Il coraggio di pensare: Francesco Pastorelli su come insegnare la filosofia

In molti incontriamo la filosofia per la prima volta a scuola, normalmente al terzo anno di superiori. È quella strana età in cui smettiamo di essere adolescenti brufolosi e supponenti e iniziamo lentamente a diventare adulti e a porci qualche domanda in più su noi stessi e sulla vita. C’è chi in quel periodo avverte le questioni filosofiche come quanto di più astratto e lontano dalla proprie preoccupazioni, ma altri sentono invece che le proprie domande, il proprio sguardo meravigliato sul mondo, sono in fondo gli stessi della filosofia. E allora si innamora di quella disciplina.

Affinché questo accada è necessario un insegnante capace di appassionare e di chiarire anche gli autori più difficili, ma anche un manuale che svolga la stessa funzione, sapendo essere al tempo stesso chiaro e stimolante. Ma come si fa a mantenere un equilibrio tra questi due elementi? E cosa si nasconde dietro ad un manuale di filosofia? Lo abbiamo chiesto a Francesco Pastorelli, caporedattore del settore filosofia e scienze umane della casa editrice Loescher, che dopo una laurea su Spinoza e un dottorato su Shaftesbury alla Normale di Pisa ha iniziato a lavorare nel mondo dell’editoria.

 

Buongiorno Francesco, la prima domanda riguarda appunto la conciliazione tra elementi diversi che devono essere presenti in un manuale: lo scopo principale di un buon libro di filosofia dovrebbe essere rendere appassionante la materia o spiegarla in maniera semplice e lineare? Si può raggiungere un equilibrio tra i due elementi?

In realtà un buon manuale scolastico (qualunque, non solo di disciplina filosofica) dovrebbe sempre poter offrire un testo chiaro e appassionante, anzi: ci si appassiona alla lettura e allo studio quanto più si comprendono le cose in modo immediato, anche quando complesse. La filosofia tratta tematiche che attraggono naturalmente ogni studente: riuscire ad allontanarli offrendo un testo impenetrabile sarebbe davvero un peccato mortale! Credo che si possa dire di aver raggiunto l’equilibrio che citi nella domanda quando uno studente, dopo aver letto il manuale, ha (anche solo un pochino) voglia di leggere altro oltre il manuale. Il manuale dovrebbe essere una chiave per entrare in altri posti dove non si è mai stati, e che forse non avresti mai visitato senza il manuale.

 

Non c’è mai il timore che semplificando un autore per spiegarlo si tradisca la complessità del suo pensiero? Come si fa ad esempio a rendere comprensibile per un manuale scolastico pensatori ostici come Heidegger o Husserl?

L’autore sa scrivere un buon manuale quando dimentica di essere egli stesso un autore, ma si mette al servizio sia del filosofo che intende spiegare, sia del lettore finale. Tutto questo non intacca ovviamente l’originalità dell’impostazione (taglio concettuale, scelta antologica ecc). Ma un manuale “difficile” spesso cela un autore che non vuole scomparire e ha difficoltà a mettersi al servizio di un progetto didattico. Tutto sommato, direi, è anche una questione etica. L’autore di un manuale dovrebbe essere sempre un mediatore tra questi due mondi: l’oggetto che deve spiegare e il soggetto cui deve spiegare. 

 

In Italia si fa quasi sempre e solo storia della filosofia, non hai mai pensato di realizzare per la scuola invece un libro di filosofia? Ad esempio un manuale che, invece di partire da Talete per arrivare a Derrida, affronti delle macro-sezioni (la politica, l’amore) in cui contrappone i pensieri dei diversi autori? Sarebbe possibile farlo in Italia?

Non proprio, non ora. Le indicazioni ministeriali non hanno ancora scardinato un impianto che per consuetudine e indicazioni stesse rimane sostanzialmente storico-cronologico. Ma un po’ tutti i manuali, in realtà, offrono interessanti spunti tematici, anche interdisciplinari, pur senza arrivare al modello francese.

Nell’aria filosofica Loescher sta pubblicando proprio ora un’interessante novità, che sarà tra i banchi di scuola il prossimo anno scolastico. Si tratta di un manuale firmato da Umberto Curi, uno dei filosofi italiani contemporanei di maggior peso.

 

Volevamo chiederti qualcosa su questo nuovo manuale. Partiamo dal titolo, Il coraggio di pensare, che ricorda la massima kantiana del sapere aude. In che senso oggi bisogna avere coraggio per pensare filosoficamente e perché è importante insegnare questa audacia ai ragazzi?

Quando si progettava il manuale, ci sembrava importante che i ragazzi capissero che il mondo non si cambia da soli, ma con gli altri (oltre che per gli altri). Ma per fare le cose con gli altri, occorre condividere le idee (e quelle argomentate sono le più condivisibili, per loro natura), e quindi le parole che si usano per esprimerle. Idee (quindi parole) condivise, argomentate, discusse: queste cambiano il mondo. Se si capisce, si restituisce dignità e peso alle parole, e alle conseguenti azioni che esse possono generare. Se pensare vuol dire generare azioni, allora pensare è altamente responsabilizzante: come potrebbe non incutere timore e quindi non pretendere, il pensiero, una certa dose di coraggio?

 

In breve, qual è l’aspetto di questo manuale che ritieni meglio riuscito, e quale è l’elemento di maggiore novità rispetto alla concorrenza?

Abbiamo puntato moltissimo su due aspetti: un testo estremamente rigoroso (si ragiona sempre, non esistono idee offerte al lettore come fossero verità scolpite nella pietra) e al contempo formativo: abbiamo cercato infatti di mostrare il carattere ancora vitale di certe idee filosofiche, che hanno dato forma alla nostra vita e alle nostre convinzioni anche senza che noi stessi ne fossimo consapevoli, e come i grandi pensatori hanno cercato di mostrare le loro vie per diventare maggiorenni, ovviamente in senso intellettuale. Un bello stimolo, per ragazzi che stanno per diventarlo in senso anagrafico.

 

Come è stato collaborare con un autore importante e affermato come Umberto Curi? Il professor Curi ha sempre insegnato all’università, come avete fatto ad adattare la sua metodologia ad un manuale per la scuola superiore?

L’editoria scolastica è un’editoria di progetto: lo si condivide con l’autore e lo si porta avanti, e ognuno ovviamente (tanto l’editore quanto l’autore) ha fatto le proprie rinunce, ma sempre, e questo è il bello, in vista di un fine più alto: un progetto funzionale e valido, adatto per i docenti e gli studenti. Lavorare con Curi è stato molto divertente (anche se non sono certo mancati i momenti di tensione) perché si partiva da un assunto iniziale interessante: Curi, all’università, ha sempre dissuaso gli allievi dall’acquisto di qualsivoglia manuale, perché nessuno avrebbe potuto restituire il carattere vivo, formativo e dialogico che ha la filosofia “praticata”. I manuali a suo dire insegnavano pensieri, non a pensare. Se ha accettato di essere l’autore di un manuale scolastico è perché abbiamo condiviso e realizzato un progetto che finalmente, per la prima volta, ambiva a insegnare a pensare e non a snocciolare opinioni filosofiche.  

 

Chiudiamo infine con una domanda che siamo soliti fare a tutti i nostri ospiti: che cos’è per te la filosofia?

Prima di entrare nel mondo dell’editoria, ho insegnato per un anno in un liceo torinese e durante quel periodo mi fu chiesto di scrivere un articolo sulla filosofia per la rivista della scuola. La cosa mi spiazzò: dopo aver studiato e scritto per anni intere pagine su poche parole di alcuni filosofi, avevo perso di vista il senso generale dell’esercizio filosofico, ma la genericità della richiesta in realtà mi fece bene. E torna utile ora per rispondere. A farla breve: a nessun uomo basta respirare, bere e mangiare per essere felice o almeno sereno. Riflettere su se stessi e gli altri, sulle relazioni, “curare” l’interiorità con metodo ed esercizio (l’insegnamento di Pierre Hadot rimane insuperato) è qualcosa a cui gli uomini non possono rinunciare. C’è una gran differenza tra sopravvivere e vivere: la filosofia è quella differenza, e riesce ad esserlo senza costruire barriere, ma anzi abbattendole.

 

Lorenzo Gineprini

 

banner-pubblicitario_la-chiave-di-sophia_rivista

 

Il peggior vizio filosofico

Se sforziamo un attimo la memoria e ricordiamo come da bambini ricostruivamo nella nostra mente il mondo e il suo funzionamento, o anche il modo in cui fingevamo ingenuamente di comprendere le spiegazioni dei genitori o delle maestre riguardo il ciclo delle stagioni, la digestione umana, la formazione delle nuvole e l’espansione dell’universo, capiamo di aver avuto a che fare allora con un mondo nient’affatto chiaro nel suo accadere ma comunque in qualche modo attraente e coinvolgente, pur nella sua aleatorietà.

Il bambino infatti cerca assiduamente una spiegazione a ciò che gli si mostra, ma non sa ancora che dovrà tradurre le caleidoscopiche sensazioni che prova in linguaggio razionale perché le cose e la loro rappresentazione combacino e si possa dire di conoscere. Per cui, possiamo dire, il mondo della nostra infanzia era qualcosa di sospeso tra il nostro sentirci a nostro agio nella quotidianità e al contempo essere in balia di un silenzioso flusso ignoto, spiegato in modo ambiguo nella nostra testa. La lenta fuoriuscita (che sia avvenuta davvero è tutto da vedere) da questo stato, attraverso la ricerca immersi nel mondo stesso, comporta la crescita dell’individuo e della specie di cui fa parte.

Nel corso dei tempi la figura dell’uomo che si interroga sul perché e il come del mondo, il filosofo, non è rimasta la stessa. La storia filosofica ha visto scienziati, poeti, politici, criminali, preti e suicidi alla propria corte, dando comunque l’impressione di continuità nel suo svolgimento storico e nell’oggetto della sua indagine. In questo lungo e articolato processo, tra le mille cose che dovremmo imparare da chi prima di noi è stato toccato dal destino del pensiero, una in particolare tornerebbe molto utile oggi: l’inclinazione naturale all’osservazione del mondo.

Percorrendo la lista dei nomi degli antichi filosofi e dei loro scritti, anche solo in pochi frammenti, vediamo immediatamente che insieme a quelle riflessioni metafisiche o teoretiche e che ancora oggi sono un vivo riferimento per il nostro sapere, sta una grosse mole di scritti fisici, medici, biologici, politici, magici, mitici, che oggi sono ovviamente sorpassati dal punto di vista della loro scientificità, ma che danno l’idea della tensione dell’uomo verso il mondo e la sua volontà di interpretarlo e comprenderlo appieno.

Aristotele ha lungamente scritto sulla riproduzione degli animali, sul moto degli astri, sul corpo umano, sull’economia e sulla botanica; lo stesso si può dire di Ippocrate, medico ricordato più per il suo atteggiamento scientifico ed etico; o per gli studi geologici e astronomici di Kant o gli studi poco noti dei giovani Husserl e Heidegger sulla matematica. Queste incursioni in quelli che oggi sarebbero campi del sapere differenti, erano uniti, soprattutto in antichità, e coesistevano o precedevano addirittura la speculazione filosofica del mondo. Come infatti sarebbe stato possibile per Aristotele o Kant formulare la dottrina delle categorie senza aver prima studiato singolarmente i generi della natura da riunire nelle categorie? E come avrebbe potuto pensare Platone alla dottrina delle idee senza aver notato tutte quelle ricorrenze che appartengono a fenomeni naturali distinti?

Tutto questo si scontra con quella che invece va diventando il ritratto del filosofo contemporaneo a livello almeno di coscienza comune.

Il filosofo di oggi tende ad essere lontano dal mondo scientifico, troppo specialistico e a sua volta chiuso in se stesso. Tende dunque a non addentrarsi troppo nelle questioni astronomiche, economiche, chimiche del mondo, ma allo stesso tempo non rinuncia, legittimamente, a tendere verso il senso unico, la Legge, il principio del mondo stesso. Rifugiandosi spesso nel comodo esistenzialismo spiccio della propria persona, amplificando il proprio sentire a legge universale, dimenticando che l’esistenzialismo autentico poggia e non è separato dallo studio e dalla comprensione delle cose del mondo nella loro variegata essenza e scientificità.

Il filosofo odierno ha questo come rischio principale: la non comprensione dei mezzi che oggi realmente e al meglio spiegano il mondo e la fuga verso un sapere quasi privato, che esclude a priori il principio della conoscenza che invece muoveva la nostra curiosità infantile e che ha smosso intere culture antiche e recenti. Principio che spesso fornisce una spiegazione incompleta di ciò che si osserva ma che al contempo offre un’idea di mondo che può ancora curiosamente angosciare ma anche affascinare. Se si ritiene che la filosofia abbia perso il proprio appiglio con il mondo è sicuramente necessario che si ritrovi uno sguardo curioso e non solo giudicante per il proprio dire e pensare, provando a immergersi nelle forme di sapere di cui oggi disponiamo. Con la saggezza leggera dei bambini e la concentrazione degli antichi sapienti.

 

Luca Mauceri

 

[Immagine tratta da Google Immagini]

banner-pubblicitario-03

Sebastiano Zanolli e Giacomo Dall’Ava: alla ricerca delle doti per ottenere risultati

Il festival filosofico della città di Treviso prosegue.
Pensare il presente: già dal titolo si sente il bisogno di qualcosa di tremendamente attuale, vivo nei nostri giorni e insidiato nelle dinamiche che affrontiamo.
Sebastiano Zanolli e Giacomo Dall’Ava danno uno schiaffo crudo e secco ai nostri pensieri, ancora annidati sulle riflessioni di Latouche e Galimberti.
L’incontro Intenzionalità e mercato è stato diverso, è stato volutamente più pratico e diretto, colloquiale. I due relatori hanno portato in scena una riflessione diversa. Al di là di quello che è teoricamente perfetto ed eticamente condivisibile, cosa serve per fare la differenza nella nostra società? Come possiamo ottenere dei risultati solidi, immersi e sommersi nella società liquida?

Sono partiti dalla piazza del mercato di Marrakech, Jamaa el-Fna, un coacervo di venditori che riescono a farti finire con le braccia piene di borse e di acquisti. Ancora una volta siamo stati vittime di un sistema e non abbiamo esercitato la nostra intenzionalità. Non ci siamo imposti, non siamo riusciti a far emergere quello che davvero volevamo, la nostra intenzione.
Ma in fondo cos’è tutto questo parlare sull’intenzionalità?
A partire dalla fenomenologia (poggiando in punta di piedi su Brentano e Husserl), l’intenzionalità è l’attitudine del pensiero ad avere sempre un contenuto, a essere essenzialmente rivolto ad un oggetto, senza il quale il pensiero stesso non sussisterebbe. Allora eravamo intenzionalmente attivi anche quando eravamo pungolati e accerchiati da venditori che ci facevano comprare ogni cosa che ci mettevano in mano. L’intenzionalità è quella proprietà della mente che ci fa tendere verso un oggetto, che esista materialmente o no, poco conta, basta essere lì concentrati a pensarci.
Sono stati interpellati poi due filosofi contemporanei, Searle e Bratman, che garantiscono che per fare intenzionalmente un’azione, basta fare qualcosa per cercare di raggiungere l’esito di quell’azione. Allora filosoficamente il risultato non conta, l’importante è partecipare ed essere intenzionalmente coinvolti nel cercare di raggiungere uno scopo.

Il mercato è molto più severo, è l’unico giudice che ci guarda dall’alto e ci smista a destra e a sinistra: da una parte il risultato e il successo e dall’altra il fallimento.
Lì le intenzioni non contano, conta il risultato. Nel mercato non basta mettere in atto dei tentativi, perché verremo valutati soltanto per l’esito che riusciremo a raggiungere.
L’intenzione però può essere la miccia che ci mette in moto, che ci innesca e che ci fa partire nel tentativo di migliorare e cavarsela egregiamente.

Dovremmo però seguire alcuni punti costanti che Zanolli ha raccolto nel corso della sua vasta esperienza. Ha portato al pubblico l’essenza dei comportamenti che negli anni ha visto essere efficaci, utili, concreti e diretti al risultato.
Entrambi i relatori si allontanano dal tracciare cosa sia giusto e cosa sia sbagliato, ma cercano di mostrare come funzionano attualmente le cose. 
Per cercare di uscire dal marasma del mercato in cui siamo troppo spesso attori passivi, Zanolli e Dall’Ava propongono cinque doti per fare la differenza:

  • Chiarezza degli obiettivi: per partire con un progetto di qualunque tipo occorre strutturare al meglio l’obiettivo a cui vogliamo arrivare. Avremo modo di cambiarlo, ma anche questo fa parte del processo di struttura del proprio obiettivo.
  • Flessibilità: e contaminazione. Cercare il filo rosso che unisca in maniera nuova e inedita le idee che ci vengono in mente, le soluzioni che sicuramente qualcuno avrà già trovato: ma noi possiamo trovare una maniera diversa e creativa di metterle assieme.
  • Cambiamento: apertura alla diversità, da costruire su nuove conoscenze, competenze, abitudini e attitudini. Tutto è sottoposto al cambiamento e possiamo direzionarlo verso il nostro obiettivo.
  • Personal branding: un modo unico di presentare se stessi, di vendersi agli altri e di trasmettere la nostra immagine. Se riusciamo a venire in mente alle persone nel momento in cui hanno bisogno di noi, non c’è campagna di marketing che tenga.
  • Networking: le relazioni. Si finisce sempre lì, nella rete di relazioni che riusciamo a costruire e nel modo in cui riusciamo a diventare animali sociali perfettamente aristotelici, in collegamento con i nostri simili e con persone che abbiano bisogno delle nostre soluzioni.

Alla fine dell’incontro siamo ancora immersi nel dubbio se l’intenzionalità influisca sulle nostre azioni o se ne sia influenzata, ma filosoficamente non abbiamo ancora trovato risposta al dubbio “è nato prima l’uovo o la gallina?”.
Le risposte filosofiche sono state lasciate ad altri, durante questo dialogo aperto e dinamico abbiamo trovato soluzioni e riflessioni pratiche, veloci, immediate, da applicare domani, macché, oggi, per la nostra stessa vita e per ottenere risultati migliori.

La Redazione

Articolo scritto in occasione dell’incontro Intenzionalità e mercato svoltosi sabato 11 marzo ed organizzato dal festival di filosofia Pensare il presente, a Treviso dal 7 al 30 marzo 2017.

La coscienza cosciente

 

La coscienza desta, la vita desta, è un vivere andando incontro, un vivere che dall'”ora”, va incontro al nuovo “ora” […]. Il tempo è la forma ineliminabile delle realtà individuali. Husserl

Il tempo è per noi, è per il mondo o il tempo è per se stesso?

Husserl è il filosofo che maggiormente si avvicina alla concezione temporale che sto piano piano cercando di formulare nella mia testa dai tempi dell’Università.

Egli compie un’analisi fenomenologica del tempo. Egli intende andare oltre il tempo matematico della fisica newtoniana, cercando le risposte all’interno della coscienza umana. Infatti, per Husserl, occorre che anche la psicologia, per studiare l’uomo nella sua totalità, si allontani dall’oggettività della natura e consideri l’uomo come io-nel-mondo, attraverso l’analisi della coscienza umana, la cui vera essenza viene a coincidere con l’atto del trascendere (1).

Husserl chiama ‘il più difficile di tutti i problemi fenomenologici, il problema dell’analisi del tempo (2)’ .
Il punto di partenza di Husserl è l’allontanarsi dal tempo obiettivo, sia fisico che psicologico, perché la fenomenologia non si occupa del tempo reale. Non bisogna, però, confondere il tempo interiore della coscienza, o tempo fenomenologico, con il tempo psicologico; quest’ultimo è un concetto oggettivo appartenente alla psicologia, scienza empirica, il primo è il tempo vissuto, ovvero visto dalla soggettività come un ‘farsi’.

Il tempo e lo spazio, così come vengono intesi dalla psicologia, infatti, per Husserl non sono in grado di spiegare l’intenzionalità della coscienza, condizione di ogni soggettività umana.
Il tempo soggettivo privato, di contro a quello della fisica, non possiede alcun carattere di fondamento: solo una durata intrinsecamente reale può costituire il concreto fondamento immanente della nozione di tempo e di divenire (3).

Ma ciò che accogliamo… è il tempo che appare, la durata che appare in quanto tale. Queste però sono datità assolute, di cui sarebbe insensato dubitare. In effetti, finiamo anche con l’assumere un tempo che è, ma questo non è il tempo del mondo dell’esperienza, bensì il tempo immanente del flusso di coscienza (4).

La struttura del vissuto temporale presentata da Husserl è, dunque, composta dai momenti intenzionali del farsi del tempo vissuto che non corrispondono al presente-passato-futuro, ma al praesentatio, retentio, protentio attraverso cui l’uomo può darsi passato-presente-futuro; la praesentatio − essere ora, limite che congiunge ritensioni e protensioni − racchiude in sé l’essere da un passato e l’essere verso un avvenire, che non sono altro che le ritensioni e protensioni (5).

Queste tre dimensioni intenzionali non esprimono, quindi, il tempo reale ma quello vissuto, attraverso cui l’uomo può esprimere le proprie esperienze. Ogni dimensione non è uno stato temporale ma un continuo ‘fuori di sé’ (6).
Secondo Husserl, per definire l’unità di un accadimento vissuto, interviene, dunque, sempre l’intenzionalità, poiché è il significato complessivo della percezione temporale che definisce il senso di un accadimento presente che è sempre analizzabile attraverso il presente-presente (l’impressione), l’appena-passato (la ritensione), e ciò che-sta-per-accadere (la protensione). Infatti, ritensione e protensione vivono grazie all’impressione poiché essa è l’unica in grado di far essere ciò che non-è-più e ciò che non-è-ancora. Nel presente si formano nuove protensioni, che si conservano poi nelle ritensioni per poi perdersi nel passato. Husserl evidenzia anche la differenza tra ritensione e rimemorazione (7): nella seconda avviene una ri- produzione dell’esperienza passata, dunque è una ri-presentazione dell’intero vissuto; la ritensione è l’andare nell’‘appena passato’ della prima impressione ed appartiene alla praesentatio, grazie alla quale ha modo di esistere.

La relazione tra presente, rimemorazioni e aspettazioni è, dunque, la seguente: i contenuti del presente dischiudono quelli delle ritensioni e delle protensioni, perché la praesentatio esprime un passato che trattiene − ritensione − ed un avvenire che proietta − protensione − (8).
Dunque, si può osservare che le caratteristiche del tempo, secondo Husserl, sono l’unicità, la continuità, la linearità, l’irreversibilità e l’infinità.

Con questa concezione del tempo si rende evidente il fatto che si ha una successione infinita di campi temporali, verso il passato o verso il futuro in quanto il flusso della coscienza è visto da Husserl come un continuum. Da qui ne consegue che il flusso della coscienza del tempo è un vero e proprio cambiamento continuo.

Con Husserl si ha, così, una concezione propriamente fenomenologica del tempo derivante dalla concezione di intenzionalità della coscienza; un pensiero che si scontra con la psicologia del tempo che non guarda l’uomo nella sua dimensione trascendentale ma solo in quella oggettiva della natura.

Ho scelto Husserl come modello di riferimento per la concezione del tempo, perché riconosce l’esistenza della soggettività di contro all’oggettività rigida della scienza…è come riconoscere l’Uomo prima del tempo.

1/5/6/8 U. Galimberti, Psichiatria e fenomenologia, Feltrinelli, Milano, 2006, pp. 193-194 2/4 E. Husserl, Vorlesungen zur Phänomenologie des inneren Zeitbewusstseins (1897-1917), Husserliana (Hua), Bd. X, Haag, Martinus Nijhoff, 1966 p. 276; trad. it. Alfredo Marini, Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo, Franco Angeli, Milano, 1981, p. 280

3/7 G. Ustori, Considerazioni fenomenologie sul tempo: Husserl ed oltre, pubblicazione Internet sul sito www.hieros.it/ustori.htm, p. 3
Valeria Genova
[Immagini tratte da Google Immagini]

L’empatia come comprensione dell’altro e di sè

Empatia, come il suo equivalente tedesco, Einfühlung, è una parola complessa, da usare con cautela perché molto spesso viene usata a sproposito, equivocando e inducendo in equivoco. Simpatia, compassione, comprensione, partecipazione, sono espressioni che si avvicinano molto ma possiedono un senso decisamente più debole.

Empatia sembra indicare un qualcosa in più, un qualcosa di più profondo, un “entrare dentro” negli stati d’animo degli altri, più che un semplice partecipare.

Con Husserl l’empatia “viene a costituire la via per mezzo della quale il soggetto sperimenta l’esistenza di soggetti altri” definendo la parola un penoso enigma. Read more