Razionale + inconscio: il sur-realismo un secolo dopo

I primi trent’anni del secolo scorso hanno prodotto dei movimenti artistici di cui si parla col termine, tratto dal lessico militare, di Avanguardie Storiche, che indica il carattere progressivo spesso provocatorio dell’arte prodotta da tali correnti, un’arte innovativa da un punto di vista stilistico che promuove un rinnovamento sostanziale del linguaggio. Le Avanguardie Storiche, ovvero Futurismo, Espressionismo, Dadaismo e Surrealismo tra le altre, introducono nell’arte e nella letteratura di inizio Novecento una svolta, una frattura rispetto al passato ponendosi in opposizione tanto al Naturalismo e alla sua concezione dell’arte come riflesso oggettivo della realtà quanto all’Estetismo con la sua aristocratica chiusura nella contemplazione dell’Io o nel vagheggiamento di una vita intesa come opera d’arte. Le Avanguardie condividono inoltre il carattere totale dell’arte ossia la contaminazione di tutte le arti (pittura, letteratura, teatro, musica), un’idea di arte intesa come produzione materiale di oggetti e sperimentazione di tecniche quali réclame, happening, spettacolo provocatorio e una concezione dell’arte come opera di una collettività in costante scambio di esperienze con altri gruppi; centrali poi le riviste come «Lacerba» per il Futurismo o «291» per il Dadaismo e i manifesti, riflesso di una vera e propria ideologia condivisa. 

Il primo manifesto del Surrealismo viene scritto e firmato nel 1924 a Parigi da André Breton che cita un numeroso gruppo di compagni di strada, tra cui Aragon, Péret, Soupault, Eluard, Desnos. All’atto della fondazione il Surrealismo è un movimento essenzialmente letterario anche se tra gli amici abituali di questi poeti non mancano artisti quali Duchamp, Giorgio De Chirico, Max Ernst. Risale all’anno successivo il saggio di Breton Le Surrealisme et la peinture pubblicato a puntate sulla «Révolution Surrealiste», organo ufficiale del movimento fino al 1927. 

A distanza di un secolo quali sono i lasciti del Surrealismo? Come il Dadaismo, il Surrealismo non genera uno stile ma un atteggiamento verso l’arte: il Surrealismo nasce con una forte componente dada e anzi sembra precisare alcuni aspetti che il Dadaismo aveva prefigurato senza dar loro una struttura sistematica. Inoltre il Surrealismo come il Dadaismo si caratterizza per la “religione del caso”: il caso non viene cioè assunto solo come elemento scardinatore rispetto a un progetto ideologicamente fondato ma come elemento rivelatore che impone di prendere in esame dati che la logica tradizionale non prenderebbe in considerazione.

Centrale poi il rifiuto della tradizione e la rivendicazione di una piena libertà di espressione artistica. Rilevante in tal senso la scelta del nome Dadaismo, coniato da Tristan Tzara: sia che “dada” indichi il balbettio infantile o il gioco del cavalluccio a dondolo in romeno o la ripetizione di “sì” in russo, è una semplificazione onomatopeica, quasi istintiva, che vuole ricollegarsi alle origini del linguaggio verbale prima di ogni ideologizzazione. Quanto al Surrealismo, si pensi all’écriture automatique ovvero alla registrazione dell’intero flusso del pensiero senza limitazioni logiche, morali, estetiche: qualsiasi immagine va registrata al suo affacciarsi alla coscienza senza censure, e emblematico è il gioco nato da un esperimento di scrittura collettiva, cadavre esquis. E si aggiunga anche la definizione che Breton dà di Surrealismo nel Manifesto del ‘24 ovvero “automatismo psichico puro col quale ci si propone di esprimere il funzionamento reale del pensiero”.

Oltre al caso ricopre grande importanza l’analogia: già Marinetti nel Manifesto tecnico della letteratura futurista (20 febbraio 1909) aveva accennato all’effetto poetico dell’immaginazione senza fili ovvero una serie di immagini slegate tra loro. Breton propone sull’esempio di Lautréamont delle analogie composte da termini incommensurabili come il famoso “bello come l’incontro fortuito, su un tavolo anatomico, di una macchina da cucire e di un ombrello”. E non si tratta solo di un procedimento letterario ma anche artistico, si pensi alle immagini doppie di Dalì, ai paradossi di Magritte, alle combinazioni disparate di De Chirico.

Convinti sulla base della freudiana Interpretazione dei sogni (1899) – che iniziava a circolare nelle prime traduzioni francesi proprio agli inizi degli anni ’20 – che il linguaggio possa rivelare la psiche, i Surrealisti promuovono la ricerca del nuovo affidata all’inconscio coniugando razionale e immaginario. Centrali quindi il recupero dell’infanzia, perché età incontaminata dalla razionalità, l’amore, che consente di risperimentare l’immaginazione, e la follia, intesa come inosservanza delle regole sociali. A tal proposito è bene infine precisare che il termine che oggigiorno noi tutti usiamo, “sur-reale”, non è, almeno nella sua accezione originaria, sinonimo di “irrazionale” ma allude piuttosto a una realtà più grande non in senso metafisico ma nell’accezione di includere anche ciò che è stato escluso appunto l’immaginario, l’inconscio.

 

Rossella Farnese

 

[Immagine tratta da flickr]

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Io sono tuo marito, un po’ di analisi logica

In occasione della Giornata internazionale contro la violenza sulle donne – 2015

Io sono tuo marito – soggetto, copula, predicato nominale. Ma se quel tuo marito fosse un complemento oggetto? Dovremmo cambiare prospettiva, spostarci da un’analisi che implica solo le parole a una che includa il rapporto fra gli esseri parlanti e il linguaggio.

Io sono tuo marito. Potremmo usare qualsiasi altra espressione – Io sono uno psicoanalista, un operaio – o ribaltare la forma – Tu sei mia moglie, ecc. – conservando inalterato il rapporto. Più che la parola in sé e sebbene ci sia un tu, cose su cui torneremo, importa la condizione in cui si trova quel io ogni qual volta usi il verbo essere, consapevolmente o meno: è indicato all’Altro, con il verbo che funziona da copula per un predicato nominale, o è portato a un altro, con il verbo a funzionare da predicato verbale per un complemento oggetto (Lacan, 1954 – 1955)?

Facciamo un esempio: una cosa è vedersi recapitare delle rose – attenzione – senza la persona che le ha inviate, altra faccenda è quando la persona che manda quelle rose è attaccata a esse. In un caso funzioneranno da metafora del mittente, suo predicato nominale (in psicoanalese: saremo in un registro simbolico), nell’altro saranno parte del suo corpo, ne saranno il complemento oggetto, prova della sua esistenza nelle mani dell’altro.

Veniamo al secondo termine, chi o che cosa, essendoci, tiene in piedi per il primo la possibilità di chiudere la frase Io sono. Nei predicati nominali, cioè dove il simbolico funziona, questa trova ancoraggio nel discorso – in psicoanalese: un S1 chiama un S2 che retroagisce fermando un significato (Lacan, 1957 – 1958).

Quando il secondo termine è un oggetto le cose sono semplici. Immaginate un’impresa: ci si può battere perché sia in un certo modo. Una persona invece resta con difficoltà nel modo in cui viene messa. Recalcitra, vede quanto chi la vuole in quel modo ne possa tollerare la mancanza. La posizione di oggetto è cioè problematica per l’essere umano, che si vive come preda di qualcosa a cui non si può sottrarre (Lacan, 1951 e 1955 – 1956). Sarebbe da chiedersi perché il rischio di questa condizione funzioni per molti da centro di gravità: “Voglio essere la sua ossessione” – disse una ragazza.

Torniamo al primo termine. Cosa succede quando il complemento oggetto, essendo anch’esso un soggetto, inizia a recalcitrare? Succede che la frase Io sono, non presa in un discorso, apre su un baratro. Lo specchio, potremmo dire usando un registro che in psicoanalisi si chiama immaginario, invece di riflettere il riconoscibile, apre su un’incognita (Lacan, 1949 e 1955 – 1956). L’esperienza del ciglio di questo baratro, del margine di questo specchio, ha un nome preciso: angoscia. Attenzione, l’angoscia non è il precipitare o il non riconoscersi ma è la percezione dell’imminenza di questo accadere (Lacan 1962 – 1963).

Se un soggetto non si pone in rapporto a un predicato nominale ma a un complemento oggetto, anche l’angoscia seguirà la medesima logica: se non diluita nel discorso, sarà inaggirabile. Cioè delle due l’una: o siamo presi in una articolazione di linguaggio (in psicoanalese: catena significante) e allora potremo spostarci da un predicato nominale all’altro – c’è da dire: restando sempre un po’ insoddisfatti – oppure saremo il complemento oggetto dell’Altro che si pone come soggetto nei nostri confronti e da questa posizione sarà difficile uscire. Da una parte la metonimia, dall’altra la confusione (Lacan, 1957).

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