La tenacia tra Kierkegaard ed Hesse. Un ricordo per Giulio Regeni

«Sii te stesso è la legge ideale, per un giovane almeno; non c’e altra via che conduca alla verità e allo sviluppo. Che questo cammino sia reso impervio da innumerevoli ostacoli morali e altri impedimenti, che il mondo preferisca vederci rassegnati e deboli anziché tenaci: da qui nasce la lotta per la vita per chiunque abbia una spiccata individualità. Perciò ciascuno deve decidere per sé solo, secondo le proprie forze e le proprie esigenze, fino a che punto sottomettersi alle convinzioni, o piuttosto sfidarle»1.

A Copenaghen, poco meno di due secoli fa, il filosofo da molti considerato padre dell’esistenzialismo, Søren Aabye Kierkegaard, si rivelava al mondo letterario come fiero patriarca della categoria della soggettività nella sua costante e forte opposizione ad ogni forma di massificazione, al placido e sotterraneo schiacciamento della personalità.

Egli rendeva, tramite i suoi scritti, l’uomo del tempo (passato e presente) consapevole della luce che le gemme della volontà, del salto paradossale e del consapevole ribellarsi alla morale corrotta sprigionano all’interno dell’oscura e umida grotta dell’omertà, presso cui le anime più meste e timorose trovano temporaneo rifugio.

Oggi rileggendo tra le migliaia di pagine scritte di suo pugno si può scorgere in lui la volontà di elevare a nota più alta e fondativa, nel confuso spartito della vita, il suono roboante e spiazzante di quella tenacia che vede in Hermann Hesse, nel  Novecento, il suo più fertile rappresentante.

Si tratta di una tenacia tramite cui abbattere i muri del qualunquismo e della debole volontà di giustificare anche le più profonde e consapevoli nefandezze umane, relegandole a una volontà altra, in una sorta di inconsistente necessità predestinante nella quale ognuno dei cinque sensi viene, inspiegabilmente, a ricevere l’estrema unzione.

Hesse, ‘poeta dell’anima’ (come lui stesso era solito definirsi), si accosta, idealmente, al pensiero del filosofo danese, maieuta dell’esistenza consapevole e matura, in quella ricerca del sé che nel vortice, macchiato di tinte forti, del divenire umano si sviluppa nella metamorfosi o, meglio, in quel moto rivoluzionario che la crisalide compie da quel gelido e congestionato stato embrionale allo svelamento delle sue ali da farfalla, allegoria della libertà. Così la muta larvale dell’individuo esplode nello sbocciare della personalità.

Lo scrittore tedesco sostiene a gran voce l’importanza, nell’esistenza, della personalità autonoma, responsabile di sé, consapevole del proprio tribunale interiore.
E, proprio qui, questa riscontra la propria ricercata, naturale, ambita e fertile catarsi che solo una profonda coscienza di sé riesce a concedere.

Ricordando persone che, nel loro ambito (filosofico e letterario, in questo caso) hanno segnato un punto nella storia, hanno lasciato una traccia, un campo ricco di semi di cui prendersi cura, la mia mente si àncora ad un fatto di cronaca lacerante, e senza pace, vettore di grande (in)sofferenza, assai recente.

Penso agli ultimi mesi e ultimi momenti di vita di Giulio Regeni, alla sua intraprendenza, alla sua ricerca di una verità importante, non solo una ricerca accademica, ma una ricerca di un senso, nella vita.

Una ricerca che, se pur fenomenica, non va − come spesso accade − in direzione di sé, favorendoti un certo status sociale, i plausi delle persone o qualche altra debole e temporanea forma di tributo. No, questa storia, di cui si può sapere sempre più, spendendo anche solo qualche minuto al giorno sui vari motori di ricerca (in cui siamo sempre più impegnati), mostra al mondo l’importanza di scontrarsi con un quesito, un macigno pesantissimo, che nemmeno Atlante avrebbe potuto tollerare.

È una domanda che conduce al perché la ricerca della verità possa essere a tal punto ostacolata da macchiarsi di ore interminabili di tortura, di umiliazioni, di ignorante e malefico predominio; al perché la verità e la tutela di realtà che spesso vengono taciute possano aprire un varco in quel circolo infernale che si nutre di quel male che la stessa mamma di Giulio ha tristemente dovuto riscontrare sul volto del figlio, devastato da ogni forma di violenza.

La forza del ricordo è forse l’unico strumento che, portando in alto, dipanando sempre più la forza della voce delle persone a lui più care, che invocano giustizia e, soprattutto, verità (per sé, per noi, e soprattutto per lui), possiamo e dobbiamo utilizzare, diffondere e seminare ciascuno in sé e all’altro, non solo per impedirne la dimenticanza ma per vedere fiorire proprio ciò che forse Giulio andava cercando: la forza della verità, nella tenacia della sua ricerca.

«Per la terra vanno tante strade e vie, ma tutte hanno la stessa meta. Puoi cavalcare o camminare in due o in tre… L’ultimo passo devi compierlo da solo. Perciò, non c’e sapere o facoltà che valga come fare quanto e arduo da soli»2.

 

Riccardo Liguori

 

NOTE:
1. H. Hesse, Il coraggio di ogni giorno, Oscar Mondadori, Milano, 2011, pag. 3.
2. Ivi, pag. 45.

[Immagine tratta da Google immagini]

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