci, ma dobbiamo sottostare e ci sentiamo feriti nel nostro essere. Nel sentirsi oggetto dello sguardo altrui l’uomo prova vergogna, si sente vulnerabile, in quanto l’altro scopre la nudità del nostro essere. La vergogna, il pudore e la timidezza sono i mezzi con i quali gli altri ci danno forma, i mezzi con cui noi riusciamo a uniformarci alla comunità, sacrificando di fatto il nostro vero io e i nostri veri desideri. Bisogna ammettere che nel momento in cui gli altri decidessero di ignorarci noi non esisteremmo più come membri della società, dunque bisogna riuscire ad ottenere una posizione di non vergogna dallo sguardo altrui, comprendendo che il pregiudizio, purtroppo, sarà sempre nell’altro. L’unica via per sfuggire da esso sarebbe cercare rimedio nella solitudine, ma noi sappiamo che non potremmo sopravvivere nel momento in cui sfuggiamo dall’altro: la nostra ricerca allora sarà giungere all’equilibrio tra la socialità e la solitudine.

Comprendendo quanto sia deleterio il sentirsi osservati, giudicati, in modo negativo, possiamo comprendere appieno il significato di quell’inferno di cui parla Sartre, alla fine di Huis clos, in italiano A porte chiuse (1944). La sua frase, significativa, «L’inferno sono gli altri2» non mira a negare il carattere sociale dell’uomo, anzi, secondo Sartre l’uomo può conoscere se stesso solo mediante gli altri, perché essi hanno una specifica rappresentazione di noi. Solo che non potremmo mai sentirci veramente bene con il nostro essere in società, perché, appunto, siamo giudicati: noi dunque desideriamo, ricerchiamo la solitudine in un mondo in cui è necessaria, invece, la collettività. Si desidera la solitudine perché solo quando si è soli si può manifestare davvero il proprio essere.

Potremmo giungere a una differenza sostanziale tra Sartre e Kant. Secondo il sistema kantiano la comunità rappresenta un luogo sereno, dove l’individuo può pienamente realizzarsi. Ma davvero l’individuo può realmente realizzarsi se deve uniformarsi alla collettività? Forse l’uomo non sarà completamente libero assieme all’altro uomo, ma escludendo dalla sua vita l’uomo in sé, l’altro che cosa sarebbe? Il nulla. L’equilibrio risulta fondamentale per abitare assieme all’altro, ma non solo, anche per comprendere il motivo per cui ci troviamo all’interno di una comunità, giungendo a cogliere il giudizio dell’altro, valutandolo e ripudiandolo in caso non si mostrasse veritiero.

L’uomo dunque è condannato, secondo Sartre, alla libertà. La totale libertà disorienta l’individuo, poiché esso è fragile a causa dell’accadere del mondo; per sfuggire al senso di panico, all’angoscia, comincia a costruire credenze: possiamo spiegare da qui la nascita delle religioni o dei sistemi deterministici. L’uomo, in sostanza, è alla ricerca di un punto di riferimento in un universo scarno: proprio questo intende dire Sartre quando afferma che l’uomo si affida volontariamente a certi concetti che mirano a dare un ordine a tale esistenza caotica, che non prevede nulla di ordinario.

A questo punto si potrebbe pensare che per sfuggire all’incertezza del vivere la soluzione sia il suicidio fisico. Ma non è forse l’opzione più semplice? Sartre non la considera nemmeno una opzione concepibile, in quanto il suicidarsi significa perdere la propria libertà, cioè negare la propria esistenza divenendo mera cosa. Morire non ha senso alcuno, perché scomparsi noi, scomparsa la nostra coscienza, scompare il mondo intero: «la morte non è mai quello che dà il suo senso alla vita; è invece ciò che le toglie ogni significato3».

 

Marco Catania

Marco Catania, classe 2000. Studia attualmente storia e filosofia presso l’università di Palermo, impegnandosi nel mentre a scrivere su temi filosofici riguardanti l’esistenza, l’etica e la religione.
Interessato soprattutto ad autori francesi come Sartre e Camus, ma anche a tanti autori fondamentali della storia della filosofia, quali Spinoza, Nietzsche e Kant.
Amante del pensiero critico, del dialogo costruttivo e della chiarezza ritiene indispensabile un corretto uso della facoltà di giudizio per potere vivere al meglio all’interno della realtà sociale.

 

NOTE:
1. Cfr. F. Nietzsche, Umano troppo umano, 1878
2. Cfr. J-P. Sartre, A porte chiuse, 1944
3. Cfr. J-P. Sartre, L’essere e il nulla, 1943

[Photo credit Elton Yung su unsplash.com]

Una citazione per voi: Kant e la legge morale

DUE COSE RIEMPIONO IL MIO ANIMO DI AMMIRAZIONE SEMPRE NUOVA E CRESCENTE: IL CIELO STELLATO SOPRA DI ME, E LA LEGGE MORALE IN ME

(I.Kant, Critica della ragion pratica, Laterza, Bari, 1976, pg. 197)

 

Kant pone questa citazione alla fine della Critica della Ragion Pratica, pubblicata nel 1788.

Si richiama fortemente alla rivoluzione scientifica ed uno dei punti di riferimento è Bacone; ci porta, infatti, a soffermarci su una facoltà imprescindibile di cui è dotato l’uomo: la Ragione. Rivolgere lo sguardo al cielo stellato vuol dire ricordare all’uomo di cosa è capace, cioè il poter governare e studiare la natura attraverso la sensibilità, l’intelletto e le sue categorie. L’uomo governa la natura, questa si confà alla ragione e non viceversa, l’uomo si riscopre soggetto in un mondo in cui fino a quel momento era stato oggetto. L’uomo si astrae dal suo stato di minorità e si riscopre soggetto in un mondo di fenomeni, l’uomo valica le famose colonne d’Ercole del sapere grazie alla Ragione.

Ponendo lo sguardo alla legge morale il richiamo è forte a Rousseau, ma per il filosofo la legge morale porta l’uomo a determinarsi come persona all’interno della società: nessuno ci obbliga ad aderire alla legge morale, ma chi sceglie di farlo lo fa in relazione alla società in cui vive ed è colui che è dotato di autocoscienza. Le legge morale fa parte di tutti noi e ci guida nell’azione, la domanda di Kant sorge nel momento in cui si chiede perchè decidiamo di aderire ad una morale comune nonostante nessuno ci obblighi?

La grandezza del filosofo sta nel riconoscere l’uomo come soggetto che riesce ad unire ambito morale, pratico, e teoretico. Un soggetto che è in grado di riconoscere dentro di sé un io interiore che sa domandarsi come agire secondo imperativi che ha dentro di sé. Questa citazione aprirà ad importanti dibattiti in filosofia che rimangono tuttora aperti sulla natura della morale; sarà anche ripresa da J.S. Mill che parlerà del rapporto dell’individuo con la libertà e sarà d’ispirazione per tutti gli autori successivi come Fichte o Hegel e si rivelerà fondamentale per il futuro esistenzialismo.

 

Francesca Peluso

 

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Un giorno a casa di Kant

Anche i filosofi, alla fine, invecchiano, si ammalano e muoiono. Ma prima della morte c’è stata la vita, fatta non solo di “pensiero”, ma anche di piccole routine quotidiane. Il libro di Thomas de Quincey Gli ultimi giorni di Immanuel Kant (1827/1854) si concentra, come da titolo, sulla parte finale della vita del filosofo, dipingendo un ritratto commovente dell’anziano pensatore; nella parte iniziale, tuttavia, il suo scritto ci offre un interessante e vivace spaccato della “giornata-tipo” di Kant. Seguiamo allora passo per passo il bel resoconto di questo bravo biografo: sarà come entrare ed essere ospiti per un giorno nella casa di uno dei filosofi più noti di sempre.

La giornata di Kant, racconta De Quincey, iniziava alle «cinque meno cinque in punto», ora in cui il suo maggiordomo lo veniva a svegliare «ad alta voce, con tono militare», scandendo le seguenti parole: «Signor professore, è l’ora». Kant scendeva dal letto senza esitazione: «a questo invito Kant invariabilmente obbediva senza alcun indugio, come un soldato risponde alla parola d’ordine». Seguiva una colazione frugale costituita da una o due tazze di tè, dopo la quale Kant fumava per qualche minuto la pipa riflettendo sulle disposizioni da dare ai domestici per la giornata. Verso le sette Kant usciva per andare a fare lezione, dopodiché tornava a casa e si recava nel suo studio, dove si dedicava alla lettura e alla scrittura in attesa dello scoccare dell’ora di pranzo.

Dalla ricostruzione di De Quincey apprendiamo anche le abitudini di Kant a tavola, di come egli scegliesse e disponesse con cura i cibi e i vini, e di come amasse intrattenere i suoi ospiti:

«a un suo pranzo, il numero dei convitati non doveva scendere al di sotto del numero delle Grazie, né superare quello delle Muse. […] Vi era una sufficiente scelta di piatti per venire incontro alla varietà dei gusti; e le caraffe del vino non erano poste a lato su tavolini distanti, o sotto l’odioso controllo di un domestico, ma anacreonticamente sulla tavola, e a portata di mano per ogni convitato. […] Tutto l’intrat­tenimento era insaporito dalle spezie del suo spirito illuminato, che si profondeva e riversava con naturalezza su tutti gli argomenti, via via che il procedere della conversazione gliene dava occasione».

Dopo pranzo (l’unico pasto che Kant consumava nell’arco della giornata), il filosofo si concedeva una passeggiata solitaria, non solo «per tenersi in esercizio», ma anche al fine di potersi immergere nei propri pensieri in pace e serenità «dopo tanta conversazione conviviale». Ma c’era anche un altro curioso motivo per cui egli voleva rimanere solo: durante quel tragitto «egli desiderava respirare esclusivamente dalle narici, cosa che non avrebbe potuto fare se fosse stato obbligato ad aprire continuamente la bocca conversando».

La ragione di questa strana abitudine è presto detta: Kant era convinto che, respirando in tal modo, «l’aria atmosferica, essendo […] condotta per un percorso più lungo, giungesse perciò ai polmoni con minore crudezza e a una temperatura un po’ più alta, dunque con minore capacità di irritarli. Saldo e perseverante in questo esercizio, che raccomandava costantemente ai suoi amici, Kant si vantava di una lunga immunità da raffreddori, malesseri, catarri e disturbi polmonari di ogni genere». Kant, in effetti, a parte il naturale declino a cui andò incontro sul finire della sua vita, non si ammalò praticamente mai nel corso della sua esistenza.

Dopo essere tornato dalla passeggiata, Kant si sedeva sul suo tavolo di lavoro vicino alla stufa, guardava dalla finestra l’antica torre di Löbenicht e si rimetteva al lavoro: studiava qualche libro, prendeva appunti, preparava la lezione del giorno dopo. Poteva andare avanti anche fino alle dieci di sera, ora scoccata la quale si spogliava e andava a dormire senza cenare. Kant aveva peraltro un modo tutto particolare di mettersi a letto: egli amava che le coperte lo avvolgessero completamente, «come una mummia, o […] come il baco da seta nel suo bozzolo».

«Dopo essersi impacchettato per la notte […] esclamava sovente tra sé […]: “È possibile concepire un essere umano che goda di una salute più perfetta della mia?”».

Il mattino seguente la giostra della vita ricominciava il proprio giro, e le giornate si ripetevano più o meno tutte uguali: l’inflessibile routine imposta da Kant «mai in alcuna circostanza variava o si allentava», afferma De Quincey. La puntualità e la precisione del filosofo nel ripetere gli stessi “rituali” divennero proverbiali: si vocifera che, vedendolo passare per strada, gli abitanti di Königsberg regolassero i loro orologi. Per Kant «la monotonia di questo succedersi non era opprimente, ed è probabile che essa contribuisse, insieme all’uniformità della sua dieta e ad altre abitudini, improntate alla stessa regolarità, a prolungare la sua vita. […] Egli era giunto a ritenere che la sua salute e la sua longevità fossero in gran parte il risultato dei suoi sforzi disciplinati. Parlava di se stesso come di un ginnasta che avesse continuato per quasi ottant’anni a conservare l’equilibrio sulla corda tesa della vita, senza mai oscillare né a destra né a sinistra».

Ma infine anche la salute di Kant, che per moltissimo tempo fu perfetta come un cristallo, incominciò a presentare le prime inevitabili incrinature. Ma di questo si parla nella parte restante del libro, il cui contenuto noi però non sveleremo, perché è calata la notte – si è fatto proprio tardi, ormai –, e non sarebbe educato rimanere qui, a casa di Kant, e parlare di lui. Le nostre voci, impegnate a raccontare qualche pettegolezzo sul suo conto, potrebbero arrivare fino in camera sua e svegliarlo – il che sarebbe un vero peccato, visto che adesso dorme sereno, in attesa della “levataccia” alle cinque meno cinque di domani.

 

Gianluca Venturini

 

 

[L’immagine di copertina è una rielaborazione digitale di immagini tratte da Google immagini]

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Dobbiamo parlare di ciò che non conosciamo

Il ‘900 con tutte le sue contraddizioni e due guerre mondiali è stato il secolo dell’ascesa della democrazia, i Paesi occidentali hanno approvato il suffragio universale, il voto alle donne e movimenti politici a crescente partecipazione hanno segnato importanti battaglie sociali e ideologiche plasmando di fatto il mondo contemporaneo.

Il ‘900 è stato anche il secolo di Internet che ha spalancato le porte dell’E-Democracy, ha reso più fruibili le informazioni, ci ha resi tutti connessi e interdipendenti come non siamo mai stati in passato. Eppure l’alba del nuovo millennio è sempre più drammaticamente segnata dalle contraddizioni della democrazia, l’esplosione delle Fake News, il conflitto intestino tra democrazia e partecipazione. Infatti anche di fronte a individui che non sono correttamente informati o che sono in forte asimmetria informativa rispetto alle questioni il motto del nuovo millennio è: «ho diritto a dire la mia, anche se di quella cosa non so assolutamente nulla». Possiamo esprimerci ormai su tutto, i nostri social media riportano le nostre opinioni su tutto, possiamo dire la nostra e quindi ci sentiamo in dovere di farlo, anzi ci viene sempre più chiesto, basti pensare a quante piattaforme sono sorte mettendo l’utente nelle condizioni di esprimere un giudizio su qualsiasi cosa, dal ristorante a un luogo.

Si sta consumando una battaglia che seppur meno epica di Star Wars ha origini lontane, parte dall’Antica Grecia e giunge fino ai giorni nostri. Se in Star Wars l’eterno conflitto è tra Sith e Jedi ai giorni nostri si sta consumando un conflitto tra Sofisti e Filosofi, cioè tra coloro che ricercano il consenso fine a se stesso e dove l’argomentazione è il fine e non il mezzo e coloro che invece restano fedeli alla Verità.

L’intera partita si gioca nel campo delle opinioni: da un lato c’è l’idea che tutti abbiano diritto di esprimersi su tutto dall’altro una dimensione tecnocratica per cui solo gli esperti sono chiamati a decidere per la collettività.

Tutta questa vicenda non è nuova alla storia dell’umanità. Per secoli la Chiesa Cattolica Apostolica Romana con le sue messe in latino e la proibizione di interpretare in autonomia i testi sacri era diventata l’unica realtà a detenere la Verità sino alle derive più estreme dell’Inquisizione. Essa sapeva che l’informazione non è solo potere e potenzialmente controllo, ma anche che se avesse lasciato ognuno libero di interpretare i testi sacri in autonomia, soprattutto senza gli adeguati strumenti teologici, si sarebbe verificata una proliferazione di eresie. Ma torniamo ancora più indietro: la stessa religione Cattolica Apostolica Romana in fondo non è che una eresia del giudaismo, motivo per cui i Farisei perseguitarono Gesù.

Un ulteriore problema è costituito dal fatto che in fondo la realtà non è oggettiva e, come scrive Nietzsche, «non esistono fatti, ma solo interpretazioni»; l’implosione del sogno positivistico di determinare la realtà in senso oggettivo appare oggi un progetto in declino, ma se la realtà in fondo non esiste, se non è altro che una narrazione che facciamo sul mondo, emerge in tutta la sua problematicità il tema di cosa sia vero e cosa sia falso.

Di sicuro ha influito sulla messa in discussione della Verità e dell’oggettività tutta una serie di autori e correnti di pensiero che ha avuto il suo culmine in Il mondo come volontà e rappresentazione di Schopenhauer; abbiamo instillato in intere generazioni l’idea che in fondo la realtà non fosse che una mera rappresentazione, del resto lo stesso Kant ci dice che noi non sappiamo nulla del Noumeno, ma che la realtà non è altro che qualcosa di generato da un sistema di categorie del soggetto, dunque è il soggetto a determinare la realtà.

I social media, il digitale e internet in generale hanno contribuito alla disgregazione dell’Autorità; il lato positivo è che vi è una maggiore democratizzazione dell’informazione: sappiamo che i regimi di tutti i tempi hanno sempre manipolato l’informazione, ma dall’altro hanno anche comportato la proliferazione di notizie false che ormai permeano la vita delle persone. L’umanità non era preparata a questo cambio di paradigma.

Negli anni si è enfatizzato eccessivamente il concetto di rappresentazione, basti pensare la moda crescente per lo storytelling che ci ha indotto a credere che le cose, la realtà, alla fine sia solo il frutto di come la raccontiamo; in parte questa idea risponde al vero. Milioni di esseri umani hanno vissuto tranquillamente le loro esistenze nella convinzione che la Terra fosse piatta o credendo nel geocentrismo: questo non faceva di certo girare il Sole intorno alla Terra, né ci poneva al centro dell’Universo e la Terra non per questo era piatta, ma la credenza induceva le persone a interpretare la realtà seppur attraverso un paradigma erroneo.

Il punto è proprio questo: seppure non accediamo al noumeno, la scienza ci permette di costruire modelli che ci approssimano alla realtà delle cose, il Metodo tanto enfatizzato da Cartesio e poi da Bacon ci consente di approssimarci alla Verità e di realizzare la sperimentazione per creare degli standard che possono essere intersoggettivamente condivisi e controllati.

Quindi è chiaro che lo storytelling va bene, va bene la narrazione, va bene la democratizzazione dell’informazione, ma non possiamo nemmeno escludere del tutto che esistano dei fatti al di fuori di noi, che possiamo provare ad analizzare, a modellizzare, a capire per approssimarci sempre di più al vero che non è assoluto, ma dinamico, eppure raggiungibile per quanto in maniera imperfetta.

«Tutti si sentono in diritto, in dovere di parlare di cinema. Tutti parlate di cinema, tutti parlate di cinema, tutti! Parlo mai di astrofisica, io? Parlo mai di biologia, io? Parlo mai di neuropsichiatria? Parlo mai di botanica? Parlo mai di algebra? Io non parlo di cose che non conosco! Parlo mai di epigrafia greca? Parlo mai di elettronica? Parlo mai delle dighe, dei ponti, delle autostrade? Io non parlo di cardiologia! Io non parlo di radiologia! Non parlo delle cose che non conosco!»1.

Dobbiamo parlare di quello che non conosciamo perché parlarne ci dona l’illusione di controllarlo; mai come oggi bisognerebbe recuperare un po’ di umiltà socratica sapendo di non sapere, recuperare la capacità di ascoltare gli altri, soprattutto chi magari ha speso anni della propria vita per acquistare quella conoscenza. Ma in un tempo in cui i nonni vengono trattati come “ferri vecchi” e l’esperienza è sempre messa in secondo piano rispetto all’innovazione siamo condannati a nuove forme di “dispensiero”.

Forse sarò elitario io, ma sono ancora convinto che la Terra non diventa piatta perché facciamo un referendum: per fortuna la realtà ha ancora la capacità di affermarsi, come la gravità continua a tenerci ancorati al suolo anche se decidiamo per alzata di mano che gli uomini possono volare o che essa non esiste.

 

Matteo Montagner

NOTE
1. Da Ecce Bombo di Nanni Moretti.

[Immagine di Gerrie van der Walt]

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Sul detto comune “Forse non tutti i musulmani sono terroristi…”

L’aveva capito Immanuel Kant quando, nel 1793, pubblicò il saggio Sul detto comune “Questo può valere in teoria, ma non vale per la pratica”: i proverbi, i modi di dire, i “detti comuni” appunto, sono più di semplici espressioni idiomatiche e di costume, sono vere e proprie cartine al tornasole del sentire comune, della mentalità collettiva. Possono quindi creare una specifica forma mentis e le basi di un sistema di pensiero, quando non ne siano già indicatori.

È questo il caso, oggi, di un detto che sentiamo fin troppo spesso, attribuito a Oriana Fallaci e diffusosi in maniera endemica dai bar ai social network ai talk show: “Forse non tutti i musulmani sono terroristi, ma tutti i terroristi sono musulmani”, un brillante sunto di teologia, analisi sociopolitica e psicologia che non lascia troppi dubbi in quanto a letture della crescente instabilità che affligge ormai ogni parte del mondo. Peccato che, come sottolineò lo stesso Kant, spesso questi detti siano pure idiozie glorificate da una facile retorica. L’attentato a Londra del 19 giugno e quello a Parigi del 29 giugno dovrebbero già essere valide confutazioni del detto preso in esame, ma lasciando da parte gli attacchi ad opera di singoli, prendiamo in considerazione invece alcuni gruppi terroristici organizzati non islamici.

In Israele, un numero crescente di nuovi coloni, ebrei sionisti, ha compiuto decine di attentati ai danni della popolazione civile palestinese (il più delle volte: nel 2015, l’attentatore scambiò un ragazzo ebreo per un arabo e lo uccise con un coltello), omicidi tesi a rivendicare la totale sovranità ebraica della Terra Santa.

In Birmania, l’etnia rohingya, di religione islamica, è sistematicamente vittima di attentati ad opera di gruppi paramilitari che si dichiarano seguaci del buddhismo theravāda, che agiscono su base nazionalista e razzista. Il tutto, peraltro, avviene con il complice silenzio del Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi, ora alla guida del Paese.

Nella Repubblica Centrafricana, le milizie cristiane degli anti-balaka compiono stragi coordinate e brutali ai danni della popolazione musulmana (lo stesso termine “anti-balaka” rimanda ad una contrapposizione religiosa, e può essere tradotto con “anti-musulmano”), con attacchi mirati ai civili.

In India, estremisti indù afferenti al partito del Primo Ministro Narendra Modi, il BJP, organizzano repressioni violente nei confronti delle minoranze non induiste del Paese, arrivando a imporre in alcune regioni (anche popolose e rilevanti come lo stato del Gujarat) una legge ispirata ai precetti indù, una vera e propria “shari’a induista” che punisce con l’ergastolo chi uccide una mucca.

Esisterebbero molti altri esempi anche al di fuori dell’ambito religioso e confessionale, come i movimenti del suprematismo bianco negli Stati Uniti o i rinati movimenti anarchici in Italia. Come accennato, il numero aumenta al momento in cui si aggiungono al novero anche i “lupi solitari” come Darren Osborne, Anders Breivik o perfino il nostrano Gianluca Casseri.

Espressioni come “Non tutti i musulmani sono terroristi, ma tutti i terroristi sono musulmani” sono, a proprio modo, consolanti: ci portano a pensare che esiste una singola ideologia, religione o dottrina (o comune ridotte in numero e chiaramente identificabili) che è all’origine del male e della violenza, e che una volta eliminata questa, si potrà finalmente vivere tranquillamente, in pace, in armonia. L’alternativa sarebbe angosciante: riconoscere che la violenza ha sempre accompagnato la storia umana, e che individui, popoli e gruppi hanno utilizzato ogni tipo di religione o ideologia per darle una giustificazione ed una legittimazione. Certo, questo presupporrebbe anche un impegno personale e quotidiano nell’eradicazione della violenza, a partire dall’ambito individuale e educativo: fortuna che biasimare l’islam e qualunque altro capro espiatorio lo seguirà sollevi tutti da ogni responsabilità personale.

Giacomo Mininni

[Immagine tratta dalla campagna pubblicitaria Anche le parole possono uccidere realizzata da Armando Testa]

 

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Intervista a Vittorino Andreoli: alla scoperta dell’uomo

Vittorino Andreoli, psichiatra di fama mondiale, è stato direttore del Dipartimento di Psichiatria di Verona-Soave ed è membro della New York Academy of Sciences. Uomo di scienza e di grande cultura umanistica, si è sempre occupato di studiare e comprendere in profondità i segreti della mente, per poter aiutare concretamente l’uomo alleviandone le sofferenze con straordinaria competenza scientifica, sensibilità, delicatezza e coerenza. Sempre alla ricerca dell’umanità dell’uomo, negli anni ha analizzato per la magistratura grandi criminali che hanno scosso l’opinione pubblica italiana, fra i quali Pietro Maso e Donato Bilancia.

Fra le sue ultime pubblicazioni ricordiamo: La mia corsa nel tempo (Rizzoli, 2016); La gioia di vivere (Rizzoli, 2016); Ma siamo matti (Rizzoli, 2015); L’educazione (im)possibile (Rizzoli, 2014); I segreti della mente (Rizzoli, 2013); Le nostre paure (Rizzoli, 2010); La fatica di crescere (Rizzoli, 2009).

Professore, nel corso della sua vita si è sempre occupato di esseri umani. A suo parere qual è la condizione dell’uomo contemporaneo?

Anzitutto c’è una condizione che è del tutto umana: l’uomo ha delle peculiarità per le quali è propriamente homo sapiens sapiens. Questi due sapiens non mi piacciono, ma sono l’indicazione per collocarci nell’albero delle specie che aveva disegnato Darwin. Quindi la condizione umana è quella di un animale. C’è una famosa e bellissima espressione di René Dubos (neuroscienziato francese, ndr) che ha scritto So human an animal (1968). Siamo dunque degli animali e abbiamo, in quanto specie umana, la caratteristica della coscienza, una capacità di porci questioni che si legano al cogito di Cartesio e all’Io penso di Kant. Siamo portati a porci domande a cui non sappiamo dare risposte. Attraverso la coscienza abbiamo la consapevolezza dei limiti della specie: la morte, la domanda dal nulla all’esserci, il limite drammatico del dolore, particolarmente quello inevitabile. Io credo che ci siano delle caratteristiche legate propriamente alla condizione dell’essere uomo e a queste caratteristiche e a questo senso del limite e del mistero si legano poi alcune condizioni del tempo presente. Le caratteristiche dell’essere del tempo presente sono: l’insicurezza, la paura, la percezione di un futuro che non si riesce nemmeno a immaginare, la violenza che ha una dimensione che non era mai stata così nel passato, inoltre c’è la paura che la nostra storia su questa terra finisca. Stephen Hawking afferma che sarà una grande fortuna se questo pianeta avrà ancora l’uomo fra mille anni. Questa è un’affermazione drammatica perché, dal punto di vista della fisica e della cosmologia, sappiamo che il pianeta va verso l’estinzione poiché il sole è una stella che nel giro di due miliardi di anni finirà. Ma tra due miliardi di anni e mille anni passa una bella differenza. Hawking non lega tanto questa ipotesi al consumo dell’energia stellare, quanto piuttosto alla paura che l’intelligenza artificiale possa creare dei comportamenti distruttivi per l’uomo. Attualmente i limiti e le paure sono davvero di grande portata.

I suoi ultimi scritti, su tutti La gioia di vivere (2016), si occupano di esplorare in linea teorica ma anche praticamente gli ingredienti per poter condurre un’esistenza all’insegna del benessere e della gioia. Come mai ha sentito l’esigenza e l’urgenza di trattare questi temi, paradossalmente essendosi sempre occupato delle sofferenze dell’anima?

Devo premettere una considerazione: io amo l’uomo e lo amo indipendentemente da quelle che sono le qualità buone o cattive. Io mi sono occupato di casi estremi e ho sempre trovato l’uomo. L’ho trovato persino in Donato Bilancia, che ha ammazzato 17 persone in 6 mesi. In quanto uomo, io ne ho sempre grande considerazione. Amo l’uomo e il mio sogno è quello di un uomo che riesca a vivere insieme secondo l’umanesimo. Quell’insieme di principi che in ciascun tempo devono essere applicati perché si possa vivere meglio. Amo l’uomo, sogno e so che può vivere in un modo che sia dell’umanesimo. Questo significa rispetto dell’altro, significa far dominare il Noi e non più l’io.
Per quanto riguarda la gioia, la spinta è una visione tragica del tempo presente. Io sono un tragico, non solo perché mi dedico ai casi estremi, non solo perché ho amato i tragici greci fin da piccolo, ma proprio perché la mia percezione tragica si sta espandendo e sta arrivando a previsioni quasi apocalittiche, è allora che ho ritenuto necessario promuovere la gioia, la vita. La gioia è certamente l’elemento fondamentale che io ritengo mancare nel residuo di umanesimo che questa società ha ancora in sé. Perché domina l’io, sostenuto anche dalle psicologie. Con Freud nasce la psicologia dell’Io, e tutti noi che l’abbiamo sostenuta (e per questo c’è persino un po’ di senso di colpa) abbiamo finto che sia possibile parlare dell’uomo singolo, mentre l’uomo è sempre relazione ed è sempre storia. Quindi ho pensato che era tempo di cambiare gli occhiali e di vedere il mondo in modo diverso e qui mi sono appoggiato, da una parte a un grandissimo filosofo come Kant, dall’altra ad un grandissimo psichiatra come Karl Jaspers. Kant ha detto: “il mondo com’è non lo conosciamo però ne percepiamo una rappresentazione” che dipende da quelle categorie a priori che per noi sono la biologia del cervello. Così ho cominciato a illustrare quali sono le caratteristiche del mondo della gioia, di questa visione del mondo e di come si fa a promuoverla. Perché, a differenza dei filosofi della tradizione io sono un operativo, uno che vorrebbe cambiare la storia di un uomo e in fondo questo è lo scopo che ho sempre messo nella mia professione. Mi pare che bisogna guardare il mondo in modo diverso da come ce lo presentano i giornali, i politici. Ormai è consuetudine svegliarci in una visione che è catastrofica e qui si inserisce la mia idea che bisogna cominciare a guardare i Nessuno e non il potere. Io sono contro il potere inteso come verbo “posso e quindi faccio”, mentre sono per la condivisione e quindi per il Noi. Perché io per vivere ho bisogno degli altri. Gli egocentrismi sono una lettura sbagliata. L’io è una finzione rispetto al Noi.

Quindi, come possiamo ‘fare la gioia’?

Bisogna avere la percezione della fragilità. Io sono fragile e in quanto fragile ho bisogno dell’altro. Se ho bisogno dell’altro devo avere verso l’altro un’attesa, una ricerca, devo trovarlo, devo legarmi e questo naturalmente porta a dare maggiore importanza al pronome Noi. Pensiamo al legame di coppia, al legame con i figli, al legame con la comunità, con gli uomini. Se c’è qualcosa di filosofico nel mio pensiero è estremamente semplice, non se ne può più di complicazioni. Pensi alla solitudine del tempo presente, ai vecchi, all’abbandono. Oggi c’è la voglia dell’altro ed è su questo che noi dobbiamo fondarci. Per questo, i miei richiami alla filosofia sono dentro all’umanesimo. Questa è una filosofia che non si distacca nemmeno un istante dall’essere terapeutica. Il De tranquillitate animi (Seneca, ndr) è un’ottima seduta di un buon psichiatra, così come i dialoghi platonici, che sono esempio di una relazione che oggi è fondamento delle psicologie e della psichiatria. I dialoghi platonici ci dicono: “c’è un problema, vediamo di analizzarlo”. Platone non fa esercizi di razionalità, quanto piuttosto di un’arte relazionale per vivere. La filosofia dev’essere insegnamento di vita. Oggi c’è una filosofia da riproporre come “terapia”. Parola educativa e parola terapeutica sono per questo molto affini. Mi meraviglio ancora di come la filosofia sia stata distolta completamente dal contesto della classicità. Io amo la civiltà occidentale e dopo i nichilismi, la filosofia non può essere che una filosofia della vita.

Binswanger affermava che l’oggetto della psichiatria è l’uomo. Egli veniva dal sostrato filosofico della fenomenologia, così come Jaspers e Minkowski.

Essi sono dei filosofi, dei fenomenologi. Lei ha colto un punto importante: l’unione fra filosofia e insegnare vivere, che ha trovato nella fenomenologia un terreno estremamente ricco. Io sono e voglio essere un clinico, però ho avuto la grande fortuna di respirare l’atmosfera fenomenologica e di aver avuto un amico come Minkowski che è stato un grande filosofo e psichiatra.

Qual è quindi il suo rapporto con la psichiatria fenomenologica e quale invece quello con la psicoanalisi?

Debbo fare una premessa: io voglio cambiare l’uomo. Da me vengono persone che stanno male, che desiderano stare meglio e chiedono il mio aiuto. Io sono un operativo e in questo sono un empirico, per questo voglio fare qualsiasi cosa per poter aiutare. Naturalmente non mi propongo mai, ma quando interpellato cerco di rispondere sempre. La fenomenologia è una filosofia straordinaria. Io ho conosciuto dei fenomenologi, per esempio Cargnello, che avevano anche responsabilità di cura. Le posso dire che con la fenomenologia non è facile curare perché è troppo lontana dalla clinica che è empirica, mentre la fenomenologia è molto teorica. Molti mi dicono che sono un fenomenologo, ma io sono un clinico, un empirico, uno che vuole far star meglio, uno che vuole essere-con per far star meglio colui che gli sta vicino. Le mie radici sono nella fenomenologia, ma le mani vanno in una disciplina scientifica, perché ho bisogno di strumenti per agire.
Per quanto riguarda la psicoanalisi è inutile che stiamo a discutere l’importanza di Freud e il suo apporto storico. Ma sono molto critico rispetto alla psicologia dell’Io. Il principio freudiano per cui se una persona presenta delle anomalie occorre trovare la radice dentro di lui… beh su questa convinzione sono molto critico perché l’io è una finzione, mentre credo nel Noi. Se colui che ha i conflitti, invece di guardarlo solo dentro lo metto in relazione con un’altra persona, questi in relazione cambia.
Io sono un clinico che ha bisogno della scienza (mi sono dedicato per molti anni in laboratorio allo studio del cervello). Sono un clinico tradizionale però con strumenti attuali. Mi spiace dover dire che di clinici oggi non ce ne sono più e per questo la psichiatria è in una crisi spaventosa. Ma oggi bisogna aiutare l’uomo. Un valido ausilio a questo può venirci da un filosofo come Schopenauer che nell’Ottocento ha capito cose molto utili anche all’uomo d’oggi, nella crisi del tempo presente.

Qual è il suo parere su Franco Basaglia?

È molto semplice. Basaglia è sicuramente un uomo della storia. Non ho simpatia per tutti quelli che ne fanno un uomo del presente. Nella storia ha un significato preciso e storicamente apprezzabile. Ho conosciuto molto bene Basaglia. Non sono mai andato in piazza per lui, ma l’ho sempre rispettato. Da lui nasce lo stimolo per una legge (legge 180, ndr) che io ho seguito. Il primo ottobre 1980, giorno in cui venivano chiusi i manicomi, cioè non vi entrava più nessuno, io ho lasciato il manicomio dove in fondo ero un personaggio di significato e sono andato rispettando la legge 180. Basaglia, essendo un grande trascinatore, ha messo in moto un movimento che ha contribuito a dare una svolta alla psichiatria, anche se è stato più nel chiudere senza sapere cosa aprire. Nel mio libro Un secolo di follia (1991) a Basaglia ho dedicato quindici righe perché io credo nella psichiatria scientifica. Credo nel come si debba fare la psichiatria, credo quindi nella scienza. Per esempio, Cesare Lombroso oggi non è accettabile, ma storicamente è un grandissimo autore. È un uomo della storia. Perché dicendo che il matto, il criminale, ha una degenerazione cerebrale ha allontanato gli spiriti del male. La donna delinquente (saggio di Lombroso, ndr) è certamente un libro che oggi va condannato, ma che storicamente ha allontanato questa dominanza del male e poi fino ad allora il cervello non lo studiava nessuno, perché c’era l’anima da qualche parte, mentre lui ha detto che tutto va riportato al cervello. Oggi sembra ridicolo perché è noto, però storicamente è stato importante. Nell’ambito della psichiatria scientifica, con radici nell’umanesimo e nella fenomenologia, Basaglia non ha tanto spazio, però storicamente è stato il protagonista di un mutamento storicamente utile. Quindi merita alcune righe nella storia.

Qual è il suo rapporto con la religione e in particolare con il Cristianesimo? Secondo lei la vita può avere un senso al di là della fede in Dio?

Il tema della religione meriterebbe un ampio spazio di riflessione e dialogo. Vi sono due punti di riferimento circa le mie considerazioni in merito. Primo: il libro Il sacro di Rudolf Otto, del 1917, il quale dice che nell’uomo, oltre alle categorie della razionalità, ci sono delle categorie per quello che è il mistero, il sacro. Tutti gli uomini hanno le categorie per percepire il sacro, che è mistero, senso del limite, tutto ciò che si lega alla morte. Otto dice che il religioso è la risposta che si tende a dare del sacro. Il sacro avverte il mistero della morte, la religione dice che invece c’è il paradiso, o il Nirvana, o le metempsicosi, o il nulla. Io credo veramente che esista il sacro e che le religioni siano dei tentativi di risposta.
Il secondo pilastro è la figura di Gesù di Nazareth. Indubbiamente tra i grandi della storia e forse il più grande uomo che io conosca storicamente, persino più di Socrate, Platone, Montaigne. Io l’ho studiato come uomo e l’ho trovato grande come tale. Se poi c’è qualcuno che dice che è anche Dio, sarà ancora di più. Ma io mi occupo di uomini… e certamente lo ascolterei.
Altro punto di riferimento è la Chiesa, della quale non amo il culto e non condivido diverse espressioni, ma della quale ho comprensione. La Chiesa è una struttura molto umana che si è attaccata a Gesù e che penso a Gesù non piaccia molto. L’immagine e l’esempio di Papa Francesco mi piacciono. Amo molto i preti ai quali ho dedicato molta attenzione.
Io sono un non credente nel significato che dice che non ho l’esperienza di Dio, che non l’ho mai incontrato. Se Dio venisse a trovarmi, dopo aver fatto le debite ricerche, certamente la mia vita cambierebbe, probabilmente diventerei un credente. Non sono ateo e ho rispetto per quelli che credono (anche questo fa parte del Noi). Sono un non credente, ma pronto a credere se avessi l’esperienza di Dio.

Alessandro Tonon

[Immagine tratta da Google Immagini]

Giustizia della mente: i processi giuridici riletti dalla Filosofia

Tutti gli studiosi del rapporto mente-cervello sostengono che nessun fare umano, per essere compreso, può trascurare gli apporti che offrono le scienze cognitive. Piergiorgio Strata ha evidenziato come «ogni giorno siamo impegnati in una miriade di atti comportamentali che ci sembrano determinati dalle nostre decisioni di uomini liberi e coscienti… Nella realtà la maggior parte delle nostre azioni è eseguita sotto una pesante spinta della quale non siamo consapevoli». La giustizia, le cui decisioni intercettano direttamente la società, non può più esimersi dall’essere letta (o riletta) con la lente delle neuroscienze e delle scienze cognitive. Ancor di più ciò accade per la giustizia penale che, per sua natuta genetica, ha una funzione educativa verso la comunità (funzione general-preventiva) ed è altresì deputata a riparare le lesioni sociali causate dal delitto (Emile Durkheim).

Nonostante questa “sensibilità” sia oramai diffusa in svariate discipline umane, pare che proprio la giustizia applicata fatichi ad accettare incursioni di questo tipo. Come sosterrebbe Thomas Kuhn, sembra di trovarsi in una di quelle condizioni tipiche di cambiamento di paradigma scientifico (nel caso di specie scientifico-giuridico) durante le quali il nuovo viene rifiutato oppure si cerca con tutte le forze intellettuali ed operative di incanalarlo all’interno dei confini tracciati dal vecchio e questo, di fatto, per disinnescarlo. Pare quasi che, all’interno dei tribunali, non si operi come in tutti gli altri ambiti della vita umana: sembra che, una volta entrati nei “palazzi”, la dea bendata sia capace di svuotare i cervelli di tutto ciò che “non è diritto”, le menti vengano ripulite dei loro bias cognitivi, trasformando i protagonisti della vicenda giudiziaria in perfetti robot logici che hanno come unica guida la norma di legge e da quella non possono discostarsi. Il tribunale diviene una sorta di “mondo possibile” (dell’impossibile) capace di trasformare il legno storto di Kant in un legno dritto, l’uomo fallace in un essere perfettamente logico. Forse questa strenua difesa di una irrealistica “torre di avorio”, inattaccabile dalle tortuosità tipiche di ogni decisione umana, è funzionale alla giustizia ed ai suoi risvolti sociali. Certamente però è qualcosa di assai prossimo dall’essere un dogma antistorico.

Justice of Mind nasce nel 2015 proprio al fine di far solcare anche il mondo della giustizia penale applicata dalle novità interpretative portate dalle scienze cognitive, considerando “il tribunale” non un luogo capace di essere immune dalle questioni sulla cognizione ma, al contrario, evidenziandone la funzione decisoria. La giustizia è decisione e, da qualunque dei suoi attori la si voglia analizzare, si basa sulla libertà di scelta come condizione minima di operatività. L’accusato deve essere libero di decidere quando commette il fatto di reato ed anche nel corso del processo (la capacità di stare in giudizio e dunque di decidere e comprendere il processo è sancita dal codice di procedura penale); il giudice, per emettere una sentenza, deve seguire le regole di diritto previste dall’ordinamento (secondo logicità) e ciò in ragione del proprio “libero convincimento” (sono sempre parole del codice). Avvocati ed accusatore debbono, a loro volta, essere in grado di decidere liberamente e non avere cointeressenze che possono compromettere la libertà di “indossare la toga”. Prima ancora, il legislatore deve stabilire con coscienza e libertà le regole che ordinano la società per il futuro. Tutto questo bagaglio di libertà del decidere non può e non deve essere distrutto, ma certamente deve essere compreso alla luce delle nuove scienze. Diversamente, del mondo della giustizia, residuerà solamente il lato “pop” e cioè quella funzione pseudo pubblicitaria e da fiction costituita dalla sua mediaticizzazione, lasciando sempre più indifferente il pubblico (e la società) ai suoi valori, anche tecnici, più importanti (la funzione general-preventiva e quella riparatrice del trauma sociale causato dal delitto). La mente, trampolino delle decisioni, non è più considerabile un’entità staccata dal cervello; il rapporto mente-cervello è inesorabilmente di tipo fisicalista ed il cervello, attraverso l’operare dei neuroni, delle sinapsi e dei neurotrasmettitori, produce i pensieri e questi pensieri (da cui nascono le decisioni) sono il prodotto di tre fattori principali: del codice genetico, delle esperienze e quindi dell’apprendimento e del caso (come insegna Edoardo Boncinelli). Ciascuno di noi traccia il proprio percorso che, poi, lo “farà decidere”. Ciò non vuol dire aderire a tesi deterministiche neolombrosiane ma, piuttosto, tentare di dare delle nuove chiavi di lettura, anche del mondo della giustizia, che non siano vincolate in modo apodittico e preconcetto, ad un vecchio paradigma. Justice of Mind si propone così di spiegare o tentare di capire le ragioni delle scelte del reo, del giudice, del legislatore, dell’avvocato e dell’accusatore. Senza nessun desiderio di censura. Solamente per comprendere e risolvere problemi. Perché, per dirla con Karl Popper, «tutta la vita è risolvere problemi». Capire la giustizia penale ed il processo non è qualcosa che può dirsi esente dai fatti della vita.

Per questa funzione di comprensione è necessario creare una sinergia tra conoscenze giuridiche, filosofiche, cognitive, psicologiche e criminologiche. Questo è Justice of Mind. Per capire e non restare intrappolati nelle inevitabili “trappole mentali”. Edmonds in Uccideresti l’uomo grasso? ritiene che «i tribunali saranno sempre più invitati a prendere in considerazione scusanti ed attenuanti basate su scansioni cerebrali». Non solo: per capire i tribunali bisogna capire i dilemmi etici che Edmonds pone nel suo testo e sono il titolo del libro: come e perché l’essere umano decide in un certo modo; come e perché decide oppure no di uccidere l’uomo grasso per salvarne altri cinque. E qui si va diretti a capire la decisione, il cervello del decisore, il suo libero convincimento, il giudice.

Luca D’Auria

Siete certi di poter porre certezze?

«L’unica certezza nella vita è che non ci sono certezze».

Spesso e volentieri si risolve così il nostro scetticismo nei confronti della conoscenza e della presenza o meno di certezze, di qualche sorta di punto fermo nella nostra vita. So che ci pensate ogni giorno, che è un pensiero che può tormentarvi nelle vostre vite instabili, che mai trovano pace, evento dopo evento, problema dopo problema. Vorremo tutti avere un perno irremovibile, un’ancora di salvezza che ci dia qualcosa, anche solo un senso di sollievo e tranquillità.

Voi che state leggendo, assieme a me che in tutto questo voglio essere coinvolto al vostro stesso livello, che anche io mi sento di dovermi fermare a riflettere e leggere assieme a voi, noi facciamo parte di quel gruppo di persone che in tale epoca hanno tutto e niente. Abbiamo tutto a portata di mano, viviamo in una condizione di comodità inimmaginabile per chi ha vissuto ben altri periodi. Siamo provvisti di tante, troppe cose alla portata di un click, di una semplice domanda, arrivando ad una sbornia dal punto di vista dell’offerta. Vogliamo sempre di più e ci appare tutto come dovuto, tanto che alla prima mancanza di uno dei nostri tanti oggetti del desiderio ci riscopriamo incapaci di cambiare passo, di girarci e prendere un’altra strada per la soluzione. In questo nostro voler avere tutto, per assurdo, quasi perdiamo la concezione di volontà, di desiderio e dell’oggetto del desiderio stesso. La condizione in cui ci ritroviamo è quella di una massima instabilità, di vulnerabilità di fronte alla vita. Nulla stringiamo e nulla valorizziamo, invocando quella serenità, quella sicurezza che per noi sarebbe una ripresa di fiato, uno stop, una pausa in questa vita che ci chiede tanto e di cui non vediamo i doni, non li apprezziamo a causa del nostro essere viziati.

Una pausa non l’avrete mai, almeno per quel che posso modestamente pensare, sarete sempre in situazione e quei momenti di riposo non li vivrete allo stesso modo di quell’ideale che tanto invocate. Sarete sempre le solite persone problematiche che crederanno d’esser sole, d’essere abbandonate al mondo e alla vita, senza neanche l’ombra di una certezza, di un faro che si erga nella vostra esistenza. La soluzione, però, potrebbe essere proprio davanti ai vostri occhi, la quale viene ignorata perché troppo vicina, troppo semplice, troppo poco in questo immenso quadro di cui volete cogliere tutto, primo e secondo piano, prospettiva, punto di fuga ed ogni piccolo e minuzioso dettaglio. Voi pensate di non aver certezze quando date per scontate un’infinità di cose, non ponete interrogativo alcuno su argomenti che ne richiederebbero e che se analizzati risulterebbero infinitamente complicati. È il caso della filosofia che si oppone a tale superficialità e si propone di analizzare, di dare la giusta importanza ad ogni singola tematica, ogni singola componente del mondo. Con la filosofia, facendo filosofia, difatti, alziamo i nostri standard epistemici, parlando con la voce di Ludwig Wittgenstein, ponendo forse un dubbio su ogni cosa, iniettandoci questo sentimento scettico che di certezze non ne vuol sentir parlare.

Vi confesso che sono influenzato dalla lettura di “Della certezza” sempre di Wittgenstein, testo che mi ha fatto riflettere sul concetto di conoscenza e di certezza, il tutto incluso nell’immenso spazio della filosofia del linguaggio. Proprio per questo vorrei citare Bertrand Russel, maestro proprio di Wittgenstein, che afferma: «Ogni tanto è bene porre dei punti interrogativi su ciò che si è sempre dato per scontato». Fa al caso nostro, scettici o no, e siamo immersi in questo percorso conoscitivo che ci influenza e cambia rotta a seconda dei nostri standard epistemici, di ciò che decidiamo di dubitare e quanto siamo disposti a dubitare. A scuola vi avranno insegnato che la scuola dello Scetticismo poneva un freno alla conoscenza umana, affermando il dubbio universale e la conseguente epoché, ovverosia sospensione del giudizio. Eppure sarete d’accordo con me che non si può dubitare di tutto, come io non posso dubitare delle parole che sto usando per scrivere questo articolo, delle parole che uso per parlare con le persone. Non posso dubitarne, secondo Wittgenstein risulterebbe un non senso, come io la riterrei una grossa insensatezza per quel che è il mio vivere e stare al mondo, e persino la certezza con cui dubiterei di tutto ciò sarebbe meno forte della certezza con cui affermo e mi esprimo.

La soluzione dovrebbe essere quella di porre delle certezze, dei punti fermi nella nostra visione del mondo, quelli che Wittgenstein all’interno della filosofia del linguaggio indica come proposizioni “cardine”. I cardini per noi sono necessari, non potremmo aprire la porta senza gli adeguati cardini, come dall’altro lato non potrebbe esserci  una porta se ponessimo dei soli cardini, un insieme di punti fermi indubitabili scacciando completamente lo scetticismo. Il dubbio è forse per noi indispensabile, come forse lo sono anche quelle certezze che ogni secondo della nostra vita noi stabiliamo, diamo per scontate come l’aria che respiriamo, come l’esistenza del mondo esterno in cui stiamo. Siamo sempre nella solita situazione, nel solito punto di stallo in cui non sappiamo come comportarci, se affermare convinti o dubitare prudentemente. Forse la filosofia non ci dà la soluzione ma solo una sguardo a tutto ciò, uno sguardo che rivela qualcosa che prima ci appariva solo come insoddisfazione, come desideri inappagati, come mancanza di stabilità, mentre ora riscopriamo una stabilità che esiterei a definire tale, un equilibrio tra certezza e dubbio che ci tiene in sospeso e forse è proprio questo ciò che avevamo davanti agli occhi, forse è ciò che non volevamo, o che non volevamo vedere in tutto l’insieme. Siamo ancora una volta come la colomba descritta da Immanuel Kant, la quale è convinta che senza l’attrito dell’aria volerebbe meglio, non realizzando che è proprio quell’attrito che le permette lo sbattere delle ali.

Alvise Gasparini