Identità (o una non-identità): tante personalità?

Gli antichi si tramandavano tradizioni romanzate di origini mitiche e lontane; Virginia Woolf scrisse di un personaggio di nome Orlando che cambia sesso nel bel mezzo del racconto e oscilla continuamente da una personalità all’altra; nel corso degli ultimi decenni hanno cominciato finalmente a farsi strada nella coscienza collettiva i concetti di identità sessuale e di genere, sotto l’affermarsi progressivo di un’attenzione globale. A partire dalle identity stories, passando per gli spunti dei maggiori intellettuali novecenteschi e approdando alla lotta del mondo LGBTQ+ per i propri diritti si è sempre conservata molto viva e centrale nel dibattito sociale la “questione dell’identità”; questione che per diverso tempo è stata associata, in modo assai riduttivo, alla sola etnografia, ma che al contrario può svilupparsi in numerosissime e sorprendenti direzioni.
L’aspetto fisico è sufficiente a determinare il genere di una persona o può intervenire anche l’autopercezione? Il genere è un costrutto culturale, o “esiste davvero”? In tal caso, che cosa, esattamente, dovrebbe accendere la percezione di appartenere a un genere piuttosto che all’altro? Questo tipo di approccio è il frutto del recente dibattito sulla sessualità aperto dalla comunità transgender, ma rappresenta solo un’ulteriore possibilità in una gamma multicolore di prospettive che in passato hanno cercato, ciascuna a partire dalla propria intuizione, di indagare il delicato interrogativo sull’identità.

Il relativismo novecentesco suggeriva ad esempio che la cosiddetta “identità personale” non sia poi così personale: forse “chi siamo” non si riduce a chi crediamo di essere, ma dipende in prima istanza dal punto di vista che assumiamo per raccontarci, allargandosi al riflesso di noi che ci restituiscono le persone con cui interagiamo. Questa idea viene ripresa anche dalla theory laden di Popper: la mente come un faro che illumina la realtà, la diversa percezione delle situazioni e delle persone circostanti come frutto dei preconcetti trasmessi dall’ambiente culturale di provenienza. A seconda di quale faro illumina la realtà, cambia la luce e con essa la porzione di cose illuminata: la fondazione della realtà varia al variare della mente che la interpreta, e nel nostro caso particolare varia l’immagine dell’eventuale interlocutore; sguardi diversi su una stessa persona ne percepiscono e determinano aspetti dell’identità diversi. Ne deriva che al pronunciare un nome non evochiamo realmente una persona in carne e ossa, ma proiettiamo all’esterno un personaggio che ci siamo costruiti mentalmente, una figura che esiste solo come prodotto delle conoscenze limitate che abbiamo accumulato rispetto a quell’individuo particolare.
Popper e gli altri relativisti sembrerebbero dirci, in sintesi, che un’identità viscerale non esista, e che siamo semmai il mosaico di molteplici, minori, prospettive che includono sia la nostra che quella di chiunque posi il suo sguardo su di noi e formuli un giudizio. Il concetto di identità si esprimerebbe allora nella triplice dimensione di ciò che viene percepito dall’interazione con l’altro, del personaggio che quest’altro costruisce sulla sua visione parziale delle cose, e della percezione personale e autonoma di sé stessi.

Secondo Platone, invece, ciascuno di noi è abitato da un dáimōn che ci rende unici; pur sfociando poi nel noto racconto delle Idee e dell’Iperuranio, il concetto di fondo del mito platonico nega l’ipotesi di un’anima umana come semplice caleidoscopio nel quale si riverberano gli sguardi altrui, sostenendo l’esistenza di una qualche essenza identitaria distintiva; una sorta di sostanza “oggettiva” che si vincola a ognuno prima ancora della nascita e ne caratterizza profondamente la natura, funzionando come strumento identitario.

Un principio generale emerge da questo garbuglio di teorie e vicoli cechi: l’identità come concetto inafferrabile e indefinibile; come qualcosa che sembra fluire, e oscillare, e mutare, e sbeffeggiarci quando proviamo a fissarla in una serie di categorie. Forse Pirandello era riuscito a evitare una descrizione semplicistica, parlando dell’anima umana come eterno guizzo di infinite personalità possibili; forse la Woolf, immaginando l’identità come sostanza multiforme, cangiante, asessuata, in perenne evoluzione. Una risposta categorica all’interrogativo sull’identità non è facile; forse non esiste; forse la risposta è la somma di tutte le possibili risposte, ossimori inclusi; ma se non possiamo definire verbalmente l’identità, possiamo tuttavia farlo empiricamente, lasciandola libera di esprimersi attraverso i nostri cambiamenti: che emergano tutte le variazioni e anche le eventuali, temporanee staticità di quel misterioso corpus che è la personalità. Liberiamo la nostra identità da etichette e altre possibili costrizioni, consentendole di svilupparsi, modificarsi ed esplorare pienamente tutte le sue possibilità.

 

Cecilia Volpi

 

[Photo credit Vince Fleming via Unsplash]

la chiave di sophia

 

Tra libertà e tutela dell’altro: intervista a Roberta De Monticelli

A Vittorio Veneto, sotto il caldo sole di fine giugno, si sono svolte le tre giornate del Festival Biblico, ricche di incontri con ospiti ed esibizioni di artisti, tra concerti e performance. I principali temi di confronto sono stati la fratellanza e l’amicizia, affrontati sotto diversi punti di vista per favorire il pensiero critico e trattati con esperti di vari settori, dalla filosofia all’economia.

A tale proposito abbiamo incontrato Roberta de Monticelli, filosofa, professore emerito dell’Università Vita Salute San Raffaele di Milano e autrice di numerose opere tra cui La questione morale (Cortina Raffaello, 2010) e Al di qua del bene e del male (Einaudi Editore 2015). Ospite alla prima giornata del Festival, nella nostra intervista abbiamo discusso il significato di identità individuale e libero arbitrio, il rapporto tra filosofia e modernità e molto altro ancora.

 

Un tema complicato eppure di estrema attualità è quello del libero arbitrio, che ha avuto modo di approfondire in modo particolare nel suo saggio La novità di ognuno. Persona e libertà (Garzanti 2012). Di libertà si è parlato moltissimo anche in quest’ultimo periodo, in cui una pandemia ha indotto una ridefinizione della mobilità e dell’agire quotidiano di milioni di persone nel mondo. Se le nostre scelte contribuiscono a costruire la nostra identità, come si inserisce in questo contesto la tutela dell’altro o in generale del bene pubblico?

Bisogna anzitutto fare una piccola distinzione fra il libero arbitrio – ovvero la questione della libertà del volere tradizionalmente intesa – e la questione della libertà dell’agire più in generale, che è quella a cui si riferisce la seconda parte della domanda.

Quando si parla della pandemia e della perdita di libertà, si parla dell’essere soggetti a una volontà altra dalla nostra (che poi sia, in termini democratici, la volontà del popolo e non un volere arbitrario poco importa, perché è comunque un volere altro). Io non mi sono autodeterminato a chiudermi in casa, o meglio: mi sono soltanto autodeterminato a chiudermi in casa se sono d’accordo, ma se per caso non sono d’accordo questo lo vivo come una privazione di libertà. 

Questa è la questione di base, ovvero la questione della libertà in senso politico: la politica è sempre il luogo del confronto delle volontà e quindi della soggezione o, viceversa, della non soggezione della mia volontà alla volontà altrui.

Però qual è il nesso di questa dimensione politica con quella del libero arbitrio che invece configura una questione fondamentalmente “metafisica”? Cioè la seconda si chiede se il volere umano in quanto tale, a prescindere dal fatto che il mio volere sia o no soggetto al volere di un altro, sia libero o no. Tale questione, nella tradizione, è tipicamente affrontata in maniera tale da contrapporre un’idea deterministica a un’idea libertaria. La seconda dice che “io sono libero nel senso che il mio volere è libero e non è determinato”, ovvero devono essere soddisfatte due condizioni: 1) sono io effettivamente la fonte delle mie azioni; 2) ho qualche alternativa: avrei potuto se faccio A, non farlo se faccio B. 

Se esse non vengono soddisfatte, allora si è deterministi; Spinoza diceva: «dando alla pietra la possibilità di pensare, la pietra lanciata penserà che è lei stessa che si muove per sua volontà». Così, essendo noi probabilmente, in qualche modo, la risultante di tutte le complesse dinamiche biologiche, psicologiche, sociali che lavorano in noi, in questo modo possiamo essere illusi nel nostro sentirci soggetti liberi. Questa è una posizione molto condivisa dall’attuale ricerca neurobiologica.

 

Da sempre la filosofia sembra un sapere sulla via del tramonto, salvo poi costituirsi come uno dei riferimenti principali per orientarsi nel proprio tempo. In che stato di salute versa oggi la filosofia secondo lei, specialmente nel nostro Paese?

Dunque, oggi la situazione è veramente molto variegata perché, ad esempio, non è ancora andata in pensione tutta la mia generazione, e quindi si allungano i tempi accademici e abbiamo a che fare, a livello d’insegnamento, con stili e modi dominati da una tradizione che era ancora eminentemente storica, se non storicistica, che trascina con sé grandi illusioni. Insomma, una tradizione sostanzialmente hegeliana, modellata sul neoidealismo italiano, che ormai si sta estinguendo perché sono troppe quelle che possiamo definire pressioni derivanti dalla realtà; queste fanno saltare i quadri di quella che è la base di tutto il nostro sistema educativo. Certo, esso ha avuto i suoi meriti ed è alla ricerca di nuovi metodi e di nuove basi anche didattiche che possano farlo progredire, ma ciò sta rendendo molto difficile il confronto con altre realtà, per esempio quella anglosassone, perché non sono più facilmente distinguibili gli indirizzi. Oggi penso che chiunque abbia capito che senza un po’ di argomentazione una grande idea non vale molto; senza la capacità, appunto, di avvicinare anche l’interlocutore alle basi che si posseggono per sostenere una tesi. La Verità che cala dalla bocca del Vate o dalla grande porta del Vero non convince nessuno; d’altra parte, molta filosofia “anglosassone” (ben al di là della filosofia del linguaggio, della filosofia della mente ecc.) ha prodotto fioriture straordinarie proprio in termini di filosofia delle norme, filosofia politica, filosofia morale, ma anche riflessione sulla storia, e quindi oggi l’interconnessione è molto più profonda.

Ecco, qui devo dire che sarebbe più utile uno sguardo più fresco del mio che ha tutti gli svantaggi della relativa vetustà di chi vi parla. Per esempio io, fin quasi alla fine, ho insegnato nella aula contigua a quella in cui ancora insegnava Emanuele Severino: io ritengo che – con tutto il rispetto per il personaggio e pur non derivando egli tipicamente dalla tradizione storicista di cui parlavamo – quel mondo ha tutti i caratteri di una completa assenza di orecchio per le domande del reale e in particolare degli umani. È una forma di filosofia ancora una volta chiusa in una sua torre, in questo caso direi veramente liturgica, con tutti i crismi e i riti che contraddistinguono una Chiesa.

Credo che sia veramente salutare riflettere su questa questione: demolendo i pilastri del socratismo – e cioè fondamentalmente da un lato l’universalismo etico e politico, dall’altro la persona e il libero arbitrio – si ottiene una filosofia della macchinazione universale in cui i soggetti sono quelle famose potenze di cui parlavamo prima: la Tecnica, il Neoliberismo (parola più generica, e più discosta, lontana da quello che succede in questo paese dove non si riesce a progredire se non si hanno conoscenze personali e dove semmai vige un’economia consortile e non liberale). La questione è che io vedo la filosofia veramente al tramonto, a meno che non consideriamo una via di salvezza: una semplice, umile e modesta cultura del rispetto per ciò che vi è qui ed ora, per il tempo in cui siamo ma anche per le domande che vengono sia dalle cose che dalle persone. Quindi un’umiltà che diventa anche virtù filosofica accanto alla meraviglia; umiltà vuol dire anche prestare attenzione a quello che accade nel mondo delle scienze, smettendo di far finta che non abbiano importanza per il nostro ambito.

 

Tanti sono i temi di attualità e le questioni con cui quotidianamente ci confrontiamo sui quali la filosofia potrebbe intervenire in modo più deciso all’interno del dibattito pubblico. Quale questione vede lei filosoficamente prioritaria oggi?

Credo che il punto focale debba essere dedicato a ciò con cui abbiamo aperto questa intervista, alla prima domanda: qual è l’intreccio tra logica ed etica? Parlare di questo significa riflettere su ciò che io chiamo assiologia, ovvero la teoria dei valori ma anche e soprattutto la teoria dell’esperienza dei valori in tutte le sfere degli infiniti beni e mali (come dicevamo prima dalla tazza del caffè mattutino fino all’impegno politico che può appassionare un’esistenza, ai dilemmi morali, ed eventualmente, per chi ha questa via, all’esperienza religiosa o comunque a tutto quello che ha a che fare con valori epistemici e cioè il Vero). Questo significa dedicarsi soprattutto a tutto ciò che è alla base di avventura e ricerca di conoscenza e di chiarezza e di definitezza, alla ricerca di basi esperienziali o comunque di giustificazioni: tutto ciò ha a che vedere sostanzialmente con l’intreccio tra etica e logica.

Detto in breve, questo rapporto lega da un lato tutti i valori epistemici (logica) e dall’altro il repositorio di tutte le questioni di valore (etica). Ciò che una nuova ricerca filosofica può mettere al centro è il valore e la natura dei valori, tenendo ben presente la necessità di partire, ancora una volta, dall’esperienza e non da qualcosa di tradizionale o ereditario, di puramente concettuale.

 

Luca Mauceri, Giorgia Favero

 

[Photo credit: Elisa Cesca]

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Amici che ti rubano l’anima. Perché i tuoi dati non sono (soltanto) tuoi

Una delle più grandi zone d’ombra dei nostri info-tempi è il cosiddetto profiling, generalmente accolto con diffidenza: ci starebbero rubando i dati, o li staremmo cedendo inconsapevolmente a chi ne farà un uso strumentale alle nostre spalle. Poiché noi siamo i nostri dati, questo metterebbe a repentaglio la nostra identità1.

Finché ci “profilano” le persone più care, va bene: un amico è tale anche perché conosce i nostri gusti persino meglio di noi e li sa usare per farci bei regali. Ma quando ci profilano (senza virgolette) anonimi algoritmi controllati da anonimi manager che rivendono dati ad anonimi pubblicitari, non va altrettanto bene: ci sentiamo spiati, come se uno psicologo segretamente scrutasse ogni nostro comportamento per studiarci. E approfittarsene: hai scordato di ricaricare la carta prepagata e il pagamento della bolletta della luce non è andato a buon fine; questo dato arriva alla tua banca, che aggiorna in negativo il tuo “diario da pagatore” e aumenta gli interessi dei tuoi futuri prestiti. Brutta storia. Per fortuna, però, stanno arrivando anche le prime contro-difese, come il GDPR della UE, che ha sancito l’innovativo principio per cui i dati sono inestricabilmente legati alla “fonte” che li emette: la persona.

Ma le cose non sono così lineari: davvero i nostri dati sono nostri e basta? Per capire una simile domanda, bisogna usare un po’ di filosofia e chiedersi che cosa sia l’informazione. Tra i diversi modi di definirla2, la concezione forse più promettente è quella diaforica, per la quale l’informazione è fatta di dati, intesi come unità differenziali, «punti di mancanza di uniformità»3. L’esempio più semplice di dato è un punto disegnato su un foglio: si dà una differenza tra sfondo e primo piano, un’“asimmetria” che sorprende, segnala qualcosa di interessante e si presta così a “fare notizia”, cioè a entrare a far parte di un qualche processo di interpretazione (umano, ma non necessariamente).

Oltre a poter rivelare – anche senza volerlo – la “freschezza” di concetti della tradizione filosofica in genere ritenuti particolarmente astrusi4, tale prospettiva consente di riflettere su questo: i dati così intesi in un certo senso non sono di nessuno, perché sono tanto della “fonte” quanto del “ricevente”. I dati-differenza stanno potenzialmente ovunque, si nascondono là dove si inizia a riconoscere una potenziale fonte informativa: se un giorno comincio a osservare tutte le persone che incontro in città e conto quante volte si toccano il naso con la mano destra, lì sto raccogliendo dati (chissà per farne cosa). Quei dati di chi sono? In un certo senso, li ho trovati o persino creati io; in un altro senso, li sto “carpendo” ai loro legittimi proprietari, senza il loro consenso. Sono insieme miei e non miei!

Da una parte, parrebbe strano fermare quelle persone per chiedere il permesso di osservarle e informarsi su di loro: osservare è parte della normale prassi nelle nostre interazioni quotidiane, in forme certamente varie, che comprendono – per intenderci – tanto il marketing quanto la ricerca scientifica5. Da un’altra parte, ciò diventerebbe meno strano se quei dati intendessimo “estrarli” per sfruttarli: non è dunque così sorprendente che in alcuni contesti culturali ci sia la convinzione che scattare una fotografia a qualcuno significhi rubargli l’anima! Poiché il dato è intrinsecamente differenziale, esso sembra essere inevitabilmente “duale”: ha un piede nella scarpa di chi lo raccoglie e un piede nella scarpa di chi lo genera. Di per sé, questo vale tanto per il nostro amico quanto per l’anonimo algoritmo: “mio o suo, questo è il problema!”, declama Amleto-online.

In chiave tecnologica, la Blockchain pare possa “ancorare” i dati ai suoi produttori: questo potrebbe aiutare a contro-bilanciare il lavoro delle IA che li “aggancia” ai suoi raccoglitori. Ma se accettiamo che essi sono nostri e basta, ogni volta disponibili solo previo consenso, non si apre uno scenario parossistico del tipo «l’inferno sono gli altri», che non possono oggettivarmi con i loro info-sguardi senza esplicito permesso6? Insomma, chi “mina” dati da me prende qualcosa della mia persona, ma sta anche creando una persona digitale nuova7. Probabilmente, si tratterà di trovare il modo di rendere i nostri dati oggetto di vari sistemi di negoziazioni e contrattazioni, come oggi accade per il nostro lavoro, magari anche a livello collettivo: la nostra auto-produzione di dati arriverà un giorno persino a essere pagata? Chissà. Paradossalmente, di certo c’è che ormai la stoffa immateriale dei dati è parte della nostra materialità8. Cominciamo ad abituarci all’idea.

 

Giacomo Pezzano

 

NOTE:
1. Sulla cosiddetta data ethics, si veda innanzitutto il numero monografico di “Philosophical Transactions of the Royal Society A”, 374/2083, 2016. Più specificamente invece, perlomeno J. Cohen, Configuring the Networked Self: Law, Code, and the Play of Everyday Practice, Yale University Press, New Haven 2012 e J. Cheney-Lippold, We Are Data: Algorithms and The Making of Our Digital Selves, New York University Press, New York 2017.
2. Cfr. S. Leleu-Merviel, Informational Tracking, Wiley, London-New York 2018, pp. 47-82.
3. Vedi perlomeno L. Floridi, The Philosophy of Information, Oxford University Press, Oxford 2011, pp. 80-92, 316-370.
4. Come l’idea di Platone, la potenza di Aristotele, la negazione di Hegel e la differenza di Deleuze. Per chi volesse approfondire: G. Pezzano, L’ontologia nell’epoca della riproducibilità tecnica del pensiero e della relazione, in “Mechane. International Journal of Philosophy and Anthropology of Technology”, n. 1, 2021, pp. 55-74.
5. Non a caso, inserire questioni etiche di varia natura nel trattamento dei dati sembra intaccare in più di un senso l’efficacia della ricerca scientifica: cfr. S. Leonelli, La ricerca scientifica nell’era dei Big Data, Meltemi, Milano 2018, pp. 80-81.
6. Al di là dell’opera A porte chiuse, dove compare il celebre passaggio, si veda soprattutto la Parte Terza di J.-P. Sartre, L’essere e il nulla, il Saggiatore, Milano 1970.
7. Ne parlava già R. Clarke, The Digital Persona and its Application to Data Surveillance, in “The Information Society”, 10/2, 1994, pp. 77-92.
8. Cfr. B.-C. Han, Psicopolitica. Il neoliberismo e le nuove tecniche del potere, Nottetempo, Roma 2016, p. 34; Y. Hui, On the Existence of Digital Objects, University of Minnesota Press, Minneapolis 2016.

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Elogio dell’alterità: perché non possiamo negare l’altro

Non esiste scienza che abbia tenuto a margine il problema dell’identità, protagonista indiscusso delle riflessioni psicologiche, sociologiche, antropologiche e, naturalmente, filosofiche di ogni tempo. La filosofia, infatti, non si è sottratta al problema, offrendone risposte plurime e diversificate, tanto sul campo logico ed ontologico, quanto su quello etico e politico. Ma sebbene di identità hanno parlato in modo più o meno chiaro svariati pensatori, molto meno calcato si è rivelato il topos dell’alterità, portando a pensare, anche nel senso comune, all’altro come un non-ente e un non-uomo, un elemento trascurabile e sempre definibile via negationis per ciò che noi siamo e lui, in quanto altro, non è. Scopo di questo piccolo scritto è allora offrire un breve sguardo sull’altro, quella nota a margine della filosofia, quel semplice sottinteso che qui vuole essere risignificato, rivalutato, riconosciuto in quanto imprescindibile e coessenziale al noi.

L’intrinseco ed ineliminabile filo che unisce identità e alterità, “noi” e l’altro, è fin da subito rintracciabile nel momento in cui ci poniamo la domanda sul suo significato. Banalmente, identico si riferisce a ciò che rimane sempre uguale a sé stesso, ciò che non è altro da sé. Notiamo così come nella stessa definizione di identità sia situato il suo rovesciamento o, per dirla con Hegel, notiamo come nella sintesi in quanto tale sia necessariamente presente la negazione della tesi, l’antitesi, che non è più solo la privazione della tesi, «il niente astratto»1, ma ha un suo statuto, è «un essere altro»2 e un suo valore specifico, perfino costitutivo. A riprova di questo gioco dialettico tra identico e altro, ci rendiamo conto di quanto nel processo di creazione del proprio Sé socio-individuale sia imprescindibile riconoscersi in un dato habitat relazionale, un ingroup, il quale non solo definisce chi siamo e l’immagine che di noi abbiamo, ma si costruisce proprio in contrasto rispetto ad un outgroup esterno: è ciò che accade quando ci si identifica in una prospettiva politica, sentendocisi di sinistra e per questo non di destra; in un gusto artistico, apprezzando il rock e meno gli altri generi musicali; nutrendo alcuni interessi rispetto ad altri e per questo configurandosi in una comunità più o meno ampia di soggetti che con noi condividono le stesse caratteristiche.

Eppure è al contempo vero che nonostante sia comprovata l’indispensabilità dell’altro, l’alterità finisce spesso per essere minimizzata e semplificata e a dircelo sono fatti storici, attenzioni disciplinari, il nostro stesso punto di vista. Può sembrare cosa da poco, ma il rischio di una sottostima dell’alterità ha come risultato un gravoso duplice effetto di risposta: quello di naturalizzazione della propria identità e quello di negazione dell’alterità. Si tratta di due dinamiche simultanee — e tutt’altro che esotiche o saltuarie — per cui proprio quando tendiamo a naturalizzare, cioè normalizzare e assolutizzare i nostri tratti identitari, andiamo a dimenticare e rimuovere ogni tipo di diversificazione intra- ed extra-sociale. Quando, ad esempio, iniziamo a ritenere, sia questo per conformismo o strumentalismo, la nostra idea di famiglia, sistema politico, credo religioso e qualsivoglia costume come il solo ed unico esistente o accettabile, ecco che inevitabilmente l’altro, colui il quale si caratterizza proprio per il suo non condividere quel tratto, si configura come anormale, stigmatizzabile, un errore da correggere o cancellare. In questo modo se ne disconosce l’esistenza o se ne delegittima la presenza, portando a un gravissimo esito per cui l’altro diviene un mero minus habens, una presenza elisa e deculturata, traducendosi nel barbaro per il greco o nell’ebreo per il nazista, nell’indigeno per il conquistatore, fino ad arrivare ad altri ingiustificabili avvenimenti, molti dei quali meno noti e lontani da noi.

Ci si rende immediatamente conto, allora, del portato politico della questione dell’alterità, ma ancora prima dell’importanza di un’apertura alla molteplicità, una disposizione alla variabilità culturale, una complessificazione dell’altro che non solo è molto più che un calco in negativo di ciò che noi siamo, ma ha a sua volta specificità: l’alterità ospita l’identità come l’identità ospita l’alterità, è questo ciò che ci insegna Francesco Remotti, che a questo tema ha consacrato la sua longeva attività parlando di «ossessione identitaria»3 e ricordandoci, con tanto di concreti casi etnografici, che così come in noi è vivo l’altro, per questo tutto fuorché eliminabile, l’altro merita un suo riconoscimento. Perché ciascuno di noi è l’ebreo (o il barbaro) di qualcuno — direbbe Primo Levi — e perché l’alterità non è un disvalore, ma qualcosa di molto di più, come afferma Lévinas.

 

Nicholas Loru – Filosoficamente

 

NOTE:
1. Cfr. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, §91.

2. Ibidem.
3. Cfr. F. Remotti, L’ossessione identitaria, 2010 e F. Remotti, Noi primitivi. Lo specchio dell’antropologia, 2009.

[Photo credit Priscilla Du Preez via Unsplash]

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“La tentazione del muro”: da Recalcati una bussola per il presente

«Se alzi un muro, pensa a ciò che resta fuori», scriveva Calvino nel Barone Rampante. È questa la posta in gioco quando si sceglie di rinunciare al “fuori”. Eppure inciampando in quel “pensa” si cade nella controversia di questa scelta: sarà proprio quel muro a stringere un doppio nodo con l’oltre lasciato fuori. L’esclusione non avviene soltanto attraverso barriere fisiche: può vivere anche e soprattutto nelle parole, in quel lessico in cui ognuno di noi viene naturalmente gettato. Il linguaggio ci dona identità, riconoscibilità, diversità. Ma il suo più grande dono è l’apertura.

Lo psicanalista-filosofo Massimo Recalcati nel suo libro ci pone davanti una tela di contrasti: la tentazione di alzare un muro è una pulsione assai frequente soprattutto nel lessico civile, quello della dimensione sociale, lo stesso che per sua natura incoraggia la relazione con l’Altro, senza il quale non potrebbe esistere. L’imprevedibilità del non conosciuto innescherebbe, infatti, l’insicurezza, la paura del nuovo. Per chiarirlo, Recalcati introduce il concetto simbolico di confine, depurandolo dalla rigidità con cui siamo soliti pensarlo: ognuno di noi nasce in uno spazio di massima sicurezza nel quale il proprio Io è libero di fiorire lontano da ogni rischio di contaminazione. Questo non luogo ha un perimetro, una linea di transito immaginaria che, pur rappresentando un limite, apre a un significato più ampio: il superare – valicare – per esporsi all’esperienza, al nuovo.

Ogni confine è quindi un potenziale muro: l’equilibrio sopravvive proprio in questa consapevolezza. Un confine stimola l’impulso all’esplorazione, fortifica quello della protezione: con un muro davanti a noi, al contrario, ogni possibilità risulterebbe serrata. Il superamento di questa impasse può verificarsi solo delineando «confini porosi» che ci assicurerebbero di vivere nell’orizzonte relazionale, preservando la nostra identità. La porosità per Bion, psicoanalista britannico, è il primo vero attributo del confine: una «barriera di contatto», un filtro che separa l’interno dall’esterno. Una porta che apre agli infiniti non-Io.

Recalcati potenzia l’eco di questa immagine: la forza del confine, scrive, risiede soprattutto «nello scambio, nella transizione, nella comunicazione con lo straniero: ogni confine definisce un’identità solo mettendola in rapporto con una differenza»1. In questo consiste la porosità che, venendo meno, lascia spazio alla staccionata, al filo spinato, al muro.

Da un punto di vista politico, «la singolarità appare continuamente impastata nella dimensione sociale»2: l’Io e l’Altro esistono grazie alla relazione che li definisce tali. Nel contesto sociale, quindi, la tentazione del muro intreccia inevitabilmente la pulsione alla libertà. Questa per Recalcati è una parola fondamentale, «se non ‘la’ parola fondamentale»3. È la forza centrifuga che ci spinge oltre il confine. Del resto, per dirla con Sartre, siamo da sempre condannati ad essere liberi: fin dalla nascita siamo «gettati nella libertà»4. L’Altro però, in questo contesto, gioca rispetto a noi un doppio ruolo. Vorremmo conoscerlo ma lo temiamo: sappiamo che è un «luogo di perturbazioni minacciose»5, eppure è grazie a questa alterità che riconosciamo la nostra identità. Nell’Altro che releghiamo dietro un muro si nasconde una parte di noi stessi di cui non eravamo a conoscenza, per timore respinta ma con la pulsione naturale a risalire a galla: noi stessi siamo altri nella misura in cui ospitiamo una piccola traccia di alterità e ne siamo contaminati. È questo il filo di Arianna che ci porta dritti al cuore del paradosso, alla rottura di ogni barriera: la libertà individuale è allo stesso tempo libertà degli altri, e non sussisterebbe senza lo slancio ad uscire dal confine dell’autoconservazione, della difesa del sé.

Al fianco della libertà, sul piano sociale, entra in gioco una seconda componente: la verità. Se nella dimensione collettiva scegliamo di reprimere verità alternative alla nostra, eleggendola ad unica valida, permetteremmo ad un regime totalitario di pensiero di minare pericolosamente il campo d’azione di ogni libertà. Una verità “roccaforte” non ammette confini porosi o differenze: la lezione proviene dagli anni del fascismo, in cui si è consolidata la tensione «a preferire l’obbedienza alla libertà, il muro al mare, la schiavitù alla responsabilità, l’ignoranza alla conoscenza, l’inciviltà dell’odio alla civiltà del patto e della parola»6.

L’impalcatura di un lessico così pensato che insegna a riconoscerci con e in quanto altri crolla come sabbia sotto la lente dell’attualità. Oggi una pandemia ha scansato via ogni porosità di confine: la tentazione del muro è diventata necessità per una ragione socialmente prioritaria, la protezione di tutti. Il lessico civile deve fare i conti con queste nuove disposizioni: libertà e verità individuali sono state chiamate ad autoregolarsi davanti alla legge. Il rischio è alto: la rinuncia dell’Altro, quindi di parte di noi stessi, e un ritorno seppur temporaneo al perimetro dell’individualità. È tutto qui il peso di questo contrordine: guardare alla libertà attraverso il vetro opaco di un muro, mettendo in sospeso l’animale sociale di matrice aristotelica che è in noi.

 

Manila Tortorella

Manila Tortorella, classe 1991, è laureata in Lettere moderne e in Scienze Filosofiche presso l’Università degli Studi di Padova, con un focus particolare sul rapporto tra linguaggio e filosofia politica. Lettrice appassionata, si occupa oggi di comunicazione e ufficio stampa a Milano.

 

NOTE
1. M. Recalcati, La tentazione del muro, Feltrinelli, Milano 2020, p. 15
2. Ivi, p.10.
3-4. Ivi, p.60.
5. Ivi, p.4.
6. Ivi, p.9.

[Photo credit unsplash.com]

Il non-luogo del linguaggio: le parole come atto di identità

Esiste una realtà mutevole – e talvolta relativista – in cui la sovranità appartiene alle parole, uno spazio impensabile: il non-luogo del linguaggio. Il linguista-filosofo Noam Chomsky, riconosciuto come il fondatore della grammatica generativo-trasformazionale1, attribuì al linguaggio una caratteristica nucleare che rende l’essere-nel-mondo, finalmente, umano. Descriviamo il mondo usufruendo di connubi lessicali. Ognuno così percorre la propria vita – a mo’ di tartaruga  – trasportandosi la casa dell’idioletto, ovvero l’intero bagaglio di strutture linguistiche che una persona possiede e adopera; e dall’incontro con l’Altro finisce per definire se stesso e ciò che lo circonda.

Nel non-luogo del linguaggio, l’essere-nel-mondo – come il demiurgo platonico – plasma se stesso; l’uso delle parole diventa un atto di identità. Si fa urgenza la capacità di destreggiarsi nel vortice delle parole e di possederne quante più possibili. La mancanza di una parola di riferimento sfocia immancabilmente in un impasse: fisico, psicologico, sociale. E dal momento in cui si rileva la mancanza che diventa urgenza, la norma necessita di essere interrogata e, in un secondo tempo, aggiornata. Perché si sa, ciò che viene nominato e “cartellinato” si vede meglio.
Ed ecco che si fa strada la posizione di alcuni gruppi di persone – settori del movimento femminista, attivisti LGBTQ+, individui che non si sentono rappresentanti nel binarismo – le cui idee si originano dal concetto secondo cui l’affermazione di un’essenza si traduce in esistenza. Mi identifico, dunque esisto.

L’onomaturgo improvvisato, colui che crea neologismi, tenta di illuminare la ristrettezza della lingua e l’inconveniente provocato. Inizia così a sperimentare un’alternativa o più: asterisco, barra, punto, schwa2. Cerca pertanto di riempire un vuoto, dando forma a un’esistenza: la propria. La sua bandiera è l’inclusione linguistica, in tutte le sue sfaccettature. E se, da un lato, vi è la possibilità di apportare una modifica alla norma linguistica, dall’altro, la lingua la costituiscono i parlanti; i quali – però – talvolta restano arenati nell’abitudine. Ed è così un circolo vizioso, per esempio, le parole: medica, avvocata, sindaca, esse trattengono una nota stonata nel pensiero di molti.

L’onomaturgo improvvisato tuttavia non si arrende. Crede al “discontinuo” – il fatto che una cultura possa cessare di pensare come aveva fatto fino a un dato momento e si mette a pensare diversamente, in altro modo. Diviene così possibile pensare a una realtà in cui la normalizzazione grammaticale e parlata di talune parole renda chiara la rappresentazione del reale e ne affermi la sua totale esistenza. Dopotutto la realtà è immersa in un eterno divenire, e così anche la lingua che la descrive si rinnova continuamente.
L’onomaturgo improvvisato non demorde nella sua impresa poiché conosce il potere delle parole. Attraverso la dinamicità di queste ultime è possibile compiere vere e proprie azioni. Le parole, infatti, non si cristallizzano nel non-luogo del linguaggio, bensì lacerano la tela immaginaria e giungono nel mondo tangibile del reale. La “medica” dichiarando il decesso rompe il silenzio, e il potenziale gatto di Schröedinger abbandona il suo limbo per abbracciare una definita condizione.
L’onomaturgo improvvisato ha così compreso che siamo i soli parlamentari nel non-luogo del linguaggio, ove le parole che scegliamo o non scegliamo di adoperare regnano sovrane.

 

Jessica Genova

 

NOTE
1. Per grammatica generativo-trasformazionale si intende la grammatica che si sviluppa seguendo la tradizione chomskiana della descrizione linguistica. Chomsky afferma che la grammatica è una competenza mentale posseduta da colui che parla che gli permette di costituire un numero illimitato di frasi.

2. Lo schwa viene definito dalla Treccani come un suono vocalico neutro, non arrotondato, senza accento o tono di scarsa sonorità. Cfr. Treccani

[Photo credit Brett Jordan via Unsplash]

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“African genesis”: Valentin Mudimbe e il problema della filosofia africana

Tra i maggiori esponenti della moderna filosofia africana, Valentin Mudimbe ha indagato le modalità discorsive con cui la ricerca occidentale ha plasmato l’immagine dell’Africa nel tempo. Ripercorrendo la storia delle esplorazioni, i diari dei conquistatori, le tavole illustrate, la geografia, ma soprattutto l’antropologia, Mudimbe ha ricostruito un’archeologia della cosiddetta «colonizing structure»1, un filtro cioè attraverso cui l’Occidente coloniale ha cercato di rendersi comprensibile la diversità delle popolazioni che incontrava.

Questo filtro ad esempio ha stereotipizzato il concetto di tribù, connotandolo di una staticità che lo relega fuori dal tempo storico. Ma soprattutto il filtro aveva delle precise intenzioni politiche: riorganizzava lo spazio degli altri, le loro categorie, i riferimenti, la loro vocazione sociale e spirituale, avviando una metamorfosi tragica che puntava all’inglobamento della loro economia nel sistema economico proprio. Questo processo continuò anche dopo lo smantellamento degli imperi coloniali. L’Occidente è infatti spesso intervenuto per manovrare gli andamenti politici degli stati neonati, soprattutto nell’ambito della guerra fredda – si vedano a tal proposito gli omicidi di Patrice Lumumba e di Thomas Sankara, due dei più importanti politici democratici e riformisti, o gli appoggi internazionali concessi a dittatori come Joseph-Désiré Mobutu e Jean-Bedel Bokassa. Allo stesso tempo però molti leader africani del post-indipendenza, come i succitati dittatori, attizzarono questi interventi perché gli portavano notevoli benefici e rafforzavano le loro reti clientelari.

In questo senso Mudimbe parla di invenzione dell’Africa; e non solo nel senso antropologico e politico, perché anche l’immaginario stesso, tanto degli occidentali quanto degli africani, venne arrangiato secondo gli strumenti della colonizing structure. Tali metamorfosi risultarono poi in un trauma da snocciolare e da sconfiggere. Ecco allora l’Africa trovatasi costretta a raggiungere un certo senso di “modernità”, a riconsiderare se stessa secondo visioni estranee in nome del “progresso”, a cercare di riconquistare la propria identità sottratta da oltre un secolo di “civilizzazione”. L’Africa che si deve confrontare col suo simulacro, fabbricato da spiriti che non sono i suoi.

Questa condanna si rifletté soprattutto nella tradizione filosofica post-indipendenza (e degli anni di poco precedenti): vi sono discorsi sulle relazioni con l’Europa, confronti col proprio dramma linguistico, argomenti volti a svincolare il continente africano dai paradigmi delle scienze interpretative occidentali super-imposte, ma molto raramente appaiono filosofie particolari e locali. L’esempio del CODESRIA2 è a tal proposito lampante: costituito nel 1974 all’interno di un’organizzazione africana per lo sviluppo dell’economia (IDEP), aveva come scopo quello di decostruire i concetti delle scienze sociali occidentali per sviluppare alternativamente dei paradigmi africani. Si intendeva così emancipare le identità delle numerosissime popolazioni africane dagli echi ancora vivi della colonizing structure3. Ma come sostiene anche la classificazione discussa da Thandika Mkandawire, si è ancora nel contesto delle prime due generazioni di intellettuali africani – quelle cioè dove le riflessioni sono volte al confronto col trauma, e che sono caratterizzate da una fuga massiccia di cervelli verso gli altri continenti. È proprio lui che descrive questa stagione del pensiero come un fuoco di sbarramento terminologico4.

Le eccezioni però sono interessanti: Julius Nyerere ad esempio, primo presidente della Tanzania, riuscì a migliorare nettamente l’alfabetizzazione (in swahili) della popolazione e l’accesso ai servizi fondamentali facendo leva sul concetto di ujamaa, ossia di “famiglia allargata”, termine atavico che si richiama ai valori della collettività e dello sforzo comune, in nome di una specie di socialismo africano. Interessanti poi gli spunti della filosofia popolare: il detto zulu umuntu ngumuntu ngabantu, che significa “una persona è tale solo attraverso le altre persone”, incoraggia l’uguaglianza e la reciprocità, perché, nelle parole dell’arcivescovo sudafricano Desmond Tutu, “abbiamo bisogno degli altri esseri umani per essere umani”.

Tutte queste voci, a partire dalla scoperta dell’invenzione dell’Africa, concorrono nell’auspicare dei necessari scardinamenti intellettuali. Per Mudimbe ragionare su questo significa riscoprire le verità del continente, e per noi occidentali – nella più ampia prospettiva – rinunciare alla storia per far parlare le storie. Se ascoltassimo quanto i cosiddetti “altri” hanno da dire (cosa vuol dire pensare ancora agli “altri”? Perché devono esistere?), allora lo spirito occidentale capirebbe quanto ha sbagliato a non ascoltare mai nessuno.

 

Leonardo Albano

 

NOTE:
1. V. Mudimbe, The Invention of Africa, 1988
2. Council for the Development of Social Science Research in Africa.
3. J-L. Amselle, Il distacco dall’Occidente, 2009
4. 
T. Mkandawire, Extrait du rapport du secrétaire exécutif

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Una citazione per voi: Hegel e la razionalità del reale

 

• CIÒ CHE È RAZIONALE È REALE, E CIÒ CHE È REALE È RAZIONALE •

 

È una delle affermazioni più riportate e citate del filosofo George Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831), massimo esponente dell’idealismo tedesco del XIX secolo.

Tale asserzione, principio fondamentale del pensiero hegeliano, è posta dall’autore tedesco nella Prefazione all’opera Lineamenti di filosofia del diritto (1820), che costituisce una sorta di summa del pensiero etico-politico dello stesso Hegel.

Questa celebre, quanto arcana, affermazione rimanda alla convinzione hegeliana che tutto ciò che è (il reale) è ragione realizzata (razionalità per l’appunto). Ciò che è avvenuto e quanto accade è giusto che sia avvenuto e che, in qualche modo, accada. Per comprendere meglio il significato di tale espressione può essere utile servirci di un esempio storico coevo allo stesso Hegel. L’iniziale trionfo di Napoleone in Europa e il suo dominio su diversi popoli e territori stanno a significare che tale era il disegno dello spirito del mondo (Weltgeist) nel suo svolgersi progressivo: quanto accaduto è avvenuto in quanto razionale. Tale è il piano di sviluppo storico. Diversamente, ciò che nella storia non si realizza è dovuto al fatto che è privo di razionalità.

Consapevole delle controversie alle quali può dar adito una simile affermazione, Hegel ne precisa il contenuto nell’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio (1830). Qui, l’autore specifica che per realtà (Realität) non è da intendersi il mero accadere, bensì quei grandi e significativi eventi che hanno segnato in maniera indelebile il passo della storia. Per questo il filosofo tedesco invita a distinguere fra eventi effettuali (Wirklichkeit) – per esempio fatti privati e insignificanti per la storia – da eventi forti e intrisi di ragione capaci di modificare il corso della storia, come per esempio gli eventi legati alla figura di Napoleone.

Con la consapevolezza di non poter compendiare un’asserzione densa di significati e implicazioni logiche e filosofiche particolarmente complesse in così poco spazio, è possibile sostenere, sinteticamente, che l’intento hegeliano è quello di evidenziare l’identità fra ragione (o pensiero) e realtà. Ciò che è razionale non è affatto un concetto astratto ma si attua nella realtà concreta e in essa è riscontrabile. Al contempo, l’esistente è espressione della ragione: nella realtà ogni evento segue un ordine razionale e rispecchia una struttura di pensiero. Quanto avviene è razionale, naturale e giusto. Da questo consegue la missione della filosofia, paragonata metaforicamente da Hegel alla civetta di Minerva che si leva sul far del crepuscolo, al tramonto di una stagione, ad eventi accaduti, per giustificarne la razionalità. Tale è l’esito, certamente discutibile e pertanto ancor oggi fonte di considerazione e stimolo di riflessione, della celebre asserzione hegeliana.

 

Alessandro Tonon

 

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Specchio come oggetto, specchio come funzione, specchio come filtro

«Credule, quid frustra simulacra fugacia captas?/ Quod petis, est numquam; quod amas, avertere, perdes./ Ista repercussae, quam cernis, imaginis umbra est: nil habet ista sui: tecum venitque manetque,/ tecum discedet, si tu discedere possis»1: questi versi tratti dal III libro delle Metamorfosi di Ovidio descrivono il delirio di Narciso conseguente all’innamoramento dell’immagine, bellissima e evanescente, riflessa in uno specchio d’acqua. Narciso, al contrario di Eco, ama solo se stesso, è l’identità assoluta che non conosce alterità. 

Con riferimento alla teoria lacaniana dell’étade du miroir, Narciso inizierebbe a costruire il proprio “io” un po’ tardi: è infatti tra i sei e i diciotto mesi che il bambino riesce a riconoscere la propria immagine riflessa elaborando un primo abbozzo del proprio “io” seppur in modo confuso e in stretta dualità con la madre. Secondo Lacan, il bambino, di fronte a uno specchio, reagirebbe dapprima esattamente come Narciso, come se si trattasse cioè di una realtà a sé che si può afferrare, per accorgersi solo dopo che si tratta invece di un’immagine, la propria, ritenuta tale perché diversa da quella dell’adulto che lo tiene in braccio. E sono lo sguardo e la conferma verbale della madre, cioè dell’altro, che iniziano a definire il bambino in modo autonomo: l’antitesi è dunque necessaria per la formazione e l’affermazione dell’“io”, auspicabilmente senza cadere nel compromesso della sintesi hegeliana o nella follia pirandelliana di una frammentazione dell’identità all’infinito. 

Non intenderei lo “specchio” solo in un’accezione letterale come oggetto materiale ‒ sia quello di Narciso, di Lacan o di Grimilde – ma anche in senso metaforico, cioè come “funzione specchio”, rilegata a ciò che è “altro dall’io”, tanto con una valenza linearmente speculare, di sola affinità – quante volte ad esempio ci capita di sentire frasi come “quella canzone riflette il mio stato d’animo”? – quanto con una valenza più scabra, di scontro e incontro, di conoscenza e potenziamento del proprio io.  

A riguardo, nelle cosiddette Lettres du Voyant Rimbaud ribadisce la celebre affermazione «Je est un autre»: il poeta di Charleville attaccando la poesia soggettiva dei Parnassiani delinea una visione orfica del poeta, da considerarsi non un’entità piena al centro del reale, ma strutturata dall’esterno, che, attraverso quel «dérèglement de tous les sens», trascende l’io e perlustra l’ignoto ‒ «C’est faux de dire Je pense: on devrait dire On me pense».

Se in Rimbaud la postura oracolare pone l’imperativo per il poeta di trovare una lingua nuova, quella «langue de l’âme pour l’âme», la lingua delle correspondances, la dialettica io/altro – insita nell’etimo stesso del termine “persona” appunto intesa come “maschera”, come le dramatis personae dell’attore di teatro ‒ è invece trattata da una prospettiva psicanalitica da Ingmar Bergman in un capolavoro meta-cinematografico e stilisticamente postmoderno ante litteram, Persona (1966). 

Con un montaggio scarno ed essenziale, quasi una tragedia teatrale divisa in atti dalla scena della mano bucata dal chiodo, ripetuta per tre volte a mo’ di sipario, Persona porta sullo schermo l’animo umano, fluido e contraddittorio, assettato di amore e di verità. «[] Tu insegui un sogno disperato Elizabeth, questo è il tuo tormento. Tu vuoi essere, non sembrare di essere []»: questa la diagnosi fatta all’attrice Elizabeth Vogler sul suo clinicamente inspiegabile mutismo, iniziato durante la recitazione dell’Elettra come tentativo psicosomatico di svuotare di senso la propria esistenza. Durante una convivenza a scopo terapeutico con la giovane infermiera Alma al mare, fatta di fluviali flussi di coscienza di quest’ultima, le due donne si fondono e si confondono in un caos dionisiaco, in una casa senza calendari né orologi, in una geniale inquadratura che accosta le metà illuminate dei due volti creando un unico essere umano aberrante quanto meraviglioso. Le due donne si fanno da specchio, da schermo di proiezione l’una dell’altra, rivelando le reciproche ombre nascoste e dimostrando che la presenza dell’altro è uno scacco per il mantenimento di un frammento di “io”. Un film, che mediante la tecnica della mise en abîme spinge il cinema al limite di se stesso, laddove il linguaggio e la luce verrebbero meno, per affermare l’arte come forma più autentica di esistenza per non soccombere alla follia e alla morte. Lo specchio dunque può essere inteso come filtro che rilega al di qua, nella vita: oltre il linguaggio e la luce, e quindi oltre la menzogna e l’ombra, il vuoto.

 

Rossella Farnese

 

NOTE

1.Ingenuo, perché ti affanni a cercar di afferrare un’ombra che ti sfugge? Non esiste quello che cerchi! Voltati, e perderai che ami! Quello che vedi non è che un tenue riflesso: non ha alcuna consistenza. E viene con te, resta con te, se andrà con te, ammesso che tu riesca ad andartene!»] Ovidio, Le Metamorfosi, trad. it. di Giovanna Faranda Villa, Milano, Bur, 2007, pp. 194-195
 2. A. Tonelli, Sulle tracce della sapienza. Per una rifondazione etica della contemporaneità, 2009, p. 33.

[immagine tratta da Unsplash]

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Quello che manca. Una riflessione sui valori e sulle identità

Ogni paese ha i suoi eroi, e uno dei più pittoreschi e affascinanti della Bretagna francese è indubbiamente il corsaro Robert Surcouf, l’uomo che osò rifiutare il capitanato da Napoleone in persona per tutelare la propria libertà. Veloce di lingua come di spada, Surcouf è protagonista di moltissimi aneddoti più o meno credibili, e uno di questi lo vede impegnato in una conversazione con un ufficiale della Reale Marina Inglese durante una cena diplomatica: “Voi francesi combattete solo per il denaro”, aveva altezzosamente detto il soldato di carriera al corsaro, “mentre noi inglesi combattiamo per l’onore”. Affatto intimorito, Surcouf rispose: “Ognuno combatte per ciò che più gli manca”.

Mettendo da parte gli applausi per la pronta risposta, non è difficile vedere più che un fondo di verità nelle parole del futuro Barone Surcouf. Senza muoversi su conflitti troppo lontani storicamente, si può considerare come un motto simile possa applicarsi benissimo sia alle rivendicazioni di indipendenza e giustizia dei manifestanti di Hong Kong sia a quelle più “monetarie” e di riconoscimento sociale dei Gilet Gialli in Francia, alle manifestazioni ecologiste di Fridays for Future o Extinction Rebellion e ai sit-in per la riapertura delle miniere di carbone in Ohio. Indipendentemente dalla causa per cui si combatte, è (quasi) sempre una mancanza, percepita o reale, a spingere alla lotta, più o meno violenta, più o meno solitaria, più o meno efficace.
Tra tutte le forme di conflitto che caratterizzano la nostra epoca, dunque, sarebbe interessante rivalutare alla luce di questo assunto anche altre forme di lotta popolare che sono state interpretate in maniera diametralmente opposta, come il terrorismo fondamentalista, di matrice religiosa o identitaria o anche nazionalista-xenofoba.

Tra le molte voci giunte a commentare l’insorgenza di movimenti xenofobi oltranzisti, e precedentemente l’aumento dei cosiddetti foreign fighters e di cittadini diventati terroristi nei paesi europei, numerose sono state quelle che hanno parlato di “rinascita” delle ideologie, di “ritorno” delle (o alle) identità forti. A posteriori, a fronte di un crollo verticale nel numero degli attentati e di un indebolimento strutturale di molti nazionalismi, si potrebbe ipotizzare invece l’esatto contrario.

La società liquida teorizzata da Zygmunt Bauman ha definitivamente minato le basi di ogni identità che si voglia presentare come “forte”, sostituendo patriottismi, appartenenze religiose, ideologie politiche e perfino scuole filosofiche con un continuo e instabile turbinio pluralista e relativista di concetti, opinioni e identità temporanei e instabili, senza alcun valore prominente l’uno sull’altro, senza alcun punto di riferimento ideologico fisso. In questo mare magnum di suggestioni e impressioni, deculturalizzate e deradicate, il conflitto stesso non può più ancorarsi a grandi narrazioni del mondo per autosostenersi, e ricade dunque automaticamente nel regime della mancanza cui si riferiva sagacemente Surcouf.

Può darsi, quindi, che la nascita di movimenti politici e sociali fieramente xenofobi, nazionalisti e identitari non sia l’espressione di un ritorno dei patriottismi nazionali moderni, quanto piuttosto il segno di spaesamento e confusione di persone che non ritrovano più radici etnico-razionali in un mondo irreversibilmente interconnesso e globalizzato. Analogamente, se alcuni ragazzi nati e cresciuti, ad esempio, nella laicissima Francia, si “convertono all’islam” e si radicalizzano in forme di terrorismo urbano violento, potrebbe non essere il segnale di un ritorno delle grandi religioni sulla scena mondiale, ma al contrario la concretizzazione del disagio di chi non trova più spazio né senso del sacro in società ormai quasi del tutto secolarizzate.

 

Giacomo Mininni

 

[Foto realizzata dall’autore alla torre di Londra]

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