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<p>Immagina tratta da Google Immagini</p>

La psichedelia propone un gioco, le cui regole sono tanto nette quanto imprevedibili; getta i giocatori in un paradosso esistenziale che coinvolge ogni singolo aspetto della realtà. Quest’ultima viene sgretolata, dispiegata, derisa crudelmente, vi si rinuncia in virtù di una scoperta sinestetica dove ogni punto, ogni atomo, ogni fosfeno assume il significato di un’apocalisse o di un’origine primordiale. La vita prorompe aggressiva da ogni dove, in ogni tempo. Gli altri e l’altro diventano coacervo di una pluralità semantica di dimensioni, che se da una parte si differenzia radicalmente dal proprio sentire, dall’altra ci coinvolge direttamente nel suo sviluppo perché come noi partecipa delle medesime intuizioni; e ciò può tanto spaventare nell’imponderabile quantità di suggestioni che fa emergere, quanto affascinare all’inverosimile per la multivocità incalcolabile della vita attorno a noi.

Per tutto il viaggio non si comprende nulla di quel che viene detto e ci si perde nel tentativo inutile di spiegare quel che al Sé, oltre ogni altra cosa, sta accadendo. Si vuole analizzare la propria psicologia, valorizzare la propria esperienza, ma la psichedelia lo impedisce, e anzi costringe a cercare un accordo, a stipulare un contratto, a riconoscersi nell’altro e a permettere all’altro di riconoscersi nel Sé; il gioco di specchi e riflessi ininterrotti che rende evanescente ogni presunta priorità sostanziale. Quel che simula è un momento di destabilità mentale in cui ogni coordinata allude a qualsiasi altra dimensione immaginabile; si assiste alla più totale sconfitta della razionalizzazione e ci si perde in un caos magniloquente che può evocare infinite suggestioni. Nulla è più fondato, ogni oggetto è dubitabile, si vive nel costante sospetto di venir presi in giro. La psichedelia esagera ogni cosa, la eleva oltre l’assurdo, la svela in ogni verità che può rappresentare. Si continua a vagare per le stanze a caccia di fantasie, incoraggiando i fantasmi a farsi vedere, e nel frattempo tutto si distorce, si piega fino al ridicolo, al grottesco, gli oggetti assumono una configurazione caricaturale, priva di confini, di bordi, di limiti che ne chiudano il senso; anzi questo straripa da ogni dove, si diffonde come un oceano, allaga, livella e confonde, rende liquida ogni certezza, persino camminare diventa sospettoso. Sembra di vivere all’interno di un cartone animato; la casa respira, ride assieme ai viaggiatori, insiste a solleticarli, ama le loro risate sguaiate, incoscienti, folli. Uno afferra una nocciolina, la sbuccia e gli sembra di sventrare lo scafo di una nave in legno. L’altro osserva le vene del braccio, rapito dalla bellezza anatomica del corpo, e queste sbucano fuori dalle dita come un intreccio di liane che si aggrappano e si radicano negli oggetti tutt’attorno. Sovraccarico di significato, assenza di fondamenta, queste sono le regole del gioco; chi accetta la sfida viene invitato a visitare un castello delle streghe, una casa di specchi, una dimora incantata. Non gli viene detto cosa lo aspetta all’interno, e non lo saprà finché non affronta l’ignoto.

La psichedelia è un po’ come la lettura; scombussola la coscienza, le sfila via le lenzuola con prepotenza, le canta una canzone per farla alzare dal letto, che il sole splende ed è ora di sgranchirsi le ossa. Psichedelia e lettura sono entrambe psicotropie; abbattono i confini, ne ridono, ne fanno una satira, dialogano e interrogano perché cercano delle risposte, perché cercano quel barlume opalescente che rifulge tra le tenebre occulte delle nostre viscere, e così facendo nutrono un’anima che langue e deperisce. Qualcuno può dire che è tutta una finzione ma cosa non lo è a questo mondo? Se è finzione la coscienza che palpita, allora tutta la vita è una colossale perdita di tempo. Certo però è che ci vuole profondità di spirito e un certo vigore psichico per poter discernere il senso intrinseco alle infiorescenze psichedeliche della propria anima. L’inconscio viene estratto dai recessi della mente e posizionato tutt’attorno nel mondo con una irruenza selvaggia, irrefrenabile. Eppure quella stessa ombra che si ingigantisce e prende l’aspetto di un demone è in realtà un segno, un’indicazione, un’ancora o una boa che sta illuminando un itinerario salvifico. Per scorgere questo percorso occorre accettare la consapevolezza di quel che si è, interiorizzando come nuovo carattere l’aspetto traumatico che si è appena palesato. È facile finire ingarbugliati in sensazioni sgradevoli e paranoie alienanti, terribilmente confuse, e spesso ciò che ne consegue è una profonda vergogna che rischia di minare l’intero assetto della propria persona. Ma ciò accade perché la psichedelia, e quindi anche la lettura, risvegliando la vivacità dell’anima, illumina l’egoismo che albergava latente nel nostro cuore e il tono esasperato con cui indica quel cancro è un invito, non un rimprovero, a far qualcosa per debellarlo. La psichedelia è un esercizio che pone la persona di fronte a un amore indifferenziato; se non si è capaci di sincerità, se ne avrà solo che male.

Per salvarsi dai cavalloni surreali e dal marasma oceanico che ci travolge, occorre gettare ponti, sancire legami, confidenze, rapporti, ancorarsi a qualcuno, a uno sguardo, a un contatto umano che rivalorizzi un fondamento; la psichedelia distrugge ogni vanità per costringere noi in primis a fondare una sicurezza. Non dice la verità, ma ne invoca una possibile, e in tal modo incoraggia la poietica dell’immaginazione, della ricerca, del domandare, che in ultima analisi, sono le istanze principali della vita stessa. Come se facesse terra bruciata per riconsegnarci alla fine un nuovo spazio del creabile, un nuovo itinerario possibile di scrittura, spronando la vita a riconoscere i suoi difetti e a migliorarsi. L’esperienza psichedelica non ha mai senso prima del suo esaurirsi. È solo allora infatti che i fili si riannodano, che i colori recuperano chiarezza, e i significati strisciano entro i confini degli oggetti che gli sono propri. L’esistenza poi torna a tacere e ci riporta sul nostro pianeta per lasciarci il tempo di capire cosa stiamo covando dentro di noi.

Leonardo Albano

[Immagine tratta da Google Immagini]

 

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“Sensorium Dei”: viaggio nei limiti del tempo di Michele Pastrello

A volte riteniamo il piccolo e grande schermo lontani dal mondo della filosofia, anzi troppo spesso non ci ricordiamo che l’arte della regia fa parte dell’immenso campo della cultura e che è proprio una delle migliori strategie per poterla veicolare, attraverso immagini, musiche, parole…permettendo a chi le guarda e ascolta di ricevere messaggi diretti o sottili, nascosti con maestria dietro a scene realizzate ad hoc.

Oggi abbiamo avuto l’onore di ospitare un regista emergente che ci presenta il suo ultimo lavoro “Sensorium Dei” che riprende il concetto di spazio/tempo di Newton.

Michele Pastrello, regista emergente veneto: come ti sei avvicinato all’arte della regia e come la definiresti?

La prima parte della tua è una domanda che mi è già stata posta, alla quale non ho saputo mai dare una risposta precisa. Fin da bambino amavo, mentre mi divertivo con i giocattoli, immaginare storie e mi ricordo che chiudevo un occhio e con l’altro aperto mi abbassavo a livello dei giochi. E allontanavo od avvicinavo lo sguardo. Qui in qualche modo incubavo in via inconsapevole la regia. Poi maturando mi sono avvicinato al cinema. Ed ho cominciato a chiedermi: come mai alcune scene di film mi fanno venire i brividi sulla pelle? Perché brividi ne provavo ed il primo che ricordo era nel finale del director’s cut di Blade Runner. Ho cominciato a vedere quindi certe scene per me importanti di un film non solo dal punto di vista irrazionale, ma anche da quello pratico: dove ha messo la mdp il regista? Che luce ha scelto? Ecco, l’arte stessa è stata la mia palestra e c’era un tempo da ragazzo che riuscivo a guardarmi 3 film al giorno per medio-lunghi periodi.
Sulla seconda parte della tua domanda, proprio per quello che ti ho appena detto, mi sento di riportare una frase che lessi tempo fa: “fare il regista non è tanto dirigere qualcuno, ma dirigere se stessi.” E’ una questione di consapevolezza.

I tuoi lavori hanno tutti un richiamo alla filosofia, fanno riflettere e ci portano in una dimensione altra grazie alla tua capacità di rappresentare concetti astratti: cosa c’è dietro alle tue scelte tematiche?

Premettendo che io non sono un filosofo, tuttavia sì, affronto dinamiche esistenziali che sconfinano nella filosofia. In tal senso mi colpì una frase di Antiseri “In filosofia non tutto è arbitrario, ma niente è certo”, che di fatto rispecchia la più comunemente detta condizione umana. Cosa c’è dietro di preciso non lo so. Certamente un mio personale Dolore, ci ho messo la maiuscola apposta. Passeggia con me, dorme con me, mangia accanto a me. Non so darci un nome, ma non è un dolore fisico od un lutto, che so. Ed è molto grande, non in senso di profondità, ma in senso di ampiezza. Presto molta attenzione al mondo attorno a me e che incontro e, in genere, mi ritengo una persona abbastanza ricettiva: vedo che questo Dolore, che molto spesso è il frutto dei nostri perduti, dei nostri compromessi, della paura delle nostre domande, è ben presente in molte persone. Molti di noi, però, non lo notano, ne sono portatori (in)sani. Io credo di toccare le corde scoperte di persone così, più o meno in ricerca; corde emotive scoperte, che possono vibrare al “soffio digitale” di un’immagine e di un suono.

Sergei Ejzenstein, regista e teorico russo, attraverso il suo “montaggio delle attrazioni”, proponeva di arrivare al “concetto tradotto in immagine”, operazione che gli fece sperare di riuscire a portare sullo schermo addirittura “Il Capitale” di Karl Marx. Il cinema, dunque, potrebbe essere, secondo te, il veicolo per la “discesa” del pensiero sulla materia?

Certamente il concetto di Ejzenstein è un po’ l’embrione di quello che noi creativi del video ora facciamo. Un po’ come quando i Lumiere, inventori del cinema, non si erano resi conto che non era una solo “giostra”, finché qualcuno non ha detto: e se utilizzassimo il mezzo per raccontare delle storie? Narrazione,  immagini e suono, al di là di tutte le innovazioni tecnologiche, restano alla base dell’ipnosi umana e della trasformazione del pensiero.

Tu potresti essere un esempio da citare per l’ottima capacità di fusione tra pensiero e rappresentazione concreta: cosa ti differenzia da altri emergenti registi e cosa ti spinge a lavorare su progetti così pregni di filosofia?

Cosa mi differenzia da altri colleghi non lo so, magari ce ne sono altri che fanno cose simili alle mie ed anche più riuscite, ma io personalmente non ne conosco. Cosa mi spinge a fare questo, beh, in parte ti ho risposto con la domanda precendente, ma c’è anche un altro aspetto. In Italia, per quel che ne so io, le produzioni video per la rete sono colme di satira, gag comiche, oppure di qualche video sdolcinato dal facile click. La video arte fa più fatica, in quanto concettuale. Io cerco di portare in micro-movie molto brevi pillole di riflessione filosofica, esistenziale, perché sento che, in fondo, anche di questo c’è bisogno, non si può sempre passarci sopra con una risata. Il buon numero di play di Dekstop e Awakenings (i miei lavori precedenti) lo dimostra.

Sensorium Dei - Michele Pastrello

Newton individua il Dio Artista e il Dio Ingegnere e parla di “Sensorium Dei” per definire lo spazio-tempo e tu utilizzi proprio questa definizione come titolo del tuo ultimo lavoro: quale nesso c’è?

In verità Newton parla di un Dio Ingegnere, che è il mondo e la natura stessi governato da leggi matematiche. La definizione Sensorium Dei la usò nel 1706 ma, da quel che ne so io, non è mai stata da lui ben delineata. La legava comunque ai suoi precedenti Principia, in cui già aveva espresso il concetto di tempo assoluto, letteralmente: Il tempo assoluto, vero, matematico, in sé e per sua natura senza relazione ad alcunché di esterno, scorre uniformemente, e con altro nome è chiamato durata; quello relativo, apparente e volgare, è una misura (accurata oppure approssimativa) sensibile ed esterna della durata per mezzo del moto, che comunemente viene impiegata al posto del vero tempo: tali sono l’ora, il giorno, il mese, l’anno. Nonostante sono cosciente che ciò è stato messo in discussione dalla scienza moderna, mi piaceva l’idea di un tempo assoluto divino (raffigurato da Eleonora Panizzo), che, in quanto Assoluto e “Scorrevole”, raffigura la trappola insidiosa e tormentata per la condizione umana.
Vedi, nel finale di un film molto significativo, Prometheus di Ridley Scott c’è un dialogo di Elizabeth, la protagonista, con l’androide (David). Elizabeth ha compreso che la razza umana è nata da un’entità aliena, la quale, una volta creato l’uomo ha poi cercato, invano, di eliminarlo. Capito ciò, ella desidera di partire per il mondo di questi alieni, ma David, l’androide le chiede:

David: Posso chiederle cosa spera di ottenere andando lì?

Elizabeth Shaw: Loro ci hanno creati e poi hanno cercato di ucciderci. Hanno cambiato idea. Ho bisogno di sapere perché.

David: La risposta è irrilevante. Cambia qualcosa sapere perché hanno cambiato idea?

Elizabeth Shaw: Sì. Sì che cambia.

David: Non riesco a capire.

Elizabeth Shaw: Be’, forse perché io sono un essere umano e tu sei un robot.

Ecco, Sensorium Dei mette in scena questa “follia” umana della ricerca, riflettendo su come questa ricerca non possa essere slegata dall’ineluttabilità del tempo e dalle costrizioni dello stesso.

Qual è il messaggio che vuoi trasmettere attraverso “Sensorium Dei”?

Messaggio diretto, nessuno. Messaggi indiretti? Io ho dato degli spunti, ho creato dei simbolismi, ho generato un tono narrativo. Noto che, attorno a ciò, chi lo vede riflette, e si riflette. Per me va più che bene. C’è anche chi mi ha scritto che non si capisce nulla, va bene anche questo.

Michele Pastrello - Eleonora Panizzo (Sensorium Dei)

Per presentarne l’uscita sui Social hai scritto “Cosa stai cercando? In quale tempo sei? Dov’è domani?”, domande che possono avere delle reali risposte o rimangono sospese?

Domande che rimangono sospese, come il protagonista di Sensorium Dei (Stefano Negrelli), in un futuro che non ci appartiene eppure sembra paradossalmente osservarci. Non ci sono riusciti eminenti filosofi scienziati, se non con ipotesi, non potrò dare risposte univoche e reali certamente io. Però mi capita, guardando alcune persone, osservandole, anche nella quotidianità più trita, con tutte le loro barriere, maschere, inquietudini, strappi di gioia, mi capita di vederle e chiedermi: che cosa stai cercando?

Michele Pastrello - Sensorium Dei

L’ossessionata ricerca dell’uomo di una libertà interiore non bene identificata e la voglia di capire un futuro che non gli appartiene contrasta con la concezione temporale, con l’assolutezza di un artificio, il tempo, creato dall’uomo con l’intento (vano) di potere controllare gli eventi della vita e la durata degli stessi.

Michele Pastrello con questo suo lavoro dimostra la capacità di rendere concreto, attraverso le immagini e la scelta delle musiche, un concetto che difficilmente viene reso palese, quello del tempo: vediamo Sensorium Dei e ci rendiamo conto di essere immersi in un a-tempo e in un a-spazio che ci inghiottono senza mai esserne consapevoli.

La forza di Sensorium Dei sta nel porci davanti ai nostri limiti, barriere da noi costruite paradossalmente per sentirci liberi, un contrasto che ci accompagna nel corso della nostra esistenza.

Questo il link per visionare Sensorium Dei

Questi i link per altri due lavori di Michele Pastrello:

Awakenings (coscienza dopo il sonno)

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Potete anche seguirlo sulla sua pagina Facebook ufficiale: Michele Pastrello

Valeria Genova

Bukowski e il blocco dello scrittore

«Scrivere del blocco dello scrittore è sempre meglio che non scrivere affatto»1.

Charles Bukowski in questo caso ha ragione. Dedico questo promemoria filosofico proprio alla pagina bianca, sofferenza dello scrivere e quell’appagante gioia che ti dà nel momento hai finalmente scelto l’ultimo punto.

Il blocco dello scrittore è l’evento più devastante che può accadere ad uno scrittore. Avere idee e non saperle esprimere, continuare a cancellare la stessa frase almeno duecento volte e rimanere sempre di fronte a quella pagina bianca in cui ti rifletti. Si prova una sorta di vertigine, pur non stando in piedi, pur non stando in alto fisicamente. Non è neanche possibile accartocciare la carta in cui abbiamo scarabocchiato i tentativi di appunti, ormai si scrive quasi sempre su un foglio virtuale, non c’è neanche questa via libera per la frustrazione. Ma pensandoci non succede solo agli scrittori: a chi non è successo quando era alle scuole e ha avuto un blocco durante un tema? Chi non sapeva quella volta come scusarsi di fronte al torto fatto? Chi non sapeva cosa scrivere in quel messaggio per quell’amico lontano? A chi non è successo di non sapere esprimere chiaramente i propri sentimenti ad una persona cara?

Spesso quel vuoto ci assilla e ci assale e ci fa perdere nell’insensatezza dei nostri pensieri. L’ignoto dell’indefinito, di quello che ancora non abbiamo chiarito con delle semplici frasi si propaga davanti a noi. Il non riuscire a scrivere ci terrorizza. Il non riuscire ci blocca. Lo si può chiamare anche terrore e paralizza. Dunque la scelta più facile sembrerebbe lasciare stare, magari riprovare più tardi, un’altra volta.

Non solo nella scrittura ma soprattutto durante la vita avviene. Se non abbiamo una strada tracciata e bisogna partire da zero, è impossibile non essere impauriti da quello che può succedere. Il nuovo può provocare angoscia, propriamente la paura dell’indefinito, dell’infinito possibile. Uno scrittore non sa mai dove lo porterà quel nuovo paragrafo, quella frase in cui un racconto inizia e una storia prende forma, come in un viaggio on the road in posti sconosciuti. Non si conosce la strada da percorrere.

Ed è forse qui che l’unica cosa che ci salva davvero è per il suo senso opposto quell’indefinito, come per il bicchiere mezzo vuoto, che di fatto è anche mezzo pieno. Quel mezzo pieno ci permette di essere in qualche modo positivo e dire a noi di stessi che ce la possiamo fare, perché c’è qualcosa di nuovo da intraprendere. Nuove prospettive da analizzare, scelte azzardate e fidate a seconda di quello che l’istinto ci guida. Se l’angoscia ci spinge da una parte, è emozionante dall’altra, l’ignoto ci fa provare diversi effetti.

Così anche scrivere di questo blocco aiuta lo scrittore a esprimere il suo malessere, ma pur sempre gli consente di scrivere. Lo sforzo aiuta ad andare avanti a pensare, a vivere nel modo migliore che ci è permesso; alla fine è tutta questione di volontà fin dove ci è dato. Esercizi quotidiani di scrittura, come sempre anche un po’ di vita per andare avanti, passo dopo passo verso un futuro. Oppure come in questo caso al prossimo punto e ad un nuovo articolo.

Al prossimo promemoria filosofico

Azzurra Gianotto

NOTE:
1. Charles Bukowski.

[Immagine tratta da Google Immagini]