La vita è un’illusione (digitale)

Un tempo i filosofi si facevano domande che oggi, probabilmente proprio grazie alle loro risposte o perlomeno ai loro tentativi, non ci facciamo più. Se Descartes nel Seicento passava i suoi pomeriggi a cercare di dimostrare razionalmente la nostra esistenza, noi, se va bene, ci limitiamo a maledirla. Cogito ergo sum, “Penso dunque sono” è una formula che se non esistesse bisognerebbe inventare, perché come si fa a dubitare del fatto di dubitare di esistere? Non si può, questa certezza dimostra che stiamo facendo qualcosa e quindi, per farla, esistiamo. Fantastico.

Anche noi, però, trascorriamo dei pomeriggi avventurosi, spess05o con lo smartphone in mano – gli ultimi dati disponibili ci raccontano di un popolo, parlo di quello italiano, che passa in media sei ore al giorno online di cui ben due sui social network. Senza questa specie di prolungamento digitale di noi stessi, letteralmente attaccato al nostro corpo (io lo tengo sempre nella tasca davanti dei pantaloni), non sapremmo più come vivere, ovvero comunicare, sapere, consumare. Il gesto più comune che ci ritroviamo a fare durante le nostre giornate è appunto digitare. Viene spontaneo perciò pensare a un aggiornamento del “Penso dunque sono” con “Digito dunque sono”. In che senso però digitare darebbe la misura della nostra esistenza? In realtà digitare non basta, direi addirittura che – anche se non tanto per esistere quanto per sentirci esistere – non serve a nulla se in cambio non otteniamo la reazione altrui (like, commenti, condivisioni). La formula più corretta con cui tentare di descrivere i nostri tempi è per cui “Digito dunque siamo”. L’essere umano ha ovviamente sempre avuto bisogno dello sguardo altrui, del suo riconoscimento, nel bene e nel male, per sentirsi esistere, ma oggi questo “sguardo” (metamorfosatosi in like) è ancora più essenziale per la costruzione della sua stessa identità, del sé, del suo modo di esistere. Naturalmente, non è che venga realmente meno la nostra esistenza, rimaniamo vivi e sentiamo di esserlo anche senza postarlo ed essere riconosciuti come tali attraverso i social network, ma qualcosa viene a mancare. E questo qualcosa è la “dignità” d’esistenza, più che l’esistenza stessa. Far esistere qualcosa (un’esperienza, una vacanza o un concerto) senza condividerla sui social oggi è come non averla fatta.      

Nel libretto che ho intitolato, appunto, Digito dunque siamo, parlo di tutti noi, di come i nostri comportamenti stiano cambiando a causa dell’utilizzo pervasivo dei media digitali. È in atto, che lo si voglia vedere o no, una vera e propria riprogrammazione emotiva che porta con sé gigantesche illusioni che vorrebbero farci credere che grazie all’iperconnessione a cui siamo costantemente esposti stia aumentando, con la possibilità di comunicare in ogni momento e in ogni luogo, anche l’empatia e la partecipazione tra gli esseri umani. Purtroppo non è così, perché, nella maggior parte dei casi inconsapevolmente, i nostri slanci di empatia e partecipazione sono subordinati al meccanismo egoriferito del social network, che ci premia a ogni nostro click o segno digitale che lasciamo online. Postare gli auguri sulla bacheca di un “amico” virtuale (il cui compleanno ci è stato prontamente ricordato da una notifica), firmare una petizione online o esprimere un’opinione sul fatto del giorno non ci rende più umani, nel senso di empatici e partecipi, ma solo più succubi di un ego che, per sentirsi vivo, ha sempre più bisogno di riconoscimento pubblico. Insomma, siamo diventati più narcisisti perché abbiamo trovato lo strumento ideale per manifestare questa tendenza, e al contempo abbiamo sottratto terreno alla nostra parte più “umana”, se con questo termine intendiamo la capacità di comprensione, di immedesimazione, l’altruismo. La magia del digitale è tuttavia quella di farci credere, dentro di noi, esattamente il contrario.

Eh sì, il digitale ci sta cambiando, cambia il nostro modo di pensare, sentire, comunicare, informarci, conoscere, volere. Cambia le nostre idee di felicità, di desiderio, di realizzazione. Riprogramma le nostre esistenze, donandoci una nuova identità scissa e continuamente ricomposta tra online e offline. Ma cambiare è normale, tutto cambia, sempre, in continuazione. Certo, sta a noi accogliere il cambiamento e valutarne gli effetti sulle nostre vite. E tuttavia ci è praticamente impossibile non cambiare insieme al mondo in quest’unica direzione che chiamo, provocatoriamente, “disumanizzante”. Se la storia imbocca una strada chi ha la forza di resisterle e cambiare, da solo, rotta? Parlando più concretamente: chi di voi può permettersi di non avere uno smartphone? Quasi nessuno.

Sapere che viviamo in un’illusione. È questa l’unica arma per resistere alla “disumanizzazione” digitale. 

 

Stefano Scrima

 

Scrittore e filosofo, ha analizzato gli effetti del digitale, e in particolare dei social network, sulla vita delle persone attraverso due saggi editi da Castelvecchi: Digito dunque siamo. Piccolo manuale filosofico per difendersi dalle illusioni digitali (2019) e Socrate su Facebook. Istruzioni filosofiche per non rimanere intrappolati nella rete (2018). Fra gli altri suoi libri: Filosofi all’Inferno. Il lato oscuro della saggezza (il melangolo, 2019); L’arte di soffrire. La vita malinconica (Stampa Alternativa, 2018) e Il filosofo pigro. Imparare la filosofia senza fatica (il melangolo, 2017).

[L’immagine di copertina del presente articolo è tratta dalla copertina del libro Digito dunque siamo. Piccolo manuale filosofico per difendersi dalle illusioni digitali (2019) su concessione dell’autore]

“Il sogno di un uomo ridicolo”: vincere l’indifferenza

Esiste un racconto di Dostoevskij – brevissimo, nascosto dai più voluminosi lavori dello scrittore russo – a cui non è mai stata dedicata troppa attenzione, forse perché non ha nemmeno un titolo accattivante: Il sogno di un uomo ridicolo. A sentirlo, ci si chiede che cosa avrà mai da dire un uomo che si definisce ridicolo.

Quando ci si imbatte in questo testo, l’inizio quasi non smentisce le aspettative del lettore. Vi è un uomo, di cui nulla si sa, né il suo nome, né la sua storia, ma tutto ciò che è importante sapere è che egli è ridicolo.
L’essere ridicolo racchiude ogni particolare del protagonista, tutta la sua essenza, e vi si spiega tutto il suo mistero. Nel momento in cui egli afferma che è un uomo ridicolo, che sempre lo è stato, e se ne è vergognato terribilmente, il lettore lo conosce profondamente.

Se da giovane egli provava immenso imbarazzo per se stesso, da adulto giunge a una consapevolezza che placa la sua vergogna e lo conduce a una decisione naturale: l’uomo ridicolo sa che la vita gli è indifferente, e che dunque tanto vale morire.

«Un po’ alla volta mi sono convinto che non c’è mai stato nulla. Allora ad un tratto ho smesso di essere irritato con gli uomini e quasi smisi di notarli»1.

L’uomo ridicolo giunge a considerare la morte, perché essa non è l’opposto della vita ma l’indifferenza lo è. Scoprire che le azioni, gli intenti, non sono nulla e che ovunque ogni cosa è priva di senso è il vero contrario della vita, e non la morte. L’indifferenza non è soltanto verso il mondo e gli altri ma nasce nell’uomo ridicolo come consapevolezza che egli stesso è indifferente per il mondo. L’indifferenza è il negativo che si sostituisce all’esistenza e alla sua potenza, che ingloba il protagonista, ed egli non si accorge nemmeno più della vita che cerca di catturarlo nuovamente.

Quando gli si avvicina all’improvviso una bambina in cerca di aiuto, ovvero la vita nella sua crudezza e banalità, egli è ormai sopraffatto dall’indifferenza e nulla può fare per lei, se non allontanarla.
Se la vita trascina l’essere umano nelle direzioni più disparate e nel modo più incomprensibile, l’indifferenza costringe l’uomo ridicolo a piegarsi su stesso, fino a rannicchiarsi in sé, e scomparire.
Giunti a questo punto, è allora vero che l’uomo ridicolo sembra non avere niente da insegnare a chi legge. E come potrebbe se ogni cosa è priva di peso?

Tuttavia, vi è un momento in cui nell’indifferenza che ingloba l’uomo ridicolo si forma una crepa. Egli, dopo aver scacciato la bambina, la vita stessa, ed entrato in casa con l’intento di spararsi, piomba in un sonno profondo e improvviso; sogna di essere catapultato in una terra identica alla nostra, ma in cui gli uomini sono puri, privi di angosce e colpe. L’uomo ridicolo, nel suo sogno, si imbatte in uomini che vivono, per i quali niente è indifferente, poiché sentono di non dover capire l’esistenza, ma solo goderne. Gli uomini innocenti non hanno scienza o religione, perché la vita non va studiata, o posseduta, ma solo vissuta.

«Ma il loro sapere era più profondo e più elevato di quello della nostra scienza; perché la nostra scienza cerca di spiegare la vita […]; loro, anche senza la scienza, sapevano come si fa a vivere»2.

Il sogno dell’uomo ridicolo si conclude con un paradosso: gli uomini puri vengono corrotti dalla sensualità della menzogna e dimenticano il loro stato originario. Gli uomini, la natura, gli animali non sono che strumenti, e il loro essere diviene perciò indifferente.
L’uomo ridicolo si sveglia con la verità negli occhi e nella mente, desideroso che tutti la conoscano.

Il sogno di un uomo ridicolo può sembrare l’ennesimo racconto sullo stato originario degli uomini, la storia della loro corruzione e la nascita, inevitabile, della civiltà. Vi è però un significato più profondo del racconto di Dostoevskij, che spiega perché il protagonista non può che essere un uomo ridicolo.

L’uomo ridicolo è colui che cerca di comprendere la vita, perché gli è lontana: è un mistero che non riesce a risolvere. Egli è ridicolo perché in questo fallisce e se ne vergogna. È solo tramite un sogno, cioè un’altra dimensione dell’esistenza, la stessa che gli sfugge, che egli riconosce di poter ritrovare ciò che ha perduto. Al suo risveglio, l’uomo ridicolo viene deriso dagli altri, a cui vuol donare la verità, ma egli non prova più vergogna per se stesso, poiché adesso non cerca più di metter la vita in provetta, o nei libri, ma di viverla per ciò che è.

Il sogno di un uomo ridicolo è lo scritto meno famoso di Dostoevskij e forse il racconto di cui abbiamo più bisogno in questo tempo. Uno scrittore trascorre la sua esistenza a cercare le parole giuste, e non è una vita sprecata, perché egli è un osservatore di uomini e riesce a mettere nero su bianco quel che in fondo sappiamo, ma che non siamo in grado di ammettere a noi stessi. Dostoevskij invita, con pochissime pagine, a vincere l’indifferenza, che è la vera morte della vita, il suo dissolvimento. L’uomo ridicolo, a cui non crede nessuno, è per certo colui che non può insegnare nulla, altrimenti non avrebbe imparato dagli uomini innocenti che nella vita bisogna entrare e non guardarla da un sogno.

 

Fabiana Castellino

 

NOTE
1. F. Dostoevskij, Il sogno di un uomo ridicolo, Roma, Newton Compton 2005, p.135.
2. Ivi, p. 147.

[Photo credit Sharosh Rajasekher]

 

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Tra illusione e realtà: “I begli occhi di Maya”

«È Maya, il velo ingannatore, che avvolge gli occhi dei mortali e fa loro vedere un mondo del quale non può dirsi né che esista, né che non esista; perché ella rassomiglia al sonno, rassomiglia al riflesso del sole sulla sabbia, che il pellegrino da lontano scambia per acqua»1.

Se Arthur Schopenhauer rendeva la dea dell’abbondanza e dell’illusione la metafora cardine della sua filosofia, di quell’esistenza che è fallace e ingannevole come i sogni, non meno fa Giovanni Pigozzo nel romanzo I begli occhi di Maya, dove Maya e i suoi “occhi” diventano oggetto profondamente concupito e ricercato, elemento cruciale dell’intreccio, che spinge i protagonisti a confrontarsi con mondi tra l’apparenza e il vero.

Tutto ha inizio dalle scoperte di un vecchio professore archeologo, una «brava persona, sulle nuvole», «forse un po’ timido», come viene descritto nel romanzo, che lascia in eredità una complicata serie di enigmi, uniti all’alone di mistero che avvolge la sua morte. A risolverli è chiamato un suo caro studente che, viaggiando per le vie di Milano, dovrà cercare di ricomporre tutti i pezzi del puzzle, rendendo onore al lavoro e nel contempo alla memoria del professore.

Non è facile trovare il filo conduttore, il bandolo della matassa che spieghi la serie intricata di vicende che lega la storia dei due “occhi” e, forse, la risposta si trova più nel passato che nel presente, in quella memoria tanto cara allo studioso di archeologia. «A che può servire vivere, se non puoi ricordare? Perché hai voluto bene, se non puoi ricordare un volto che hai amato? Perché essere felici se una mattina non sai di esserlo stato?»2.

Il presente, in fondo, è soltanto l’ultima estremità di un passato millenario, il risultato delle vicende che hanno interessato persone e popoli appartenenti a realtà altre. Così come ognuno di noi è la somma delle esperienze e delle identità che hanno segnato la sua persona e il luogo in cui vive, anche i due smeraldi verdi sono il frutto del passaggio di epoche diverse, che hanno lasciato i segni della loro presenza.

Ecco dunque che il romanzo arriva ad abbracciare uno spazio di tempo dilatato: dalla Roma classica al medioevo, fino alla Milano contemporanea. Storie antiche, incise su pergamene, prendono magicamente vita e il lettore si trova a camminare prima tra le strade di Aquileia, poi a fianco al Duomo di Milano, trasportato nel tempo e nello spazio assieme ai personaggi.

Ma si tratta di sogno o realtà?

«Qualche volta mi sveglio all’alba e mi chiedo intontito se il mondo non sia solo il sogno di un dio addormentato: un tempo in cui esiste un presente, ma per lui scorre diversamente»3 si interroga una mattina il protagonista, ancora ignaro del ruolo di cui sarà investito. Forse i significati degli oggetti vanno oltre ciò che abbiamo immaginato, può darsi che un codice racchiuda più indicazioni di quelle aspettate, oppure che una poesia avvolga in metafora uno spazio fisico; tutto può nascere come finire nella nostra mente, il confine tra vero e non vero si dispiega nell’intervallo di un velo sottile, indefinibile. La realtà, dunque, deve essere indagata, come ci insegna il nostro caro protagonista; il piacere della scoperta è sempre presente in colui che non si accontenta di frasi fatte, di supposizioni, ma cerca e filtra il mondo con sguardo critico, aperto a nuove soluzioni e prospettive.

«Ti vuoi arrendere? Io non mi fermerò»4 sostiene con fermezza l’io narrante, pronto ad andare fino in fondo ai suoi ragionamenti, senza abbandonare al primo ostacolo.

Un invito a non rimanere nel “sonno della mente”, a lasciarsi illudere solo nella misura in cui l’illusione può farci apprendere qualcosa di utile per il presente, diventando una sorta di sogno rivelatore.

Un romanzo che tocca le radici del nostro passato, facendo percepire quel legame nascosto che sempre permane tra noi e l’antico, ponendoci nell’ottica dell’investigatore o dello scienziato, mai sazio di esperienze.

 

Anna Tieppo

 

L’autore. Giovanni Pigozzo è nato alla fine degli anni Ottanta nella campagna veneta, si è trasferito a Milano vent’anni dopo. Ha esordito come scrittore di racconti brevi confluiti nella raccolta dei Racconti a luce spenta (2014), cui ha fatto seguito un denso racconto (lungo) in edizione singola, Mi fa male il tuo dolore, edito nel 2016. Questo è il suo primo romanzo.

NOTE:
1. A. Schopenhauer in Domenico Massaro, La comunicazione filosofica, Tomo A, 3, Trento, Paravia, 2002, p. 10.
2. G. Pigozzo, I begli occhi di Maya, FdBooks, Bologna, 2016, p. 64.
3. Ivi, p. 50.
4. Ivi, p. 89.

 

[immagine tratta da google immagini]

 

I begli occhidi Maya

 

Tre riflessioni sul tempo in un viaggio aereo

Il tempo scorre. Che banalità, direte voi. Ma è proprio da questo verbo, scorrere, che inizia una prima considerazione, legata al movimento e in senso più ampio al viaggio. Scorrere deriva dal latino excŭrrĕre – correre fuori, correre via. Il tempo dunque corre via e non possiamo fermarlo, come il flusso dell’acqua. Già nel V secolo a.C. Eraclito scriveva ne Sulla natura «panta rhei os potamòs», sottolineando anche come non si possa discendere due volte nel medesimo fiume.

Il viaggio ci fa scorrere da un punto A a un punto B, e il tempo soggettivo – a differenza di quello oggettivo – in mezzo non è mai lo stesso, tanto meno se parliamo di uno spostamento aereo. Qualsiasi sia la meta finale, entrare in cabina ci conduce in una vera e propria capsula del tempo, dove lo spazio è il nostro alveo e il tempo è il fluido che ci muove. Ed è quando le ruote del carrello si staccano dalla pista inizia un viaggio nel viaggio.

 

  1. Tra passato e futuro

Non è questa la sede per indagare se il tempo sia una realtà oppure una mera illusione, ma una cosa possiamo dirla con sicurezza: mai come all’interno di un aereo perdiamo il riferimento delle due forme a propri della sensibilità umana tanto care a Kant. Pensare che quando a Torino Caselle sono le 16 all’aeroporto di Perth sono le 22, è come scattare una fotografia dello stesso identico tempo, che assume solo nomi e numeri diversi. Una volta in aria, ci muoviamo tra passato e futuro comodamente seduti sul nostro sedile, in attesa di atterrare nel presente, qualsiasi sia l’ora e il giorno.

 

  1. La paura di cadere

L’abbiamo sperimentato tutti: quando ci divertiamo il tempo si comprime, quando ci annoiamo si dilata. Che cosa succede in aereo? Anche in questo caso, tutto dipende dal nostro stato d’animo e da quanto siamo disposti a essere semplici osservatori del tempo che scorre, senza possibilità alcuna di poter incidere con il nostro libero arbitrio. Siamo trascinati dagli eventi, inermi, come una zattera senza remi, fino alla foce.

A differenza di altri mezzi di trasporto, l’aereo ci impone di affidarci completamente all’esperienza e al buon senso di un comandante. Non possiamo tirare un freno come sulla metro o in treno, non possiamo buttarci a mare o dentro una scialuppa come in nave. Ecco perché è sbagliato parlare di paura di volare: è paura di precipitare e non salvarsi, o meglio ancora di non aver la libertà di agire.

Come ci ricorda la filosofia zen: «Se il problema ha una soluzione, preoccuparsene è inutile, alla fine il problema sarà risolto. Se il problema non ha soluzione, non c’è motivo di preoccuparsi, perché non può essere risolto.» Non possiamo opporci allo scorrere del tempo una volta chiusi in aereo, dunque perché avere paura?

 

  1. Ora del ritorno

Quando si viaggia verso casa il tempo sembra scorrere più velocemente. Certo, tranne che per Ulisse. Ad ogni modo, questo succede perché abbiamo aspettative che già conosciamo. Anche all’interno di un aereo – che percettivamente ci offre un’esperienza sempre simile ad ogni volo – sappiamo esattamente cosa (e chi) ci aspetta una volta atterrati. Le nostre radici.

 

Quando salirete sul prossimo aereo, fateci caso. E portatevi una buona lettura, magari proprio su Il tempo. La sostanza di cui è fatta la vita di Stefan Klein, edizioni Bollati Boringhieri.

Buon viaggio.

 

Alice Avallone

Alice ha studiato lettere moderne e si è specializzata in pubblicità. Lavora come digital strategist per aziende, enti e agenzie: il suo compito è trovare idee e contenuti creativi per coinvolgere le persone sulla Rete. È creatrice della rivista di viaggio Nuok e di un inventario creativo di ars combinatoria ispirato al filosofo Raimondo Lullo. Dal due anni insegna e coordina il College Digital della Scuola Holden di Torino.

[Photo credit: Chris Brignola]

Se non fossimo liberi: l’assurdità della necessità

Che senso ha pensare fino in fondo che tutto ciò che si è, che si pensa e che si fa, sia in qualche modo già deciso? Può qualcuno conciliare una credenza simile con la vita quotidiana?

Premetto subito per evitare confusioni che qui intendo la libertà in senso ontologico: cioè come libero arbitrio, non come libertà fattuale, come quando si dice ‘Spartaco si è liberato dalle catene’. In questo secondo senso gli uomini sono un miscuglio, in diverse misure, di libertà e condizionatezza; nel senso del libero arbitrio la questione è invece a dir poco controversa da qualsiasi punto di vista la si tratti.

In ambito filosofico le opinioni si muovono in uno spettro compreso tra: ‘Siamo assolutamente liberi (e condannati ad esserlo)’ e ‘Il libero arbitrio è semplice illusione’. Tra questi due poli si inseriscono poi infinite sfumature e compromessi.

Abbozzato velocemente lo sfondo, entriamo nel vivo dell’argomentazione. Lo scopo di questo articolo, sulla scorta di argomentazioni antiche, è mostrare che, quantomeno da un punto di vista esistenziale, la negazione del libero arbitrio sfocia in una sorta di contraddizione. Un tal tipo di contraddizione, largamente intesa, è uno iato, uno sfasamento tra ciò che uno dice e ciò che uno fa.

Nei suoi effetti psicologici essa è pensabile come dissonanza cognitiva: qualcosa in me stride, una dimensione del mio essere non è in accordo con un’altra. Questa situazione deve trovare riappacificazione altrimenti, secondo alcuni, a lungo andare si rischierebbe l’insorgere di disturbi psichici.

Siamo partiti dalla fine, dando per scontato che negare il libero arbitrio risulti effettivamente in un tale tipo di contraddizione. Vediamo perché ciò accade.

L’etica, come sa chiunque si sia addentrato nei suoi meandri, è pensabile come teoria della decisione. Essa riguarda le scelte e le loro destinazioni, cioè i fini. Le scelte, che siano reali o illusorie, innervano la vita di chiunque di noi. Alcune decisioni che prendiamo hanno grande importanza nel decidere chi saremo domani, e come importanti le considera la maggior parte di noi. Pensare che la storia della vita di ognuno sia già scritta rende insignificante l’attività di decidere, rende indifferente di intraprendere una via e non un’altra, e rende quindi impossibile scegliere.

Le teorie deterministiche cercano di affermare proprio questo: non essendo io libero, quando valuto due opzioni sono simile ad una pietra sospesa in aria prima della caduta che ‘decide’ in che direzione rotolare, ossia sto sprecando tempo.

A questo punto chi si ostina a negare la libertà ha due opzioni: (1) coerentizzare ciò che fa a ciò che pensa e dice e quindi cercare inutilmente di vivere come se le sue scelte fossero illusorie, scorrendo attraverso la vita, negando le responsabilità, convivendo con i problemi non solo pratici ma anche teorici che la scelta di una vita del genere comporta. Oppure, per evitare (1), deve (2) vivere una vita scissa tra ciò che dice di credere e ciò che le sue azioni dicono che egli crede fino a diventare due persone diverse: io che penso e io che agisco. Inutile dirlo, in entrambi i casi le conseguenze sono disastrose.

Quello qui formulato è uno sviluppo del cosiddetto ‘argomento pigro’, conosciuto già dai pensatori di epoca greco-romana. Con esso si vuole mostrare che, pur non essendo immediatamente squalificabile, la posizione deterministica stessa è incompatibile con la morale − e quindi infondo con la vita −, sia da un punto di vista teorico che pratico.

Tornando alla domanda iniziale, diremo quindi che uno è certamente libero di negare la libertà, basta che ne accetti le conseguenze.

Francesco Fanti Rovetta

[Immagine tratta da Google Immagini]

 

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Alle illusioni del capitalismo Serge Latouche risponde con la decrescita

Quasi quattrocento persone – e un centinaio fuori – martedì 7 marzo hanno accolto a Treviso Serge Latouche, economista e filosofo francese, in occasione del primo incontro del Festival Filosofico Pensare il presente tenutosi presso l’Aula Magna dell’istituto Enrico Fermi di Treviso.

Importanti i temi trattati da Latouche durante il suo intervento intitolato Decrescita e futuro, due termini in apparente contrasto tra loro, ma solo superficialmente.

Il ragionamento parte da un quesito sempre più centrale nella nostra quotidianità: quale sarà il nostro futuro? «La risposta – dice Latouche – non va cercata tra gli economisti perché non sanno fare previsioni a lungo termine»: è semplicemente una questione di logica legata alla consapevolezza della caducità del sistema economico che attualmente influenza pesantemente la nostra esistenza tanto da porci su un bivio; come cita Woody Allen: «Siamo arrivati all’incrocio di due strade: una porta alla scomparsa della specie, l’altra alla disperazione totale. Spero che l’uomo faccia la scelta giusta».

Il capitalismo, il consumismo, la crescita sostenibile, sono tutti fattori illusori, appartenenti ad un’epoca iniziata con la rivoluzione industriale ma che ormai da anni ha esaurito la sua spinta motrice per lo sviluppo: uno sviluppo che secondo le logiche di mercato si presenta come infinito ed inesauribile. Così come le stelle, anche le pratiche dell’economia di consumo continuano ad emanare immutate la loro luce nonostante siano “morenti”.

I danni provocati dalla continua domanda di risorse sono incalcolabili, ci stiamo dirigendo verso la sesta estinzione di massa della storia – la quinta colpì i dinosauri sessantacinque milioni di anni fa – ogni giorno scompaiono circa 200 specie di esseri viventi e non ce ne accorgiamo.

Le risorse del nostro pianeta non sono inesauribili, abbiamo a disposizione due miliardi di ettari (su sessanta) per la bioproduzione; un altro elemento “finito” riguarda la capacità di smaltimento dei rifiuti, che non è un problema unicamente legato alle sole grandi città; inquiniamo i mari, i fiumi, i Paesi del sud del mondo, alimentando e facendo prosperare malattie e “disperazione”; infine occorre considerare la fragilità del capitale, la moneta che muove gli scambi commerciali, e che “tampona” con crediti e prestiti la domanda continua di beni fondamentalmente superflui al fabbisogno del singolo individuo: una situazione simile attraverso la formazione di una bolla speculativa dalle proporzioni indefinite causò il crollo dei mercati nel 2008.

«La crescita infinita è inconcepibile, assurda, lo capirebbe anche un bambino di cinque anni», continua il filosofo economista bretone, e tutto ciò dovrebbe portarci a ripensare l’intero sistema economico. Le origini del capitalismo sono erroneamente poste durante l’apogeo delle repubbliche marinare (X-XII secolo), quando in realtà si trattava unicamente di scambi commerciali. Oggi si parla di vera e propria ideologia del consumo, e l’occidentalizzazione del mondo è la sua religione.

L’ultimo punto, ma probabilmente il più fondamentale toccato da Latouche, riguarda la felicità. È proprio questo elemento al centro della «società di abbondanza frugale» all’interno della quale si può vivere senza eccessi anche con lo stretto indispensabile: «il razionale deve lasciar spazio al ragionevole, occorre creare decrescita ed ecosocialismo» contro lo slogan dello sviluppo sostenibile e la sua spina dorsale incentrata, per esempio, sull’obsolescenza tecnologica, sull’accumulo e sullo spreco.

La domanda sorge spontanea: togliendo linfa vitale alla globalizzazione, verrà meno anche il lavoro? Secondo Latouche no. Nuovi impieghi e nuove professioni risulterebbero dalla nuova concezione di un’economia più locale e meno globale, più diversificata e meno omologata. Le parole d’ordine sono: rilocalizzare, riconvertire e ridurre; sviluppare senza esagerare, ripensare il settore primario – quello dell’agricoltura – per una migliore disponibilità di risorse, diminuire anche l’orario di lavoro: «questi sono gli ingredienti della felicità».

Alessandro Basso

Articolo scritto in occasione del primo incontro Decrescita e futuro (martedì 7 marzo) del festival di filosofia Pensare il presente, a Treviso dal 7 al 30 marzo 2017.

Uomo, natura e tecnica: il paradiso perduto dipinto da Gauguin

Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo? Nell’angolo in alto a sinistra dell’omonimo quadro, Gauguin ci mette davanti a questi tre interrogativi che, da soli, riescono a racchiudere i problemi (o le soluzioni problematiche) di secoli di filosofia, ci coinvolge così in una riflessione sulla nostra essenza più profonda e sul nostro essere uomini che stanno al mondo.

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L’opera si srotola da destra a sinistra (secondo l’uso orientale) in un susseguirsi di immagini apparentemente sconnesse l’una dall’altra, a rappresentare le varie fasi dell’esistenza: da un bambino abbandonato a se stesso – che rappresenta il venire al mondo – a una donna anziana, raggomitolata nell’angolo opposto – a significare la vecchiaia e la paura della morte. Al centro del quadro una figura giovane, che sembra dividere lo spazio a metà, è rappresentata nell’atto di cogliere un frutto: è la giovinezza che si ciba della parte più florida e fugace dell’esistenza. Tutta l’ambientazione richiama alla cultura e alla religione indigena con la quale Gauguin si trovò a convivere durante i suoi anni di permanenza a Tahiti (prima dal 1891 al 1893, poi dal 1895 al 1901).

L’intera opera sembra descriverci un paradiso terrestre incontaminato, una dimensione surreale di purezza e autenticità, lontano dal nuovo mondo industrializzato da cui Gauguin fuggiva.

Tuttavia, nell’immagine immacolata che il pittore ci propone del connubio uomo-natura, letto in chiave mistica, è presente – proprio nella sua assenza – l’invasività della tecnica. L’uomo nella sua purezza (qualcuno potrebbe dire bestialità) originaria è descritto in un’atmosfera inquieta e labile, che rappresenta la crollata illusione del pittore.

La modernità della vita quotidiana, caratterizzata dal picco tecnologico della seconda metà dell’800 (dopo la seconda rivoluzione industriale), si snoda tra delirio di onnipotenza e terrore di soccombere alle proprie creazioni; curiosità perversa e paura dell’ignoto – in questo tempo caotico la sensibilità dell’artista è costretta a piegarsi all’esigenza pratica e a perdere di rilevanza.

«Parto per starmene tranquillo lontano dalla civiltà. Voglio fare dell’arte semplice, molto semplice; per questo ho bisogno di ritrovare le mie forze a contatto con la natura ancora vergine, di vedere solo selvaggi e vivere la loro vita, senz’altra preoccupazione che tradurre con la semplicità di un bambino le fantasie della mente con gli unici mezzi veri ed efficaci: quelli dell’arte primitiva».                                     

In quest’ottica, il viaggio a Taithi e i dipinti relativi al suo soggiorno sull’isola polinesiana, rappresentano il tentativo di evadere dalla realtà meccanizzata del quotidiano, per ricercare un paradiso perduto e incontaminato dal quale poter trarre ispirazione per una pittura altrettanto pura. L’illusione di Gauguin, però, crolla ben presto: è costretto a spostarsi attraverso varie località dell’isola, dopo averne constatato amaramente la forte “europeizzazione” dovuta alle imprese coloniali.

Il paradiso perduto, baluardo e speranza dell’artista in crisi di fronte alla tecnologia, non esiste e l’eden ideale di Gauguin prende forma, solo artisticamente, nei suoi quadri, nuovi sogni davanti alla disillusione.

È in questi dipinti che la sofferenza individuale di una vita difficile, caratterizzata da problemi e perdite (che lo porteranno fino a un tentato suicidio), si confonde con il mistero del dolore che abbraccia e coinvolge l’Essere Umano, che assume una nuova forma e nuove sembianze nell’Età della Tecnica, ma che nella sua radice scarna è lo stesso degli uomini nudi che vagano senza meta in una Tahiti ideale, che si schermano davanti alla morte, che si piegano davanti al Mistero.

Gauguin dipinge l’uomo di ieri, l’Adamo, ma parla dell’uomo del suo tempo, che cerca, senza rimedio, un riparo al progresso che avanza; sa dirci, dunque, qualcosa dell’uomo di oggi, la cui vita è diventata indissolubile dalla tecnologia di cui è schiavo e fautore e che, attraverso nuovi sistemi, continua a chiedersi da dove veniamo?, chi siamo?, dove andiamo?

Federica Biscardi

Federica Biscardi nasce a Campobasso (nella terra che non c’è) il 26 Febbraio 1997. Frequenta il Liceo Classico Mario Pagano di Campobasso, diplomandosi nel 2016. È studentessa del Collegio Internazionale Ca’ Foscari di Venezia, iscritta al corso di laurea in filosofia dell’omonima Università.

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L’inquietudine, la stanchezza che ci culla

La pioggia batte sul vetro della stanza e il sole pallido di una giornata fredda riesce a stento a incorniciare il grigiore del cielo di gennaio. Se riuscissi a isolare completamente dagli altri rumori della casa il suono delle gocce che si infrangono sulla superficie cristallina del vetro, potrei forse comporre il ritmo di una canzone. Un suono che rappresenta il ripetersi costante di una quotidianità fatta di giornate che sembrano tutte identiche, nessuna rivelazione, nessuna illuminazione. Ogni mattina le domande rimangono lì, le risposte sono lontane e c’è solo la coscienza di non poterle mai raggiungere. Qual è il vostro rapporto con la realtà che vi circonda da quando vi svegliate a quando andate a dormire? Ho pensato che forse sono proprio quelle domande a muovere ogni mio sentire e che rappresentano in parte ciò che sono. Ho fatto spesso fatica ad accettarle e a volte convivere con loro ha creato un peso e una fatica che quasi non facevano respirare, procurandomi una vertigine interiore difficile da decifrare. In qualsiasi momento del giorno o della notte loro sono lì, si modificano negli anni, restando però pur sempre una certezza, una traccia indelebile del tuo essere. Si finge, si dissimula, ci si copre di un’immagine “altra”, perché in fondo basta un sorriso per far contento chi mi circonda, mi sono sempre detta. Oggi senza presunzione riesco a intravedere le sfumature che si celano dietro al sorriso di un volto, perché ad ogni ruga che compone l’espressione appartiene un’ intensità diversa del vivere.

‘Idealista’, ‘sognatore’ o il più delle volte ‘illuso’, ti hanno cercato di definire in mille modi diversi, ma tu hai sempre provato una necessità impellente di dire la tua, cercando di farlo in punta di piedi, senza fare troppo rumore, non accontantendoti mai delle certezze che ti venivano offerte e riconsiderando i tuoi stessi desideri a distanza di anni. Spesso questo movimento che parte dal pensiero e attraversa tutto il corpo, questo cercare incessante sembra quasi una ‘rincorsa’ infinita. Tante volte avresti voluto che quella sensazione di incertezza ti abbandonasse per un po’, perché sentivi solo peso e stanchezza. Sono ciò che comunemente definiamo ‘punti fermi’ a garantire una certa stabilità psicologica, ma proprio quando sentivi di averne bisogno realizzavi che non ti bastavano quasi mai, ti stavano troppo stretti, rendendoti vuoto, spento e inautentico. Oggi si guarda l’inquietudine come qualcosa da cui fuggire, una condizione interiore di cui aver paura. È proprio quel bisogno di ridefinire costantemente ciò che si è, invece, che conduce a un’apertura oltre i limiti dei sentieri noti. Forse anche tu ti sei spesso scontrato con chi crede invece che questa ricerca sia futile, perché le risposte ci sono già tutte, o chi invece non ha mai neanche sperimentato il tamburellare incessante di quelle domande. La poetessa Szymborska in C’è chi tratteggia una personalità che tutti abbiamo conosciuto almeno una volta nella vita: 

C’è chi meglio degli altri realizza la sua vita.
È tutto in ordine dentro e attorno a lui.
Per ogni cosa ha metodi e risposte.
È lesto a indovinare il chi il come il dove e a quale scopo.
Appone il timbro a verità assolute,
getta i fatti superflui nel tritadocumenti,
e le persone ignote dentro appositi schedari.
Pensa quel tanto che serve,
non un attimo in più, perché dietro quell’attimo sta in agguato il dubbio.
E quando è licenziato dalla vita,
lascia la postazione dalla porta prescritta.
A volte un po’ lo invidio
per fortuna mi passa
1.

Perfettamente integrato nel sistema e nella vita che conduce, il più delle volte è talmente sicuro di se stesso che appare estremamente invincibile, così intoccabile che niente può scalfirlo. È proprio questa corazza, la presunzione del non dover essere fragile, dell’apparire sempre ‘tutto d’un pezzo’, è ciò che spesso mi ha allontanato da persone così. Senza che razionalmente me ne rendessi conto, inevitabilmente finivo per perderle. Chi crede di aver in mano la ‘verità’, chi ancora prima di aprirsi all’interiorità dell’altro, confronta, disprezza e giudica. Un’armonia interiore soltanto apparente e ostentata, con la presunzione di riuscire a controllare ogni accadimento fuori e dentro di sé. Questo elogio è soprattutto per loro, perché la dimensione umana è ciò che più si allontana dall’ordine e ciò che si cela dietro a un apparente equilibrio è il più delle volte un baratro interiore, un vuoto nascosto che non si vuole riempire. L’inquietudine esistenziale forse non si può comprendere, ma non si può reprimere, perché è quel movimento che rivela il limite della dimensione umana e la costante spinta dell’uomo verso il suo superamento, l’apertura alla Trascendenza.

Greta Esposito

NOTE:
W. Szymborska, C’è chi, tratto dalla raccolta postuma “Basta così”, 2012

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La luce che non si spegne mai

É un pomeriggio di agosto e il centro città è deserto. Le uniche forme di vita rimaste sembrano essere i piccioni che cercano riparo all’ombra dei portici. Due signore alla fermata del tram si guardano attorno con aria stanca, limitandosi a scuotere la testa dopo aver consultato il tabellone degli orari estivi. C’è un silenzio particolare camminando per le strade di una cittadina abbandonata, si respira un senso di quiete e una strana malinconia, come se all’improvviso il tempo si fosse fermato. Forse anche la città sta cercando di ritrovare se stessa, lontano dal frastuono e dal caos che la logora durante l’anno.

There is a light that never goes out degli Smiths risuona nelle mie cuffie. Penso al testo della canzone, tragico e struggente, non riesco a smettere di canticchiarlo. Mi sembra di vedere la scena: una sera, una macchina, due giovani senza una meta precisa. Lei al volante, lui seduto accanto con lo sguardo rivolto verso il finestrino. Take me out tonight / because I want to see people / and I want to see life / driving in your car / oh, please don’t drop me home / because it’s not my home, it’s their home / and I’m welcome no more. Guardando la realtà che “fugge” davanti al finestrino di quell’auto, l’unica emozione che riesce a provare è un senso di smarrimento e inquietudine, una paura paralizzante. Vuole vedere luci, sentire voci e persone, perché solo questo può allontanarlo dal buio della disperazione e farlo sentire vivo, ora che è solo veramente.

Lei guida silenziosamente, forse chissà, di tanto in tanto lo osserva con la coda dell’occhio. Lui vorrebbe parlare, esprimere con parole i propri sentimenti, ma non esce neanche una sillaba dalla sua bocca. Sono le emozioni a prendere il sopravvento, il corpo non risponde più. È difficile tradurre i nostri vissuti interiori attraverso il linguaggio, soprattutto l’amore si rivela per sua natura carico di mistero e per questo difficilmente comunicabile. And if a double-decker bus / Crashes into us/ To die by your side / Is such a heavenly way to die / And if a ten-ton truck / Kills the both of us/ To die by your side / Well, the pleasure, the privilege is mine. Questa strofa mi lascia perplessa ogni volta che la sento. Morrissey, non starai esagerando? Eccolo qui, il binomio che percorre tutta la storia del pensiero e della letteratura occidentale, paura e morte, romanticamente uniti come sempre. La forza sovversiva e distruttiva dell’amore fa da sfondo a questo struggente ritornello.

Mi tornano alla mente le parole di Kierkegaard: «Quando si ama non si frequentano le strade maestre […] Quando si ama e si vuole cacciare il capo dal proprio guscio, non ci si avvia dalle parti del lago; sebbene sia soltanto una strada di passaggio, è tuttavia battuta e l’amore preferisce aprirsi da sé le sue strade»1. La passione erotica può essere considerata come una delle poche esperienze in grado di rimettere in discussione le proprie credenze e i propri punti di riferimento, poiché colloca l’innamorato in una dimensione esistenziale e psicologica “nuova”, fino ad allora sconosciuta. Aldo Carotenuto la descrive come un’ “alterazione”, una specie di squilibrio che ci assale quando Eros viene a farci visita e che da molte culture è stato associato al senso di morte. Ci lacera, ci impone una perdita improvvisa di tutto ciò che costituiva il nostro guscio esistenziale, ma è proprio grazie a questa profonda ferita che l’innamorato recupera aspetti vitali della propria individualità, rimasti sommersi fino a quel momento.

È questo stato di squilibrio e incertezza a fare più paura ed è ciò dal quale tentiamo in tutti i modi di difenderci. Nel momento in cui il desiderio entra nella nostra vita, la realtà stessa muta attorno a noi. Diventiamo vulnerabili e sentiamo un vero e proprio bisogno della persona amata, perché l’amato diventa l’unica presenza veramente significativa per noi. Nell’incontro con la persona amata, ciò che ci attrae e ci rapisce non è semplicemente l’individualità che ci sta davanti con i suoi gesti, le sue forme e la sua voce, ma è l’idea, già presente nella nostra interiorità che solo lei ha saputo evocare e portare alla luce. «L’emergere prepotente del nostro immaginario, grazie all’altro, a un unico altro, spiega il motivo per cui nella relazione amorosa nessuno sia intercambiabile. Infatti solo quella specifica persona riesce ad attivare nell’amante questo meccanismo, a portare di colpo alla luce la sua dimensione sepolta»2.

Vi è un legame indissolubile tra l’amore e la sofferenza. La paura è un aspetto essenziale di questa affinità. Paura di cosa, precisamente?

È la paura di saltare il precipizio, di inoltrarsi in una strada che non si conosce, dove nulla è definibile e stabile e proprio per questo lì è difficoltoso orientarsi. Non solo la realtà che circonda l’innamorato è mutata, ma questo cambiamento ha provocato sul piano emotivo una paura irrefrenabile nei confronti di una situazione ignota.

Take me out tonight / take me anywhere / I don’t care, I don’t care, I don’t care / And in the darkened underpass / I thought, Oh, God, my chance has come at last / But then a strange fear gripped me / And I just couldn’t ask. Lui per un attimo ha pensato fosse arrivato il momento giusto. Forse in quel sottopassaggio, nel bel mezzo dell’oscurità, poteva riuscire ad aprirsi a lei, esternando le proprie emozioni. É proprio in quell’istante invece che compare quella “strana paura” e gli spezza la voce ancora una volta. É forse la paura del rifiuto, di poter fallire, spingendosi lì dove non ci sono certezze rassicuranti e dove è sempre possibile perdersi. La natura del desiderio erotico è contraddittoria: rapiti dal bisogno di incontrare l’altro e lasciarsi scoprire dall’amato, avvertiamo sempre al tempo stesso un timore che non ci abbandona mai e che rappresenta l’altro volto di Eros. «Possiamo dire che l’amore e la paura vanno sempre insieme perché hanno la primitività di ciò che non si conosce, perché coinvolgono livelli molto elementari, non sono saliti al vaglio della razionalità: ci prendono, ne siamo dominati»3.

Ogni volta che abbiamo la sensazione che chi amiamo ci sfugga, percepiamo quel timore che tuttavia è proprio ciò che ci permette di continuare a ricercare, a scoprire le profondità dell’altro, interpretando costantemente i segni che l’amato porta con sé. Questo movimento infinito di “interpretazione” dell’altro, è ciò che ci rende consapevoli della nostra esistenza, dal momento che solo trasgredendo quella voce interiore che mi mette in guardia dai pericoli di un cammino non ancora percorso, ricevo quella spinta vitale che mi consente di crescere, diventando pienamente consapevole della mia interiorità.

Ogni autentica esperienza amorosa si lega inevitabilmente all’assenza, dal momento che il desiderio si fonda sulla mancanza e per questo è per definizione insoddisfatto. Quando si ama si sperimenta l’illusione di eternità che il sentimento d’amore porta con sé e l’inevitabile provvisorietà di ciò che si è conquistato.

È proprio la natura contraddittoria del desiderio a generare la dialettica assenza – presenza: «[…] la dimensione amorosa che attraversiamo è sempre un’esperienza di assenza, e l’assenza ha a che fare con la nostalgia»4.

Sembra esserci una forza infinita che ci spinge, ma tutto ciò a cui riusciamo ad aggrapparci e ad afferrare presenta inevitabilmente i caratteri della provvisorietà e del limite. Cercare di spiegare a parole le contraddizioni e la sofferenza che l’esperienza amorosa porta con sé si rivela un’impresa difficoltosa e forse fallimentare, dal momento che è più facile sperimentare sulla propria pelle ciò che ho tentato di descrivere.

Una cosa è certa, quando amiamo tutti desideriamo che gli attimi trascorsi con la persona amata non si esauriscano mai. Probabilmente è solo nell’amore che si sperimenta la dimensione dell’eternità, l’illusione che quella luce possa non spegnersi mai.

Greta Esposito

NOTE:
1. Kierkegaard S., Diario di un seduttore, Rizzoli, Milano, 1955, p. 113;
2. Carotenuto A., Eros e pathos, Bompiani, 2014, p. 26;
3. Ivi, p. 36;
4. Ivi, p. 41.

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