Ideologia contro ideologia in The Handmaid’s Tale

In un articolo precedente abbiamo dato un inquadramento sommario al successo planetario del libro di Margaret Atwood Il racconto dell’ancella del 1985 e la fortunata serie tv che ne deriva, distribuita dalla MGM e con una straordinaria Elisabeth Moss come protagonista. Una storia che ha fatto parlare molto di sé e che ha rinvigorito i movimenti femministi un po’ in tutto il mondo per la sua riflessione sul ruolo della donna nella nostra società (ancora troppo vicina a quella del 1985) e soprattutto sulla concezione del suo corpo.

Tuttavia, la serie (e il libro) offrono anche molti altri spunti di riflessione pure ai più allergici alle tematiche femministe (uomini e donne che siano). Particolarmente interessante da prendere in considerazione è l’opinione espressa dal famoso sociologo Slavoj Žižek1, fortemente critico nei confronti di The Handmaid’s Tale, soprattutto la serie tv. Prima di arrivare al suo appunto, è necessario però fare una premessa sul governo che viene descritto nel romanzo e che spodesta con la forza la democrazia statunitense.

Si tratta della Repubblica di Gilead, un governo fondato sul fondamentalismo religioso (cristiano), estremamente conformista (dai ruoli sociali ben definiti fino alle espressioni del parlato, ad esempio nel modo di salutarsi) e crudelmente punitiva (più o meno quotidianamente trasgressori e rivoluzionari vengono “appesi al muro” come monito collettivo). Tanto per fare qualche esempio, come veniva spiegato nell’articolo precedente, le donne potevano ricoprire soltanto cinque ruoli ed era loro proibito leggere, niente musei né intrattenimento, niente vizi né piaceri – fatto salvo, ovviamente solo per gli uomini, nei Jetsebel, dove ci sono le prostitute, si fa uso di droghe, si bevono alcolici e si ascolta musica contemporanea. Niente oggetti elettronici, niente vestiti sgargianti, niente trucco, niente capelli al vento, niente cibo industriale. Il rigore è controllato da una polizia speciale, gli Occhi, che fanno sì che qualsiasi trasgressore subisca pene corporali o venga giustiziato. Una società in cui un padre arriva a segnalare la sua stessa figlia innamorata di qualcuno che non è suo marito, e quindi puntualmente e pubblicamente uccisa per annegamento. Una società che però, come puntualizzato anche più volte nella serie, ha sostanzialmente ridotto l’inquinamento ambientale con il risultato di avere aria e acqua più pulita, più verde. E anche più bambini, grazie all’idea delle Ancelle, vere e proprie donne incubatrici “in servizio” nelle case delle coppie di potere ma sterili. Tutto questo e molto altro è sempre e puntualmente giustificato come “volere di Dio”.

Ma ecco il punto di Slavoj Žižek: The Handmaid’s Tale ci fa gioire del nostro presente perché ci pone sotto gli occhi una società di una brutalità inaudita; come se fossimo benedetti dalla sorte – o meglio, dalla giustizia divina dice il sociologo, scomodando la teologia di Tommaso d’Aquino – e ci trovassimo in Paradiso rispetto a quell’Inferno. Dunque, secondo Žižek la serie è permeata da questo sentimentalismo per il presente, permissivo e liberale, che ci rende ciechi di fronte ai grandi problemi, che però sussistono; in altre parole, non farebbe che cadere essa stessa in un’ideologia che legittima l’ordine attuale (il nostro) offuscandone i punti critici. In effetti, va detto, la serie non affronta mai i temi critici della società e del tempo in cui viviamo, dipingendo gli anni “prima di Gilead” come perfetti, paradisiaci; non si risponde mai a questa semplice domanda, dice Žižek: come ha fatto la nostra società liberale a dare luce agli orrori di Gilead? Non è mai ben spiegato che cosa abbia portato quel gruppo di persone – tra cui due dei protagonisti della serie, i Waterford – a fondare Gilead e a prendere con la forza i territori statunitensi. Non ci si chiede che cosa c’è che non va nella nostra società. Vedere l’Inferno in Gilead ci fa credere di essere in Paradiso ed è per questo che proviamo una segreta – a volte non tanto segreta – gioia nell’osservare le vicende narrate in The Handmaid’s Tale.

Senza cancellare con un colpo di spugna la portata “femminista” del racconto, e i tanti spunti che offre all’attualità, è anche questa una riflessione che vale la pena approfondire.

 

 

Giorgia Favero

NOTE
1. The radical revolution, Slavoj Zizek – ‘ the Handmaid’s Tale’. Slavoj Zizek discusses the TV show ‘the Handmaid’s Tale’ based on the classic novel by Margaret Atwood. Specifically, he argues that the series is an example of what Frederic Jameson calls ‘nostalgia for the present’ in the sense that it paints a near-future dystopian society to make us feel better about our current neoliberal social order. Youtube, 3:44, https://www.youtube.com/watch?v=4K3hdhz4_8c.

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Cronache dall’era (post)ideologica

Poche parole hanno un significato così vago e dai contorni così sfumati come quello di ideologia. Da un lato, tale caratteristica potrebbe apparire normale per un termine che nasce, di fatto, verso la fine del Settecento in ambiente illuministico e attraversa i secoli mutando il suo statuto: esso passa dall’indicare, letteralmente, lo studio della storia delle idee, a essere caricato dispregiativamente di un senso antifilosofico e antiscientifico. Con l’avvento del marxismo, la nostra parola ideologia si orienta a indicare l’insieme di dottrine etiche, religiose, politiche e filosofiche adoperate dalla classe borghese per esercitare il dominio sui rapporti di produzione e regolarne le dinamiche. Nel Novecento, poi, diventa senso comune utilizzare ideologia per indicare le grandi visioni del mondo contrapposte, nonché per riferirsi a ciò che i complessi apparati propagandistici dei regimi totalitari tentavano di inculcare nelle popolazioni loro sottomesse.

Oggi, se parliamo di ideologia, pur volendo indicare in maniera neutrale e generica un insieme di valori e credenze appartenenti a un determinato gruppo sociale o politico, sottintendiamo, inevitabilmente, un giudizio negativo nei confronti dell’argomento che stiamo trattando. Questo è, in parte, dovuto a un residuo inconscio che il termine in questione porta con sé; d’altro canto non manca la presunzione di definire dispregiativamente ideologico un atteggiamento da cui ci siamo assicurati di essere a debita distanza: serpeggia, infatti, tra pensatori e gente comune, la percezione e l’idea di essere, finalmente, in un’epoca che si potrebbe definire post-ideologica. Pare che con l’avvento della post-modernità, ci si sia liberati dalle catene delle grandi narrazioni, dai macigni delle complesse impalcature di pensiero e che tutta la fluidità dell’identità relativista scorra come un fiume in piena, diramandosi in effluenti di molteplici visioni che spiegano parti della realtà in cui viviamo oggi.

Con una certa dose di kinismo1, per dirla alla Sloterdijk2, siamo convinti di agire in maniera composta e distaccata a ciò che ancora si propone sotto forma di pensiero ideologico, spesso facendoci beffe di coloro i quali ci appaiono come ingenui e creduloni. Lo stesso Sloterdijk, però, ci fa notare come oltre ad essere soggetti kinici, siamo soprattutto soggetti cinici: sappiamo benissimo, in realtà, che l’ideologia (o le ideologie?) non sono assolutamente sorpassate, che in realtà siamo immersi fino al collo in qualcosa che ci governa e ci manipola, e nonostante ciò, lasciamo a questo qualcosa le redini, quasi rassegnatamente.
Se consideriamo il punto di vista di un altro grande pensatore contemporaneo, Slavoj Žižek, che ha fatto della critica all’ideologia uno dei suoi vessilli filosofici, potremmo persino arrivare ad ammettere che non accettiamo l’ideologia perché ne siamo semplicemente sopraffatti, ma viviamo costantemente in essa poiché è il solo modo, per noi, di vedere e interpretare la realtà. Tutto intorno a noi è ideologico, poiché tutto il nostro mondo risponde a una necessità di simbolizzazione e l’entrata nell’Ordine Simbolico presume un prezzo da pagare.

Secondo Žižek, inoltre, la modalità ironica che utilizziamo per prendere le distanze dalla dinamica ideologica, non solo è già contemplata e accettata in questa stessa dinamica (quindi è ideologia anch’essa!), ma contribuisce ad avvilupparci ancora di più nel gomitolo ideologico, rendendo non solo vano, ma addirittura dannoso il nostro tentativo di fuga.
In questa prospettiva viene da chiedersi: si potrà mai uscire dall’ideologia e vedere le cose come realmente sono? Se vogliamo fidarci della risposta dello stesso Žižek, alquanto pessimisticamente, dovremmo affermare che non è per niente facile o scontato cambiare prospettiva. Uscire dall’ideologia significa anche essere disposti ad abbandonare il nostro terribile quanto rassicurante orizzonte di senso e fronteggiare quello che Žižek, sulla scia di Lacan3, individua come il Reale delle cose, ossia quel nocciolo angosciante e terrificante che si cela dietro la fantasia inconscia della nostra realtà quotidiana.
La passione per il Reale è un atto eroico e, in quanto tale, comporta il rischio di ricevere una sferzata mortale: quanto coraggio abbiamo per imbarcarci nell’impresa e quanto non-senso siamo in grado di sopportare?

 

Vittoria Schiano di Zenise

 

NOTE:
1- Con questo termine si vuole indicare l’insieme di comportamenti che mirano a canzonare l’autorità, rispondendo ai suoi dettami con sarcasmo e ironia; il kinismo vero e proprio affonda le sue radici nell’omonima scuola filosofica dell’antica Grecia, il cui capostipite fu Antistene.
2- Peter Loterdijk è un filosofo tedesco contemporaneo, autore della “Critica della Ragion Cinica”, uno dei saggi filosofici che ha riscosso il maggior successo mondiale, a partire dal secondo dopoguerra.
3- Jacques Lacan è stato un filosofo e psicoanalista francese, che contribuì allo sviluppo della psicoanalisi con le sue teorie sul godimento, il linguaggio e i tre Ordini secondo cui sarebbe strutturata la realtà umana. DI difficile interpretazione, dato il suo stile ermetico e oscuro, è ancora molto controverso, benché goda di importanti interpreti, tra i quali spunta, per l’appunto, anche Slavoj Žižek

[Photo credit pixabay]

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Karl Marx scienziato cognitivo

<p>Portrait of Karl Marx, date unknown. (AP Photo/Kurt Strumpf)</p>

Nella prefazione a Per la critica dell’economia politica (1859) Karl Marx esprime uno dei concetti più determinanti e rivoluzionari della sua intera opera filosofica. Il riferimento è alla distinzione tra struttura e sovrastruttura come sistemi regolatori della società: la struttura è «il vero fondamento su cui sorge una sovrastruttura […] non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza». Per Marx ogni ipotesi di modifica dei dati sovrastrutturali sarebbe illusoria ed improduttiva in assenza di un profondo rivolgimento della struttura. Le rivoluzioni si compiono modificando la struttura e non la sovrastruttura. Nella filosofia marxiana la struttura è insita nei rapporti economici di una realtà sociale e la sovrastruttura dall’apparato ideologico utile al consolidamento della struttura di riferimento. «La cornice giuridica […] codificata e formalmente egualitaria» è stata l’espressione sovrastrutturale con cui è stato eretta l’ideologia dello Stato fondato sui rapporti economici egemonici della borghesia (Michel Foucault).

La vera e grande provocazione è rivedere Marx in chiave di filosofo della mente ed alla luce delle scienze cognitive. Marx filosofo cognitivo è realmente rivoluzionario. Per le scienze cognitive “noi siamo il nostro cervello” e dunque, ciascun essere umano, al di là di illusorie utopie sovrastrutturali fondate sul libero arbitrio assoluto ed incondizionato, non è altro che un intricato gomitolo di neuroni, sinapsi, neurotrasmettitori ed epigenetica; quando l’individuo deve scegliere, il cervello “pesca” le mosse da intraprendere da quanto ha stampato in questo apparato biologico che costituisce la propria personalissima libreria, senza possibilità alcuna di uscire dal proprio gomitolo biologico. In questo modo relegando l’idea di libero arbitrio “uguale per tutti” al libro dei sogni e delle ideologie più fantasiose. Il libero arbitrio non è impedito da psicologismi ed impalpabili devianze della personalità ma è dettato dai timbri cerebrali che hanno impresso nei componenti del cervello il loro disegno. La psicologia e la legge sono le grandi mistificanti ideologie volte a sorreggere l’utopia del libero arbitrio assoluto; sono l’espressione massima della dottrina sul feticismo delle merci, questa volta al servizio dell’ideologia del libero arbitrio.

Legge e psicologia sono i servi sciocchi di questa ideologia sovrastrutturale dominante, dall’Illuminismo sino ai giorni nostri. Una rilettura della dottrina marxiana di struttura e sovrastruttura, ideologia e merce  in chiave neuroscientifica rende il grande filosofo un vero rivoluzionario. La struttura e la sovrastruttura marxiana rappresentano un modello cognitivo dell’io agente. Esattamente come accade nella società, anche nel cervello si può individuare una struttura più profonda, ancestrale, che caratterizza ed influenza tutto l’io cerebrale (la struttura) ed una sovrastruttura “neurale-ideologica” rappresentata dall’impianto cerebrale e comportamentale meno profondo ancorché, all’apparenza, più visibile e vistoso (si pensi, banalmente, ai ruoli sovrastrutturali di medico, giudice, avvocato, pubblicitario, musicista, marito, moglie, amante, ecc. Tutte condizioni portatrici di propri statuti cognitivi sovrastrutturali). Per Marx la sovrastruttura è l’ideologia mistificante volta solo a consolidare la struttura economica; per la filosofia della mente è, a sua volta, un’ideologia mistificante, costituita dal sistema appreso nel corso degli anni che svanisce e si dissolve dinnanzi alla necessità di salvaguardare la struttura. Come già sostenuto sul coté letterario da Giovanni Verga (Fantasticheria e I Malavoglia), ciascuno rimane legato a poche ma decisive tradizioni ataviche che fanno sentire l’ostrica (di qui il suo concetto letterario-filosofico-cognitivo) al sicuro dai pesci feroci del mare. Motivo per cui l’ostrica può anche ipotizzare e convincersi di voler tentare determinate strade che la sua sovrastruttura cognitiva ha conosciuto e appreso, ma la struttura atavica del mondo cognitivo dell’ostrica (secondo la metafora verghiana) relegherà tali conoscenze a sovrastruttura, a pura ideologia incapace di modificare realmente la struttura (neurale) e dettare le scelte dell’io. Con buona pace per il libero arbitrio kantiano che ci vorrebbe pronti e razionali, al momento dell’agire, per essere, addirittura, con le proprie scelte, giudici universali di se stessi e dell’umanità intera (Critica della ragion pratica). Marx in chiave cognitiva è ancor più stupefacente che in chiave politico-economica.

Cosa resta allora della grande dottrina del libero arbitrio, della possibilità per l’uomo di indirizzarsi razionalmente e di decidere in nome delle regole, della legge e dei costumi morali e sociali in essere? Insomma: cosa resta dell’Età dei Lumi su cui è stato costruito il nostro mondo contemporaneo, le nostre leggi, i nostri sistemi di responsabilità giuridica, morale e sociale? Una merce da vendere nel mercato ideologico delle mistificazioni. Solamente la convinzione che l’essere umano ricade sempre nel peccato originale, nel volersi erigere a Dio terreno, ad essere superiore e razionale, esattamente come il Dio in cui vuole credere. Rimane la vanità delle vanità: il libero arbitrio assoluto ed incondizionato.

Luca D’Auria

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Sul gender e sul neutro: avvistare una contraddizione

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Iniziamo questa riflessione sul gender1 recuperando un contributo precedente: alcuni mesi fa una nostra autrice, in un articolo intitolato Una strana idea di femminismo, faceva notare come oggi siano particolarmente in voga alcuni discorsi e alcune pratiche che, nate dal nucleo forte che è la presa di parola pubblica da parte delle donne, sono scaduti in una forma di misandria. Come ogni volta in cui si mettono in questione posizioni e tendenze che s’ispirano a qualche discorso precedente, occorre fare attenzione a non appiattire la parola originaria a quella che da essa prende le mosse: dal discorso e dalla pratica femminista, preziosi per aver aperto una possibilità di liberazione politica e filosofica anzitutto per le donne, o piuttosto dalla vulgata che se ne è fatta, si sono originate una molteplicità di posizioni che da essi si allontanano a vario titolo e con differenti sfumature.

Una di queste posizioni, quella che pare allontanarsi maggiormente dalla rivendicazione femminista, è quella che per brevità è talvolta chiamata – impropriamente – ideologia gender. Occorre essere precisi: ciò che intendiamo mettere a tema non sono i gender studies e i contributi di chi ha voluto misurare l’ingenza delle costruzioni e delle rappresentazioni sociali sulla sessualità degli individui e tentare di decostruirla. Tutte le traiettorie lungo le quali si sviluppa la persona umana possono patire, secondo un meccanismo di interpellazione e identificazione, le pressioni della società e della cultura in cui ciascun soggetto si trova a vivere ed edificarsi; e rendersi conto di tali meccanismi è un passo in più verso l’articolazione di una soggettività libera.

La posizione che ci pare problematica e che tentiamo qui di discutere2 è quella che dal pensiero di matrice femminista (da alcune delle sue determinazioni: si pensi a mo’ di esempio a Judith Butler), passando per i gender studies, giunge alla rimozione della differenza sessuale, ritenuta un che di meramente biologico, un accidente su cui si può intervenire in vario modo e, ancor di più, un’opprimente costruzione sociale. È la posizione che sta oggi portando innanzi una liquefazione del genere.

Ma il pensiero che affermi la totale insignificanza della differenza sessuale e persegua la conseguente rimozione dei due sessi in vista di un più ampio e meno costringente gender pare contradditorio almeno per un punto: si vuole liberare il soggetto da quell’ennesima costruzione sociale e culturale che è la differenza tra maschile e femminile ma si finisce per reintrodurre il dominio del neutro, ciò contro cui il pensiero della differenza sessuale si è aspramente e lungamente pronunciato. Il patriarcato opprimeva donne e uomini3 istituendo un regime di neutralità, chiaramente edificato a partire da alcuni tratti che si astraevano dall’essere umano di sesso maschile. Il pensiero della differenza sessuale ha reso possibile per il soggetto umano il progetto di un’identità libera, ha aperto la possibilità di un libero articolarsi del molteplice che evidentemente differisce. E la neutralità che viene introdotta con il gender rende impossibile qualsiasi forma di dialogo, non contempla alcuna forma di relazione poiché impoverisce l’alterità con cui ciascuna soggettività è chiamata a mediare – anche nell’esperienza di autocoscienza.

Senza differenza non può emergere alterità e, dunque, non può nascere neppure l’individuazione del soggetto. Dalla libertà in virtù della differenza si ricade ad una forma dualisticamente connotata di libertas indifferentiae: non si è liberi di vivere il proprio corpo, soprattutto quanto alla dimensione della propria sessualità, ma si è liberi di astrarne sino all’indifferenza.

L’intento di aprire al soggetto la possibilità di identificarsi con qualsiasi modello istituito sulla base dei propri e singoli desiderata prende di mira alcune condizioni che sono necessarie – ancorché non sufficienti – alla libera fioritura della persona umana. Non si è colpito davvero l’apparato di potere che esercitava costrizione sui soggetti in cerca d’identità ma si è negata la consistenza della materia che il potere tentava di informare in una certa maniera.

Se quel che si vuole è davvero la liberazione del soggetto, allora bisogna soffermarsi a problematizzare il gender e non limitarsi a giustificarlo come un discorso che rivendica diritti fondamentali per alcuni soggetti messi al margine in forza delle loro scelte sessuali: si tratta di due discorsi totalmente differenti, la sovrapposizione dei quali produce quantomeno contraddizione. L’affermazione di una differenza tra i due generi, maschile e femminile, non produce alcuna esclusione aprioristica delle identità libere, di cui conserva la possibilità di differire e, per ciò stesso, di strutturarsi. Non è riaffermando il totalitarismo del neutro che si potrà dare alle cosiddette persone LGBTqi la possibilità di non vedersi negato il riconoscimento che ogni persona merita. Soprattutto perché il riconoscimento ha bisogno dell’alterità: di ciò che il neutro, in fine, uccide.

Emanuele Lepore

NOTE:
1. Visto il tema che ci proponiamo di trattare è necessaria un’avvertenza: mettere in questione il concetto di gender non vuol dire affermare l’opportunità di quelle pratiche sociali, culturali e politiche che mettono al margine le persone che decidono liberamente della propria sessualità, anche qualora una cultura o una società dovesse classificarle come distanti dalla normalità. Quel che qui presentiamo è un pensiero in fieri, che necessita anzitutto del riscontro di chi avrà la bontà di leggere le righe in cui si articola ma che non può essere ricondotto, per i suoi intenti e per il suo contenuto, al discorso di chi promuove l’esclusione dell’alterità.
2. Assumo come guida per questo breve e minimo giro di considerazioni il volume Differenza di genere e differenza sessuale: un problema di etica di frontiera, che il Professore Carmelo Vigna ha curato per i tipi di Orthotes e contiene i contributi di differenti studiosi, tra cui Susy Zanardo, Riccardo Fanciullacci, Fabrizio Turoldo.
3. Va detto che anche gli uomini hanno patito – e patiscono ancora ora, in una maniera differente – il patriarcato quanto alla necessità di identificarsi con determinate rappresentazioni socio-culturali.

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Universale inganno e verità

 «Nel tempo dell’inganno universale dire la verità è un atto rivoluzionario»1.

Questa breve citazione tratta da la Fattoria degli Animali – capolavoro di George Orwell – può essere lo spunto per una riflessione che vada ad analizzare il rapporto che intercorre tra società contemporanea e ideologia. Non solo, ci permette anche di comprendere come il nostro cinismo nei confronti della realtà sia inconcludente.

Procediamo con ordine, partendo da ciò che apparentemente sembra scontato, cioè dal significato dell’espressione inganno universale. Con il termine inganno comunemente intendiamo una modificazione della realtà dei fatti, la scelta poi di definirlo universale ci fa capire come esso non si limiti ad un solo aspetto della nostra vita ma che al contrario permei la nostra esistenza in tutte le sue sfumature, anche delle più inaspettate. Ma ne siamo consapevoli?

È il filosofo sloveno Slavoj Žižek a fornirci un chiaro esempio di come costantemente il reale venga distorto. Ci presenta una situazione di cui spesso siamo spettatori passivi; ossia la visione di sketch pubblicitari che mostrano la sofferenza di alcuni bambini costretti a vivere in condizioni di miseria. Per migliorare il loro stato, siamo chiamati a versare del denaro a determinate associazioni e questa è la soluzione che le istituzioni ci presentano come definitiva: agisci e risolverai il problema. Proprio in questo, secondo Žižek, consiste l’inganno: non siamo spinti ad indagare sulle cause scatenanti il fenomeno ma veniamo convinti del fatto che la soluzione sia già stata trovata e consista in una nostra donazione di denaro, comportandoci secondo il mantra non pensare, agisci.

Se vogliamo un altro esempio che ci possa mostrare di quanto sia capillare l’inganno che viene tessuto attorno a noi, basta richiamare alla mente un qualsiasi slogan di una qualunque pubblicità; per esempio, quello attuale della Burger King recita A modo tuo. Se ci soffermiamo a riflettere, possiamo renderci conto – senza chissà quale sforzo intellettuale – di come queste affermazioni non poggino i loro piedi sul terreno del reale, e che se le spogliamo ci rendiamo conto che esse non nascondono un significato: sono proposizioni vuote.

A questo punto è interessante notare come il concetto di inganno universale sia affine a quello di ideologia. Questa viene definita da Marx nel Capitale attraverso una frase lapidaria: «Non sanno di far ciò, eppure lo fanno»2. Peter Sloterdijk nella sua Critica alla ragion cinica ha ripreso quest’affermazione e l’ha attualizzata, mostrando come oggigiorno siamo consapevoli dell’infondatezza delle nostre azioni − sappiamo benissimo che la nostra donazione non è la risoluzione al problema della povertà nel mondo, o che Burger King non preparerà dei panini a modo nostro − ma ci comportiamo come se lo ignorassimo ed assumiamo una posizione di indifferenza cinica. La definizione contemporanea di ideologia proposta da Sloterdijk rovescia in qualche modo la frase marxiana e la trasforma nella proposizione «Sanno quello che stanno facendo eppure continuano a farlo»3.

Torniamo ora all’affermazione di Orwell da cui siamo partiti. È impossibile negare di trovarci in una situazione di universale inganno, di essere imbrigliati nell’ideologia – particolarmente nella sua accezione contemporanea del termine –, perciò cosa significa, alla luce di ciò, dire la verità? Può continuare a significare fare un resoconto oggettivo dei eventi? A questo proposito Žižek scrive:

«La distanza cinica è solo uno dei modi di renderci ciechi di fronte al potere che struttura la fantasia ideologica: anche se non ci prendiamo sul serio, anche se manteniamo una distanza ironica da quel che facciamo, continuiamo pur sempre a farlo»4.

Ecco che in luce di ciò, la verità non può limitarsi ad un mero raccontare dei fatti o assumerli: comporta un rovesciamento della logica corrente. Credere che la mera consapevolezza di una situazione da sola sia in grado di cambiare una qualsiasi situazione, è una comodità che ci viene offerta in cui ci adagiamo. La verità è piuttosto in grado di attuare una rottura con i paradigmi che siamo soliti usare, è un volgere diversamente lo sguardo sulla realtà. Se infatti ci limitiamo ad una fredda esposizione dei fatti, non elimineremo l’inganno che nasconde il reale ma lo assumeremo e basta, lasciandolo continuare ad esistere.

Mi preme concludere usando le suggestive parole che Ugo Guarino ha impresso sui muri del Padiglione L dell’ex Opp di San Giovanni a Trieste e che vedo ogni volta in cui esco dalla palestra in cui mi alleno, ossia: «La verità è rivoluzionaria».

Lisa Bin

NOTE:
1. George Orwell, La fattoria degli animali, 1945.
2. Karl Marx, Il capitale, cit., vol. I, p.109.
3. Slavoj Žižek, L’oggetto sublime dell’ideologia, cit., p.53.
4. Slavoj Žižek, L’oggetto sublime dell’ideologia, cit, p. 57.

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Ciò che rimane di Giordano Bruno

Il personaggio è conosciuto e non necessita prolusioni biografiche. Sappiamo tutti soprattutto le modalità della morte: con la lingua bloccata da una sorta di museruola, fu trasportato e arso vivo in campo dei fiori a Roma il 17 febbraio del 1600. Celebre è anche il monito da lui pronunciato in seguito alla condanna definitiva per eresia: «Forse tremate più voi nel pronunciare questa sentenza che io nell’ascoltarla».

Garantendosi l’ingresso nel mito, diventa bandiera contro ogni forma di oscurantismo. La luce emanata dal rogo diventa essa stessa un complesso significante questa sfida al potere delle ombre, razionalità contro controllo diffuso. Il contenuto della sua filosofia sembra scadere così ad accidente parassitario dell’avventura universale di cui sopra si diceva.

La vita di Bruno è in realtà costellata da compromessi e fughe; ciò che gli premeva era di poter esporre in libertà le proprie concezioni teologiche, cosmologiche, filosofiche con scarsa preoccupazione per le adesioni esterne. Da questo punto di vista è emblematica la conversione al calvinismo durante il soggiorno ginevrino come tentativo di placare le accuse che gli venivano rivolte. Ugualmente significativo è notare che contro l’inquisizione romana il comportamento di Bruno si irrigidisce quando capisce che non è una questione di forma, l’obbiettivo era anzi una completa abiura della sua filosofia. Altro elemento da tenere a mente è la concezione dell’unità degli opposti che innerva tutta la produzione e la vita di Bruno: è solo nel pericolo, in odore di morte, che la vita si illumina della luce più brillante.

Bruno è più sfaccettato, complesso di quanto l’immagine conosciuta lo vuole. La sua filosofia è più simile all’indicazione di una strada non percorsa, una linea di modernità minore, inesplorata e vergine, piegata dalle traiettorie vincenti, dal cartesianesimo, dallo scientismo.

Si dimentica anche il suo l’approccio radicalmente nuovo al sapere, un sapere che vuole essere primariamente pratico, fulcro di una comunità. Nel testo della denuncia del “nobiluomo” veneziano Giovanni Mocenigo ai danni di Bruno infatti si legge: «Ha mostrato dissegnar di voler farsi autore di nuova setta sotto nome di nuova filosofia». Non è neanche aderente l’immagine di un Bruno incendiario e antitradizionalista a priori, l’ispirazione del Nolano è infatti creare una filosofia classica, che coinvolga l’uomo nelle sue diverse dimensioni, un recupero quindi di quel concetto di filosofia antica come forma esistenziale di elevazione, la sua vis polemica si focalizza contro l’idea di una filosofia ancella di altri padroni.

Così ci chiediamo cosa resta dell’eredità di Bruno, oltre l’uso strumentale nel conflitto ideologico tra Stato e Chiesa, oltre la fascinazione che su molti giustamente esercita, oltre il luogocomunismo, forse il poco che rimane è un grande pensatore – tanto originale quanto profondamente ignorato e sconosciuto – ancora da ritrovare.

Francesco Fanti Rovetta

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