L’eterna contemporaneità di Ulisse

Facendo narrare ad Ulisse l’episodio del folle volo1, Dante costruisce un proprio doppio. Entrambi si dirigono verso il Purgatorio eppure, per molti aspetti, le loro vicende si collocano agli antipodi.

Quella dantesca è una discesa verso il nucleo dell’universo, cui segue una ascetica risalita verso la luce dell’Empireo; al contrario, il viaggio dell’eroe greco si sviluppa sul piano orizzontale delle conquiste geografiche (come quelle europee del ‘500, tanto vaste quanto sanguinarie).

Dante ha una guida in Virgilio, allegoria della ragione: attraverso il loro dialogo e le anime incontrate, egli procede moralmente e si purifica.

Ulisse viaggia in solitaria ed è vinto da un desiderio insaziabile di conoscenza: lui non dialoga, ma tutt’al più persuade con le arti della retorica. Non tende a un progresso etico, ma a un accumulo di esperienze. Il mondo di Ulisse è tutto chiuso nella sfera mondana di cui tenta di infrangere i limiti: ignora che le colonne d’Ercole sono un segno della volontà divina e vede il Purgatorio solo come una montagna bruna, certamente imponente e straordinaria, ma non più che un punto bianco sulla carta geografica.

Il mondo di Dante ha senso solo in prospettiva dell’ultraterreno: capisce l’umano perché fa esperienza del divino.

Ulisse, invece, è condannato dal non aver visto nient’altro che il suolo terrestre, limitando il mondo alla sola sfera dei sensi. Egli, cioè, ignora la sfera del trascendente che sola, per il Cristianesimo, può dare significato all’esistenza. Per l’eroe greco la conoscenza è un valore in sé, è essa stessa virtute.

Per Dante, invece, la conoscenza si acquisisce seguendo un cammino di perfezionamento morale il cui culmine risiede nel riconoscimento dei propri limiti e nella fede in Dio, il quale illumina su verità più alte di quelle raggiungibili con la semplice e sola ragione. Dante rilegge la sorte dell’eroe omerico secondo le categorie proprie della cultura cristiana.

Ulisse appare come un uomo senza Dio (non può neppure nominarlo) e perciò insensibile ai valori morali. La famiglia non lo trattiene né per affetto, né per senso del dovere («né dolcezza di figlio, né la pieta / del vecchio padre, né ‘ l debito amore / lo qual dovea Penelopé far lieta […]»). L’unico ardore  che conosce è puramente individuale: «divenir del mondo esperto / e de li vizi umani e del valore», cioè «seguir virtute e canoscenza». Egli si lega ai compagni di viaggio perché condividono il suo progetto (e quindi solo strumentalmente). L’esperïenza che insegue è una conoscenza diretta e sensibile: il viaggio, con il suo senso di avventura e di scoperta personale, ne è l’emblema. Allo stesso modo, la virtute di Ulisse, per grande che sia, non è illuminata da Dio, ma si fonda sulla stessa semenza o natura umana: la conoscenza e l’esperienza, dice Ulisse, sono per noi quasi un istinto.

Nella cultura cristiana medioevale, invece, la conoscenza è sempre mediata da un principio di autorità (la tradizione, la Chiesa) e regolata da principi religiosi invalicabili. I teologi condannano spesso la curiositas come vana: all’uomo non è concesso sapere tutto, e volerlo fare è peccare di superbia. La caduta di Adamo ed Eva derivava da questo, poiché il serpente aveva promesso loro: «[…] Sarete come Dio, conoscerete il bene e il male»2. Odisseo agisce proprio infrangendo questi limiti: uomo del mondo classico, egli ignora le categorie del mondo giudaico-cristiano. La forza della sua ragione, tramite cui persuade i compagni a spingersi in un’impresa tanto rischiosa e a guidarli effettivamente verso il Purgatorio, viene polverizzata dalla potenza “oscura” e muta di Dio. Infrangendo il volere divino (rappresentato dalle colonne d’Ercole) e vinto dalla propria velleità, egli incaglia nella natura stessa delle cose e dell’uomo, che è stato proprio Dio a stabilire. La conoscenza di Ulisse si rivela così ignoranza, e la sua virtù peccato.

Come «archetipo mitico che si sviluppa nella storia e nella letteratura come un constante logos culturale»3,Ulisse attraversa, da Omero in poi, tutta la letteratura europea di ogni tempo testimoniando la straordinaria fortuna di un mito letterario che affonda le proprie radici nell’inquieto dipinto dell’esistenza umana, nella perpetua tensione tra viaggio e ricerca, colorandosi di significati sempre nuovi. Le numerose vite di questo personaggio risalgono a quell’attributo di cui Omero per primo si servì, per definirlo: polytropos (‘dalle molte forme’).

Dall’Iliade in cui è l’eroe astuto, artefice dell’inganno fatale del cavallo di Troia, all’Odissea in cui alla sua methis (‘astuzia’) si sovrappone il tema del suo nostos (‘ritorno’), dalle tragedie di Sofocle ed Euripide, all’ Eneide di Virgilio, alle Metamorfosi di Ovidio. Da A Zacinto di Foscolo, costruita sulla identificazione tra l’eroe greco e il poeta, che si sente esule alla perpetua ricerca di sé, alla figura inquieta dell’uomo moderno nelle poesie Il ritorno e Ultimo viaggio di Giovanni Pascoli, in cui l’uomo dalle molte forme viene ritratto al termine della propria vita, stanco e dubbioso. E ancora, nelle Laudi in cui D’Annunzio lo propone come incarnazione di un moderno superuomo, dotato di doti straordinarie, che si eleva al di sopra della massa e disprezza ogni pericolo; o all’Ulisse, di Umberto Saba, protagonista dell’omonima poesia tratta dalla raccolta Mediterranee (1946), il cui non domato spirito ne fa una proiezione dell’inquietudine del poeta e del suo doloroso amore per la vita. Infine, l’Ulysses di James Joyce, vera epica della modernità che narra in parallelo le giornata di Leopold Bloom e quella di Stephen Dedalus, riedizioni rispettivamente di Ulisse e di Telemaco, che vagano per Dublino nel caos del mondo moderno (fino ad incontrarsi nello spazio/tempo dell’inconscio), giungendo poi all’identificazione nel Primo Levi di Se questo è un uomo (1947). Qui, in particolare, la memoria dei versi danteschi è imprecisa, vessata dal silenzio e dall’oblio, quasi a sentire disperatamente la necessità di aggrapparsi alla poesia e rincorrerne l’eco, come se attraverso il ricordo fosse in grado di mantenere distanti morte e dolore. Il protagonista identifica il proprio tragico destino con quello di Ulisse, sommerso dalle acque e, per un istante, gli balena nella mente l’intuizione tremenda che quel destino sia stato fissato per volere divino: l’altrui piacque dantesco assume un effetto dirompente e tragico, e il viaggio di Ulisse oltre le colonne d’Ercole si trasforma nell’infernale odissea della Shoah4.

Dante e Ulisse sono eroi del viaggio: la meta verso cui impegnano il proprio incedere è la stessa.

La via per giungere alla conoscenza è ben differente. La conoscenza dantesca si sviluppa man mano che cresce il perfezionamento morale di chi aspira a realizzarla: l’elevarsi della propria moralità dà luce all’intelligenza.

Al contrario, l’indomita sete di sapere di Odisseo è collocata sul piano solo empirico.

Dante realizza un pellegrinaggio cosmico, Ulisse un’esplorazione animata da un’intrepida audacia.

Questa immagine attraeva Dante per la sua integrità e la sua forza e lo allontanava per la sua indifferenza morale. Ma osservando quei caratteri di eroico avventuriero, di ricercatore che indaga in tutte le regioni esclusa quella morale, Dante ha visto in lui qualcosa di più generale della psicologia del futuro che si stava avvicinando: ovvero, i tratti propri della coscienza scientifica e più ampiamente culturale del tempo nuovo, la separazione fra la scienza e la morale, fra la scoperta e il suo risultato, fra la scienza e la personalità dello scienziato5.

 

Riccardo Liguori 

NOTE:
1. Il poeta, con quest’espressione, condanna un’intelligenza che si rovescia nel suo contrario nel momento in cui si rifiuta di accettare i limiti che le sono imposti. Siamo nel XXVI canto dell’Inferno, Divina Commedia.
2. Genesi 3,5.
3. Definizione di Piero Boitani.
4. Primo Levi, Se questo è un uomo, in Opere, Einaudi, Torino, 1997, pp. 108-111.
5. J. Lotman, Testo e contesto, Laterza, Bari, 1980, pag. 98.

 

[L’immagine di questo articolo reca l’illustrazione in copertina alla versione dell’Odissea pubblicata da Feltrinelli]

 

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“I Sette Samurai”, Akira Kurosawa

La figura del samurai ha sempre esercitato un certo fascino nell’immaginario occidentale, diventando l’emblema dell’eroe immortale, silenzioso e letale come i fendenti della sua spada; un guerriero senza paura, che combatte con orgoglio e onore, ammantato di un’aura mistica.
Nel suo I Sette Samurai, il grande regista giapponese Akira Kurosawa svela un volto nuovo di questa carismatica figura, una visione cruda e disincantata del mondo dei samurai.

Questo film fu il primo di una serie di pellicole la cui trama prevede il reclutamento e l’impiego di una banda di eroi, per raggiungere un determinato scopo; basti pensare a film di Hollywood come I Cannoni di Navarone, Quella Sporca Dozzina o I Magnifici Sette, remake dichiarato e omaggio al grande maestro giapponese.

Girato nel 1954 e ambientato nel Giappone della fine del XVI secolo (epoca Sengoku), il film racconta la storia di un povero villaggio di contadini, vessato dalle continue scorribande di un gruppo di briganti che in quell’epoca devastavano le campagne giapponesi. Esasperati dalla loro tragica condizione, i contadini decidono di cercare aiuto presso alcuni Ronin, i samurai senza padrone, pregandoli di aiutarli a cacciare i briganti. Con difficoltà riusciranno ad ingaggiare sette guerrieri, disposti a fornire i loro servigi per proteggere il villaggio.

Sette guerrieri per sette diversi uomini e sette diversi modi di essere; dal carismatico e romantico Kambei, al suo allievo Katsushiro, un samurai ancora acerbo, desideroso di imparare. Da Kikuchiyo, coraggioso, matto e guascone, interpretato alla perfezione dal grande Toshiro Mifune, che con le sue improvvisazioni a tratti animalesche, regala una recitazione di una emotività commovente, passando poi da Kyuzo, ascetico e imperturbabile guerriero.

Sono semplici uomini, guerrieri di un tempo passato, un tempo fatto di gloria e grandi battaglie e che ora è solo un lontano ricordo. Sono Ronin senza padrone, senza uno scopo, alla ricerca di un nuovo posto e un nuovo ruolo nel loro mondo.
Kurosawa è abilissimo nel delinearne il ritratto; passando da toni epici ad altri decisamente più tragici e crudi, ci mostra realmente cosa significhi essere un samurai. Il senso della solidarietà permea l’intera vicenda, il sacrificio di aiutare il più debole per una tazza di riso e poco altro è centrale e presente in quasi tutte le tre ore che tengono lo spettatore incollato allo schermo. Non c’è più la gloria di combattere per un grande signore della guerra. Non ci sono più le ricchezze e i grandi castelli di pietra. C’è solo la lotta per la sopravvivenza, per la vita, che è fatta di fango, capanne e acqua.

La spada che prima era al servizio del Daimyo, ora serve il contadino, ma ad un grandissimo prezzo. Alla fine i vincitori saranno i contadini, perché appartengono alla terra e nella loro vita di perenni fatiche e patimenti, sono i nutritori di tutti; una classe sociale sempre disprezzata e maltrattata ma necessaria.
Ciò che resta al samurai è il sacrificio. Aver dato la propria vita, ancora una volta, per un’altra causa, questa volta più nobile e giusta ma impietosa nel reclamare il sangue.

In questo incomparabile ribaltamento di ruoli e regole che Kurosawa porta sullo schermo c’è un’epica nuova, una storia di un tempo quasi mitico, distante da noi, eppure ancorato alla realtà, una sorta di Iliade contadina.

Lorenzo Gardellin

[Immagine tratta da Google Immagini]