Creature di moralità: l’affastellarsi di bene e male in Tolkien

Tutti noi conosciamo Il Signore degli Anelli per averne letto le avvincenti pagine o per aver visto almeno una volta il film diretto da Peter Jackson. Ognuno di noi ha sguainato la spada con Aragorn, usato la faretra di Legolas o sofferto sotto al grave peso di cui Frodo ha scelto di caricarsi. In maniera forse sorprendente, per i buoni conoscitori dell’opera, Tolkien ha affermato nella corrispondenza epistolare con la Houghton Mifflin che Il Signore degli Anelli non ha valenze allegoriche, morali, religiose o politiche. 

Eppure, il mio esercizio vuole essere quello di individuare una fisica moralmente connotata, dove ad ogni entità corrisponde una proprietà che la contraddistingue come “buona” o “malvagia”. Infatti, è arduo trovare nella storia un’entità che non sia caratterizzata in un senso o nell’altro. Ve ne sono poi alcune, credo le più complesse ed affascinanti, connotate sia come buone sia come malvagie, le quali hanno vissuto una trasformazione ontologica nel corso della propria esistenza o nel senso della consapevolezza della propria fragilità e della facilità con cui le tentazioni si presentano innanzi al cuore desiderose di trovare soddisfazione. L’ambivalenza umana ne è la rappresentazione per eccellenza: gli uomini costituiscono il punto di cesura tra i fatti morali intrinsecamente buoni e intrinsecamente cattivi. Nessuno (neppure Aragorn e Gandalf, la cui grandezza d’animo è incontestabile) è assolutamente privo del rischio di cadere in tentazione, di lasciarsi tentare dal male per venire, infine, soggiogato. 

Ciò che distingue gli animi più nobili è la consapevolezza di una fragilità che non vogliono abbia il sopravvento sulla loro volontà. Una volontà più forte di ogni fragilità, spesso accompagnata dalla grandezza della pietà e della comprensione. Invece, l’individuo che cede alla corruzione del male paga il proprio agire con la morte. Emblematico è il caso di Boromir di Gondor, soggiogato dalla volontà dell’Anello: nonostante il ravvedimento immediato, pagherà il suo errore morendo. L’esempio più tragico di corruttibilità umana rimane tuttavia il tradimento di Saruman, colui che per la sua profonda conoscenza finisce per cadere in tentazione e farsi traviare dal male. Il suo è un tradimento più grave di ogni intrinseca malvagità: egli avrebbe potuto compiere azioni buone, ma sceglie la via della malvagità lasciando che l’oscurità lo avvolga completamente.

Allontanandoci dagli uomini, la gradazione morale più pura tra gli esseri pensanti è quella degli Elfi. Il pensiero corre qui spontaneamente verso Elrond di Granburrone, Galadriel e Celeborn di Lothlorién: essi sono un ideale morale la cui statura si evince innanzitutto dalla caratterizzazione fisica di esseri splendenti, senza età, dai capelli color dell’oro o dell’argento, dalla profondità perduta dei loro occhi. Una silenziosa profondità simile a quella degli Ent, alberi semoventi, la cui presenza nel mondo delle Terre di mezzo è attestata sin dall’inizio dei tempi.

Lungi dalla perfezione elfica, i Nani ricevono comunque una positiva connotazione, almeno così appare dal pressoché unico esemplare a fare capolino nella storia, Gimli figlio di Gloin. Tuttavia, una rimbombante eco di sottofondo ricorda come l’avidità con cui hanno scavato negli abissi della terra li abbia portati a conoscere da vicino la malvagità originaria e le sue orride creature.

Poco differenti per statura dai nani, gli Hobbit sono creature placide e pacifiche: amanti della tranquillità, del bosco e della tavola. Non si contraddistinguono né per l’acutezza dell’ingegno e neppure per ambizioni di grandezza, eppure essi sono le più stupefacenti sorprese. Scontato sarebbe parlare di Frodo; credo piuttosto che il suo giardiniere, Sam Gangee, sia investito di una nobiltà d’animo e di una virtù che non è facile da eguagliare. Egli è la perfezione hobbit. La sua virtù è la più alta: il saper provare fiducia, condivisa dai personaggi più illustri ed eroici (da Aragorn a Galdalf fino al capitano di Gondor, Faramir). Come ammette lo stesso portatore dell’Anello, senza il suo Sam egli non sarebbe mai riuscito a percorrere il viaggio verso il Monte Fato.  

È interessante notare come la moralità interessi anche gli animali e le cose. Cavalli, nazgul, aquile e olifanti sono determinati sociologicamente dall’ambiente da cui provengono e in cui sono cresciuti. Così i cavalli del Mark sono destrieri coraggiosi e veloci come il vento, mentre gli animali di Mordor sono esseri traviati e martoriati dall’Oscuro Signore. Anche gli oggetti sono caratterizzati moralmente, ma la loro proprietà morale dipende da quella del loro possessore o dal luogo in cui si trovano. Basti pensare alla pietra Palantir: l’uso che ne viene fatto di volta in volta la determina moralmente anche se in via temporanea. Dal canto suo, l’oggetto degli oggetti, l’Anello, ha natura ambigua ed innegabile è la sua capacità di alterare la volontà e di sbiadire le intenzioni di chi lo detiene.

Accanto a questi si trova la lunga schiera di entità irrimediabilmente traviate. Ciò che è frutto del male non è di per sé qualcosa di originale ma è una brutta copia di qualcos’altro. Infine viene il male perfetto, incarnato da Sauron. Il male agisce come la proprietà di un’entità capace di esercitare solo effetti negativi per tutti gli esseri viventi o, ancora, come un’entità capace di generare un’oscurità sempre più cupa intorno a sé.

Si può, dunque, dedurre che solo il male è assolutamente puro e incontaminabile: per cessare di avere diretta influenza sul resto della realtà deve venir eliminato. Al contrario, il bene è la proprietà di qualunque entità capace di produrre intenzioni buone e dagli effetti positivi perduranti, a meno che non si sia corrotti dal male. Questo il senso ultimo della guerra per la Terra di Mezzo.

 

Sonia Cominassi

 

[In copertina una scena tratta dal film Il signore degli anelli. La compagnia dell’anello che mostra alcuni dei personaggi citati]

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Le saghe, che passione!

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LIBRI

Quando ho letto “Harry Potter e la pietra filosofale” per la prima volta avevo otto anni. Un mondo nuovo, quello in cui ti proietta questo libro; un mondo per cui ti ritrovi a desiderare l’arrivo della lettera di convocazione ad Hogwarts, un mondo in cui riscopri amicizia e valori comuni a quelli che vivi anche nella normalità dei Babbani (i non maghi). Un libro che non è soltanto una sequenza di pagine scritte che si susseguono, ma un mezzo che ha la potenzialità di creare una realtà che tutti sognano, perché in fondo tutti – almeno una volta nella vita – abbiamo sognato di avere per le mani una bacchetta magica che cambiasse le cose. Un modo per tornare indietro nel tempo e rivedere le persone che ci mancano. Un modo per scegliere quale fosse la cosa giusta da fare. Un mondo che ci desse la possibilità di evadere senza sentirci in colpa.

Quando avevo dodici anni ho letto Tolkien, e in quel momento forse ho imparato cosa significasse leggere per davvero. E’ intramontabile un Autore che riesca a farti immergere in un universo e in un tempo inesistenti: immaginare la Terra di Mezzo, ritrovarsi nella Terza Era e voler partire con la Compagnia dell’Anello. Una trilogia tradotta in trentasette lingue, che ha ispirato film, videogiochi, libri. C’è chi è riuscito a trarne l’enorme capacità descrittive di questo Autore, c’è chi ha imparato cosa significhi immaginare, cosa possa produrre la nostra fantasia quando si mette all’opera. Quella fantasia che nei bambini è continuamente presente. Quella fantasia che negli adulti si sprigiona soltanto attraverso i sogni, perfino troppo poco in quelli ad occhi aperti.

Quando ho letto “Uomini che odiano le donne”, il primo romanzo della trilogia Millennium, ero già grande, invece. Essere alle prese con un romanzo di Larsson significa essere alle prese con le paure di personaggi di una statura enorme. Significa non riuscire a staccarsi dalle parole che stai leggendo, perché quelle parole – tanto dure quanto profonde – ti mettono alla prova man mano che le scorri. Argomenti di un’attualità fin troppo ricorrente, brividi e sentimenti: questo intreccio che non stanca mai, queste vicende che più si evolvono e più vorresti leggerne ancora.

Tre saghe completamente diverse, scritte da tre Autori che sono rimasti e rimarranno nella storia della Letteratura.

E’ difficile scrivere di una vicenda che non si conclude in un solo libro senza che si esauriscano le cose da dire: gli argomenti rischiano di ripetersi, di non rendere una visione lineare, di diventare tristemente altisonanti. Perché seguire con tanta costanza la pubblicazioni di romanzi successivi che raccontano dei medesimi personaggi?

Semplice, quella vicenda diventa parte del lettore: non gli basta leggere il primo capitolo, non gli basta nemmeno il secondo, perché è già portato ad immaginarne i successivi. La grandezza di chi scrive una saga risiede nel renderla attuale e trasversale: adatta ad ogni età, senza divisioni di pubblico per generi o ambiti. Il coinvolgimento dei valori appartenenti ad una società, e non si può far riferimento a dei valori relativi, che cambino per tempo e spazi. No. I valori rimangono vivi anche dopo anni, perché immortali. L’amicizia, l’amore, la fiducia, la determinazione, l’introspezione: dai grandi classici come “Lo Hobbit” alle nuove frontiere di “Hunger Games” gli Autori lasciano viaggiare chi è dall’altra parte del libro.

E il lettore non legge, ma si sente ospite della vicenda, si sente silenzioso spettatore di una realtà in cui bramerebbe essere.

 Cecilia Coletta

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FILM

Tutto ha inizio nei primi anni duemila. Un giovane ragazzino londinese è seduto sulla tavoletta del water di casa sua, quando suo papà sale le scale di corsa, con il telefono in mano e urla: “Daniel, Daniel ti hanno preso!”. Non è la scena di un film, ma è la dimostrazione che il cinema può cambiare realmente il destino di una vita intera. Il ragazzino seduto sulla tazza è un certo Daniel Radcliffe, destinato a diventare nel corso di pochi anni un’icona mondiale per milioni di spettatori. Se il suo nome non vi dice nulla, forse quello di Harry Potter vi potrà aiutare. Daniel nel 2000 è molto giovane, ma capisce al volo l’importanza di quel ruolo. Sa che accettarlo significa trasformarsi in una delle celebrità più osannate del Pianeta e allo stesso tempo che ciò comporterà una croce sulla sua futura carriera: da quel giorno in avanti lui per la gente non sarà più Daniel Radcliffe, ma “quello che ha fatto Harry Potter”. Lo stesso discorso vale per il genere delle saghe cinematografiche. Chiunque decida di trasporre sul grande schermo una serie di best seller letterari composti da molteplici episodi, deve infatti fare i conti con due aspetti: il primo è quello che da questa operazione si potranno ricavare ottimi profitti economici. Il secondo però è il rovescio della medaglia: più la saga letteraria sarà amata e conosciuta e più alto sarà il rischio di dover sacrificare la qualità cinematografica in nome della fedeltà alla trama originale della storia. In altre parole: le pellicole tratte da grandi saghe letterarie non sono quasi mai dei grandi film proprio perché non riescono a superare la forza della pagina scritta e dell’immaginario che il lettore si era creato quando l’aveva letta. Non succede subito, ma prima della conclusione della storia la rottura è inevitabile. Prendiamo due classici come “Harry Potter e la pietra filosofale” e “La compagnia dell’anello”. Il primo è stato uno dei film più attesi del Ventunesimo secolo, riuscito nella sfida di mantenersi fedele al libro pur trovando dei piacevoli esiti visivi e cinematografici, apprezzati da gran parte della critica mondiale. Il debutto sul grande schermo de “Il signore degli anelli” fu invece ancora più ambizioso. Anche qui il regista Peter Jackson si mantenne fedele alla pagina scritta da Tolkien, dando forma alle sue splendide suggestioni letterarie grazie al sapiente uso degli effetti visivi e della computer grafica, innovativa per l’epoca. Lodi e riconoscimenti anche in questo caso. Ma se all’inizio il cinema sembrava aver vinto la scommessa, con il passare degli anni i film ispirati al mondo dei maghetti e della Terra di mezzo hanno perso sempre più vigore, finendo per lasciare scontenti certe volte i lettori dei libri e molte altre i critici cinematografici che si aspettavano di trovare ancora tracce di cinema in quella che sembrava essere diventata solo una grande operazione commerciale. Alla fine della favola “Il ritorno del re” sarà il secondo film nella storia del cinema a guadagnare più di un miliardo di dollari in tutto il mondo. Prima di lui solo un capolavoro come “Titanic” c’era riuscito. E se l’epilogo del Signore degli anelli ha avuto cifre record, “Harry Potter e i doni della morte 2” risponde aggiudicandosi il titolo di terzo miglior incasso di sempre nella storia del cinema, subito dietro a “Titanic” e “Avatar” di J. Cameron. Una macchina da soldi spaventosa, ma allo stesso tempo un disastro sul piano della messa in scena artistica. Per quanto siano stati apprezzati da molti, gli ultimi capitoli di queste due saghe non hanno saputo ripetere il successo del loro primo episodio e si sono perse tra marketing e megalomania.

Un caso diverso di saga cinematografica che ha preferito dare più importanza alla narrazione che agli incassi, è invece la trilogia Millennium, basata sui libri dello scrittore svedese Stieg Larsson. Un crudo e gelido affresco sulla brutalità umana che ha da subito affascinato il mondo del cinema. Nel 2009 il regista svedese Niels Arden Oplev ha portato sullo schermo l’adattamento di “Uomini che odiano le donne”. Una storia gelida, girata con una splendida regia che grazie a un buon cast e a un’impeccabile sceneggiatura ha dato seguito ai successivi due adattamenti diretti da Daniel Alfredson. Una trilogia completa, non molto apprezzata al box office, ma di grande valore artistico, nel rispetto totale della pagina letteraria. La forza di Mikael Blomkvist e della conturbante Lisbeth Salander hanno però affascinato anche Hollywood che ha acquisito i diritti del libro, affidando al genio di David Fincher la realizzazione del remake di “Uomini che odiano le donne”. E qui arriva la sorpresa, perché mentre tutti si aspettavano che fosse impossibile replicare a livello artistico il successo della versione svedese, in questo caso il miracolo avviene e Fincher gira un thriller glaciale che supera in bellezza ed incassi il suo predecessore. Le conclusioni che si possono trarre da questo discorso sarebbero numerosissime. Ci limiteremo a dire che la saga cinematografica è un terreno spinoso, poiché costringe quasi sempre a cancellare la cifra stilistica dei registi e degli attori che la mettono in scena, costringendoli a stare al servizio del libro originale. Girare una saga è molto più difficile rispetto allo scrivere una saga. Chissà che in un futuro prossimo non inizi a succedere il contrario: che siano cioè le immagini sul grande schermo ad influenzare gli scrittori. Ipotesi a parte, una cosa comunque è certa: le saghe cinematografiche sono state l’embrione delle odierne serie televisive. La saga, con la sua storia diluita negli anni e con il concetto di crescita del personaggio, parallelo alla crescita dello spettatore/lettore, è una splendida metafora della nostra vita. O meglio: è un esempio perfetto per raccontare quella nostra voglia di rifugiarci in un mondo di pura fantasia, in cui i problemi della vita reale sono a migliaia di chilometri di distanza e in cui, grazie agli occhi di Frodo, Harry, Lisbeth e molti altri, possiamo isolarci da tutto ciò che ci circonda e dare libero sfogo ai nostri sogni.

Alvise Wollner