Film selezionati per voi: dicembre 2017!

Ecco a voi l’ultimo appuntamento 2017 con la rubrica Selezionati per voi – Film. Il maxi schermo a dicembre la fa da padrone: sfidiamo chiunque a resistere alla tentazione di rifugiarsi nelle sale buie di un cinema locale e di appollaiarsi sulle sue avvolgenti poltrone.. (anche se costantemente macchiate dalle bibite rovesciate dagli spettatori che ci hanno preceduto).

Vi auguriamo di scegliere al meglio i film con cui trascorrere le vostre serate e di uscire soddisfatti dalle calde sale cinematografiche. Non perdetevi queste NUOVE USCITE! Buon dicembre e buone feste!

 

assassiniosullorientexpress la chiave di sophiaAssassinio sull’Orient Express – Kenneth Branagh
Dai finestrini delle carrozze del lussuoso treno Simplon Orient Express non si vede altro che neve, un’immensa distesa bianca che inonda i binari e arresta la corsa del treno diretto da Istanbul a Calais. Inizia così il nuovo e atteso adattamento cinematografico del capolavoro letterario di Agatha Christie. Una visione sontuosa e inaspettatamente piacevole, ideale per trascorrere al cinema una fredda serata di inizio dicembre. Il cast è di livello stellare e il mistero della trama catturerà senza dubbio anche le generazioni che hanno già avuto modo di leggere e apprezzare il romanzo originale. “Assassinio sull’Orient Express” è cinema di grande intrattenimento che non ha alcuna pretesa se non quella di catturare per due ore filate l’attenzione gli spettatori presenti in sala, riuscendo benissimo nell’intento. USCITA PREVISTA: 30 NOVEMBRE 2017
 
loveless la chiave di sophiaLoveless – Andrey Zvyagintsev
Dalla fredda e glaciale Russia arriva un’incredibile dramma familiare premiato con il Premio della Giuria alla settantesima edizione del Festival di Cannes. Il maestro Zvyagintsev torna dietro la macchina da presa per raccontare la storia di Boris e Zhenya, coppia alle prese con un difficile divorzio, che anteponendo i propri interessi a quelli del nucleo familiare finiranno per dimenticarsi di pensare al loro figlio Aliocha. Quando però il ragazzo scomparirà da casa la vita della coppia inizierà a cambiare drasticamente. Scritto e diretto con un impressionante rigore tecnico e formale, “Loveless” è un film difficile da accettare per la sua incredibile durezza e schiettezza nei confronti dello spettatore. Un pugno nello stomaco difficile da dimenticare. Un’esperienza visiva da non perdere. USCITA PREVISTA: 6 DICEMBRE 2017
 
tutti-i-soldi-del-mondo la chiave di sophia -699x993Tutti i soldi del mondo – Ridley Scott
Il nuovo film del regista di “Blade Runner” e “Il Gladiatore” sarà sicuramente ricordato come l’emblema cinematografico dello scandalo molestie dilagato a Hollywood nelle ultime settimane. Questo perché, dopo le accuse rivolte all’attore Kevin Spacey, il regista Ridley Scott ha deciso di eliminare e rigirare tutte le scene del suo nuovo film in cui appariva l’attore americano affidandole al volto di C. Plummer. Una scelta controversa che ha portato a una corsa contro il tempo per riuscire a mantenere l’uscita del film a fine mese. La trama è tra le più attese di questa stagione. “Tutti i soldi del mondo” racconta infatti del vero rapimento ai danni del nipote del magnate del petrolio Jean Paul Getty. I fatti, ambientati a Roma, risalgono al 1973 e per diverse settimane occuparono le cronache internazionali. Scott aveva ricreato la storia con una sontuosa ricostruzione scenica, affidando il ruolo di Getty proprio a Spacey, eliminato poi in malo modo. Ora la vera scommessa sarà quella di proporre un lavoro credibile che sia in grado di non far vedere i pesanti tagli subiti dalla versione originale. Un film attualissimo, pur raccontando un episodio del passato, impossibile da perdere. USCITA PREVISTA: 21 DICEMBRE 2017
 
jim-andy-the-great-beyond-600x890 la chiave di sophiaJim & Andy: The Great Beyond – Chris Smith (documentario)
E’ stato presentato all’ultima edizione della Mostra del cinema di Venezia ma non è un film né un documentario tradizionale, destinato a uscire in sala. “Jim & Andy” è la storia incredibile di come Jim Carrey riuscì a interpretare il ruolo di Andy Kaufman nel film biografico “Man on the moon” di Milos Forman.  L’interpretazione di Jim Carrey fu acclamata dai critici e gli fece vincere un Golden Globe, ma i momenti maggiormente “kaufmaneschi” dietro le quinte sono stati per fortuna catturati su video dalla ex ragazza di Andy, Lynne Margulies, e da Bob Zmuda, con cui scriveva i testi. In questo documentario, Carrey guarda quei momenti diciotto anni dopo e riflette su come lui e Andy siano venuti fuori da universi curiosamente paralleli, dato che la sua esperienza ha messo insieme Andy e Tony e, più in generale, il viaggio spirituale della sua carriera. Un capolavoro dedicato a tutti gli amanti del cinema nonché un monumento a uno dei più grandi attori viventi del nostro tempo. DISPONIBILE SU NETFLIX
 

Alvise Wollner

 

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Cinema e sport: così vicini, così lontani

Le grandi storie di sport hanno scritto pagine indelebili del secolo scorso e di questi primi anni del 2000. Sono diventate parte del nostro immaginario, lasciandoci immagini vivide e ormai entrate nella leggenda; come parte integrante dell’umanità, hanno scritto la Storia. Alì contro Foreman nel 1974, a Kinshasa. Il gol di Maradona a Messico ’86, sotto il sole accecante dello Stadio Azteca, mentre un emozionato Victor Hugo Morales impazzisce in telecronaca, chiamandolo barrillete cosmico. Nelson Mandela, in piedi sul prato dell’Ellis Park, indossando la maglia degli Springboks, stringe la mano e consegna la Web Ellis Cup a Francois Pienaar, capitano del Sudafrica; un bianco e un nero, figli della stessa terra. Il canestro di Jordan nel ’98 contro Utah, un tiro a 5,2 secondi dalla fine, l’ultimo della sua carriera ai Bulls; due punti che lo consacrano nell’Olimpo del basket, il più grande di sempre, un onnipotente del gioco.

Sono alcune delle immagini che tutti hanno visto almeno una volta e che anche il cinema, Hollywood in particolare, ha voluto omaggiare. Di film sullo sport se ne contano decine e sarebbe difficile elencarli tutti, anche se alcuni sono sicuramente più conosciuti: dai grandi film sulla boxe, come Toro ScatenatoRocky o i più recenti Million Dollar Baby The Fighter, ai film sulla pallacanestro; Hoosiers, con un appassionato e focoso Gene Hackman nei panni di un insolito allenatore. He Got Game di Spike Lee, che racconta uno dei lati nascosti del basket, con un meraviglioso e romantico 1vs1, finale tra Denzel Washington e il figlio Jesus Shuttlesworth/Ray Allen. Ancora Space Jam e la sua accoppiata vincente Michael Jordan/Looney Tunes, un film che ha fatto innamorare del basket un’intera generazione di bambini.

Di produzioni cinematografiche di questo tipo, come detto in precedenza, c’è davvero una gran abbondanza. Hollywood non ha mai badato a spese, cercando sempre di ingaggiare i migliori registi ed interpreti, con risultati, molte volte, davvero notevoli. Com’è invece la situazione in Italia? Se si attraversa l’oceano tornando nello Stivale, il panorama di film sportivi è piuttosto scarso, se comparato a quello americano. Lo sport al cinema è stato quasi sempre visto in chiave parodistica/umoristica, un esempio lampante è L’allenatone nel Pallone; come mai? Di certo non per la mancanza di storie da raccontare o, secondo alcuni, per la pochezza in termini di interpreti e capacità del cinema italiano. Probabilmente la risposta va cercata altrove, ad un livello più profondo.

C’è una differenza socio-culturale di base tra chi, come noi italiani, ha una storia millenaria, che si intreccia con la nascita e il fiorire delle grandi civiltà classiche e chi, come nel caso degli statunitensi, ha una storia molto breve, i cui eroi “antichi” sono i pionieri che hanno conquistato l’ovest o i soldati delle tante guerre da loro combattute. C’è una sorta di ricerca ossessiva dell’epica di un popolo che quest’epica non l’ha mai avuta e che in qualche modo si fonde con lo sport. Il grande atleta viene visto come un’incarnazione dell’eroe omerico, un moderno Achille, selvaggio e competitivo sul campo. Questa visione, la celebrazione della forza, del coraggio dell’atleta, viene presentata anche al cinema, come parte fondante della loro cultura e del loro significato di competizione.

La nostra percezione dello sport è molto diversa, è vissuto sicuramente in modo viscerale e appassionato, ma non ha un valore sociale così profondo e radicato nella nostra cultura. Difficilmente un atleta viene celebrato o raffigurato sul grande schermo come un eroe epico. Sono due visioni opposte, non solo di cinema ma anche di vita e probabilmente nessuna delle due è giusta o sbagliata. Due culture diverse, non per forza in contrasto, che però potrebbero imparare molto di più l’una dall’altra.

Lorenzo Gardellin

 

[Immagine tratta da Google Immagini]

 

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Allied: l’ombra nascosta del divismo contemporaneo

Poteva nascere qualcosa di davvero memorabile dall’incontro tra il regista di Forrest Gump, Ritorno al Futuro, Cast Away e molti altri celebri film, con due degli attori più amati del nostro tempo: Brad Pitt e Marion Cotillard. Nonostante le ottime premesse però, Allied-Un’ombra nascosta non solo è un film poco riuscito, ma è anche un’opera che in qualche modo sancisce la fine del concetto di divismo, inteso nella sua accezione più tipica e tradizionale.

Come riportato da G.L. Farinelli e J.L. Passek nel libro Stars au féminin: naissance, apogée et décadence du star system (edito nel 2000), il divismo è un fenomeno strettamente connesso al Novecento, secolo in cui la civiltà occidentale, dominata dalla complessa interazione tra economia, tecnica e scienza, ha trovato in sé stessa un antidoto allo spirito razionalizzatore nella presenza dei divi. Considerati da sempre come prodotti della cultura di massa e al contempo arcaismo della modernità, i divi simboleggiano la potenza del mito del doppio all’interno della civiltà razionalista. Essi incarnano un bisogno moderno di fede, un bisogno psicologico e affettivo di proiezione e di identificazione dell’individuo con una vita diversa, una vita che potrebbe accordarsi con i suoi desideri, una vita da eroe, da ribelle o da aristocratico, una vita intensa, rischiosa e non soggetta agli obblighi prosaici della banalità quotidiana, fatta d’amore, bellezza, forza, piaceri, felicità e immortalità. Il divo è colui a cui guardare con ammirazione, colui che incarna e rende concreti personaggi ideali sulla superficie di uno schermo cinematografico. La società contemporanea ha lentamente sgretolato quest’immagine, in vari modi e con svariati mezzi, primo tra tutti l’annullamento totale della dimensione privata della vita del divo. Se nel Novecento infatti i grandi attori erano sempre circondati da un alone di fascino e mistero, al giorno d’oggi chiunque può permettersi di conoscere la vita privata delle star dal momento che, sempre più spesso, sono loro in prima persona a raccontarsi attraverso la rete. Il divo d’oggi tende a non separare più la dimensione privata da quella professionale, avvicinandosi così all’uomo della strada, ma al contempo mostrando al mondo tutti i suoi difetti e le proprie fragilità.

Non a caso Allied è balzato agli onori della cronaca non tanto per il suo valore artistico, quanto piuttosto per essere il film che ha portato alla fine del matrimonio tra Brad Pitt e Angelina Jolie, dal momento che in molti avevano ipotizzato una love story (poi smentita) tra il divo americano e Marion Cotillard. Ispirandosi molto all’estetica di un film come Casablanca, Allied mette in mostra tutte le sue debolezze, soprattutto nella parte finale della storia. Pitt e Cotillard sono solo un pallido simulacro dell’indimenticabile coppia Bogart-Bergman e il film, nonostante una discreta messa in scena e un paio di sequenze degne di nota, non riesce mai a convincere fino in fondo. Invece di farli nascere come un tempo, i film d’oggi sembrano distruggere i divi contemporanei, trasformandoli in fragili esseri umani che, provando a dare forma ai sogni degli spettatori, finiscono sempre più spesso per perdersi e nascondersi nel buio della loro ombra artistica.

Alvise Wollner

[Immagine tratta da Google Immagini]

“I Sette Samurai”, Akira Kurosawa

La figura del samurai ha sempre esercitato un certo fascino nell’immaginario occidentale, diventando l’emblema dell’eroe immortale, silenzioso e letale come i fendenti della sua spada; un guerriero senza paura, che combatte con orgoglio e onore, ammantato di un’aura mistica.
Nel suo I Sette Samurai, il grande regista giapponese Akira Kurosawa svela un volto nuovo di questa carismatica figura, una visione cruda e disincantata del mondo dei samurai.

Questo film fu il primo di una serie di pellicole la cui trama prevede il reclutamento e l’impiego di una banda di eroi, per raggiungere un determinato scopo; basti pensare a film di Hollywood come I Cannoni di Navarone, Quella Sporca Dozzina o I Magnifici Sette, remake dichiarato e omaggio al grande maestro giapponese.

Girato nel 1954 e ambientato nel Giappone della fine del XVI secolo (epoca Sengoku), il film racconta la storia di un povero villaggio di contadini, vessato dalle continue scorribande di un gruppo di briganti che in quell’epoca devastavano le campagne giapponesi. Esasperati dalla loro tragica condizione, i contadini decidono di cercare aiuto presso alcuni Ronin, i samurai senza padrone, pregandoli di aiutarli a cacciare i briganti. Con difficoltà riusciranno ad ingaggiare sette guerrieri, disposti a fornire i loro servigi per proteggere il villaggio.

Sette guerrieri per sette diversi uomini e sette diversi modi di essere; dal carismatico e romantico Kambei, al suo allievo Katsushiro, un samurai ancora acerbo, desideroso di imparare. Da Kikuchiyo, coraggioso, matto e guascone, interpretato alla perfezione dal grande Toshiro Mifune, che con le sue improvvisazioni a tratti animalesche, regala una recitazione di una emotività commovente, passando poi da Kyuzo, ascetico e imperturbabile guerriero.

Sono semplici uomini, guerrieri di un tempo passato, un tempo fatto di gloria e grandi battaglie e che ora è solo un lontano ricordo. Sono Ronin senza padrone, senza uno scopo, alla ricerca di un nuovo posto e un nuovo ruolo nel loro mondo.
Kurosawa è abilissimo nel delinearne il ritratto; passando da toni epici ad altri decisamente più tragici e crudi, ci mostra realmente cosa significhi essere un samurai. Il senso della solidarietà permea l’intera vicenda, il sacrificio di aiutare il più debole per una tazza di riso e poco altro è centrale e presente in quasi tutte le tre ore che tengono lo spettatore incollato allo schermo. Non c’è più la gloria di combattere per un grande signore della guerra. Non ci sono più le ricchezze e i grandi castelli di pietra. C’è solo la lotta per la sopravvivenza, per la vita, che è fatta di fango, capanne e acqua.

La spada che prima era al servizio del Daimyo, ora serve il contadino, ma ad un grandissimo prezzo. Alla fine i vincitori saranno i contadini, perché appartengono alla terra e nella loro vita di perenni fatiche e patimenti, sono i nutritori di tutti; una classe sociale sempre disprezzata e maltrattata ma necessaria.
Ciò che resta al samurai è il sacrificio. Aver dato la propria vita, ancora una volta, per un’altra causa, questa volta più nobile e giusta ma impietosa nel reclamare il sangue.

In questo incomparabile ribaltamento di ruoli e regole che Kurosawa porta sullo schermo c’è un’epica nuova, una storia di un tempo quasi mitico, distante da noi, eppure ancorato alla realtà, una sorta di Iliade contadina.

Lorenzo Gardellin

[Immagine tratta da Google Immagini]

Il “Peplum”

Essere nostalgici è la moda di questi ultimi anni. Si guarda al passato probabilmente per fuggire un presente troppo frenetico ed irrequieto che sembra non soddisfarci più. Ed ecco che le storie di atleti, attori e musicisti di qualche anno fa acquistano immediatamente un’aura magica, capace di riconciliarci con il mondo. Parlando di cinema, voltarsi indietro e guardare i decenni scorsi, spesso può essere più utile di quel che sembra.

Negli anni ’50 Hollywood (a cui seguirà quasi contemporaneamente il cinema italiano), inaugura un genere di grande successo, che aveva già avuto un timido inizio negli anni ’10; si tratta del Peplum, un filone cinematografico di film storici in costume, ambientato in contesti biblici o nel periodo della Grecia antica o della civiltà romana. Il termine “peplum”, derivante dal greco e a suo volta mutuato dal latino, indica una semplice tunica femminile usata dai greci.

Molti film furono prodotti a basso costo ma altri rimangono ancora oggi delle pellicole straordinarie: titoli come Ben-Hur, I Dieci Comandamenti, Quo Vadis, Spartacus, La Tunica, Giulio Cesare, sono stati dei grandi successi e a modo loro hanno rivoluzionato il cinema. Rivedendoli oggi ci si accorge di quanto lavoro ci fosse alle spalle: un’attenzione costante alle ambientazioni, una cura dei costumi e dei dettagli, uno studio della Storia che pur con qualche piccola differenza, era preciso e veniva curato. Non esistevano ancora gli effetti speciali di oggi e la disponibilità tecnologica era limitata, molte scene venivano quindi girate negli studios; eppure la recitazione non sembrava risentirne. Gli attori recitavano quasi fossero a teatro, come se sentissero la platea a pochi metri da loro, con enfasi e pathos. Indimenticabili in questo senso le interpretazioni di Charlton Heston nei panni di Giuda Ben-Hur e di un giovane Marlon Brando che in Giulio Cesare incantò il pubblico con una recitazione sublime, una di quelle interpretazioni che passano una volta ogni tanto.

Il genere ebbe il suo apice negli anni ’60, per poi essere abbandonato, incalzato dai primissimi film degli spaghetti-western.
Negli ultimi anni c’è stata una ripresa del film storico in costume; gli anni 2000 hanno visto una sorta di rifiorire del genere, partendo da Il Gladiatore, film di enorme successo, consacrato con l’Oscar a Russell Crowe. A questa sono seguite numerose altre pellicole, sicuramente di grande impatto visivo, maestose nella realizzazione ma non così significative come i film sopracitati. Si è preferita la spettacolarizzazione a scapito di una recitazione vera e di un’attenzione ai dettagli storici che sembra non interessare più. Ha vinto l’idea dell’intrattenimento per sé stesso, dello spettacolo portato avanti a tutti i costi. Ne è un esempio lampante il remake di Ben-Hur, che uscirà a breve nelle sale: è un’evidente dimostrazione di come manchino le idee, prendendo un capolavoro e cercando di trasformarlo in una giostra vorticosa che appaghi solo la vista e non l’intelletto. In questo caso essere nostalgici non aiuta, si dovrebbe guardare al passato con riverenza e rispetto, cogliendone l’atmosfera, la genialità, per non correre il rischio di incappare nella banale ripetizione che uccide la fantasia.

Lorenzo Gardellin

[Immagine tratta da Google Immagini, ritrae Charlton Heston in Ben-Hur]

James Dean: attore, icona, mito

A 24 anni si è ancora forse troppo giovani per capire cosa fare della propria vita. Si è da poco entrati in un mondo nuovo, fatto di grandi sfide e decisioni da prendere. Ci si guarda intorno spaesati.
Il 30 settembre 1955, sulla Route 466, James Dean moriva in un incidente stradale, al volante della sua Porsche 550 Spyder, “Little Bastard” come l’aveva lui stesso soprannominata.
A soli 24 anni se ne andava un ragazzo già uomo, un talento purissimo del grande cinema americano, un timido ribelle.
Tanto è stato scritto negli anni di Dean, fiumi di inchiostro. Il suo viso è ritratto ovunque: fotografato con cappello da cowboy e sigaretta stretta tra i denti, con un sorriso sornione e furbo, immortalato con il suo sguardo di ghiaccio, un’aria da ribelle senza tempo e una bellezza immortale.

È stato e continua ad essere lo specchio di un’epoca: figlio di una generazione che aveva versato sangue sui campi d’Europa e del Pacifico durante la Seconda Guerra Mondiale e che stava costruendo l’America di oggi, rappresenta l’inadeguatezza e la ribellione di un giovane uomo che cerca il suo posto. “Rebel without a cause”, come il titolo originale di Gioventù bruciata, è l’espressione che più si avvicina a ciò che Dean rappresenta.

Nei soli tre film in cui ha recitato si percepisce tutta la sua anima, la sua potenza; non si limitava solo a recitare, portava tutto sé stesso all’interno del suo personaggio, si fondeva in un tutt’uno. Che si chiamassero Cal Trask, Jim Stark o Jett Rink poco importava, esisteva solo uno, James Dean.

Celebri sono le sue improvvisazioni, come quella incredibile e commovente ne La valle dell’Eden, in cui interpretando Cal porta al padre 5000 dollari per risarcirlo di una perdita economica. Il suo viso è carico di gioia. Il padre però lo respinge e nella sceneggiatura originale Dean avrebbe dovuto andarsene. Invece rimase sulla scena, mutando gradualmente espressione, disperandosi, piangendo, aggrappandosi abbracciato al padre.
Se lo si vede recitare si ha subito l’impressione di trovarsi di fronte ad un attore diverso dagli altri: ci si immedesima subito nella sua irrequietezza, un’angoscia che sembra non trovare quiete. Si viene catturati dalla sua bellezza portata in maniera timida, con quel senso di ribellione e imbarazzo di un ventenne che è già uomo, che se ne frega, che vuole vivere a 100 all’ora.

Fu proprio la sua passione per la velocità a portarlo via così presto; correva regolarmente in moto e in auto e quando morì stava andando a Salinas, in California, per partecipare ad una corsa.

È stato definito in molti modi: sfacciato, ipersensibile, insicuro, sofferente, un ribelle che usava la provocazione come maschera del proprio disagio. Ma forse più semplicemente Dean era «troppo veloce per vivere, troppo giovane per morire», uno di quei ragazzi destinati a diventare un mito che trascende il tempo, un simbolo di ribellione emotiva e interiore, diversa dalle grandi correnti giovanili che avrebbero investito il decennio successivo alla sua morte. Il suo fascino e la sua bravura rimangono limpidi ancora oggi. La sua stella ha brillato per pochi anni, ma la sua immagine di timido ribelle in jeans, maglia bianca e giubbotto rosso rimarrà immortale.

Lorenzo Gardellin

[Immagine tratta da Google Immagini]

Gli scrittori hanno ucciso il cinema

Il cinema come l’abbiamo inteso durante tutto il corso del Novecento (e nei primi anni Duemila) è ufficialmente morto. O meglio, si è trasformato in qualcosa di nuovo e totalmente diverso, dal momento che la vera arte non muore mai, piuttosto si rigenera e diventa altro. Se il cinema che abbiamo conosciuto e apprezzato negli anni è ormai diventato un pallido simulacro di ciò che è stato in passato, la colpa (o il merito, a seconda dei punti di vista) va attribuita agli scrittori. Direte voi: ma gli scrittori ci sono sempre stati, anche e soprattutto durante l’età d’oro del cinema. Avete ragione, ma il grande cambiamento è iniziato quando gli scrittori hanno pensato di poter diventare i registi delle loro stesse opere e questa concezione è stata possibile solo grazie allo sviluppo delle serie televisive. Non ci vuole molto a capire che trasporre un libro (o una serie di libri) in un film di un’ora e mezza, limita e restringe enormemente il potere della carta stampata. Quello cioè di lasciare pieno potere all’immaginazione del lettore che dalle parole crea suggestioni che gli fanno vivere in prima persona il mondo descritto nel libro. Il film invece, non lascia niente all’immaginazione. Il film è la trasposizione visiva delle suggestioni che hanno colpito un regista. Ecco perché molte trasposizioni di classici della letteratura ci lasciano delusi quando li andiamo a guardare al cinema. Se il film però ha un tempo ben definito da rispettare, le serie tv possono per assurdo assumere una durata illimitata e raccontare nei dettagli tutte le vicende pensate e concepite dagli scrittori. Fateci caso: tutte le più importanti serie televisive degli ultimi anni nascono dalle idee di alcuni autori letterari che sono riusciti a mettere in secondo piano i registi in nome delle loro storie. Il più famoso è George R.R. Martin con il suo Game of thrones, ma anche Nick Pizzolatto e Beau Willimon autori di True detective e House of cards non sono affatto da meno.

Questi nomi, insieme a molti altri, rappresentano una nuova evoluzione dello scrittore in senso classico. Non sono più autori che si accontentano di scrivere storie cartacee, ma esigono che queste siano riprodotte secondo le loro idee sul piccolo schermo. Lo scrittore diventa così showrunner, una figura che non è solo uno sceneggiatore o un produttore. Questi nuovi personaggi assumono e licenziano, sviluppano la trama, riscrivono copioni, si occupano di budget e tengono i contatti con l’emittente televisiva, costruendo prodotti che assomigliano sempre più a lunghi libri visivi ma che hanno perso del tutto il contatto con il vero cinema. La serialità ha ucciso le pellicole del grande schermo, il dominio sempre più incontrastato di colossi come Netflix o Hbo sposterà tra un paio d’anni il focus dal grande schermo a piccole piattaforme multimediali come le smart tv, i tablet o i computer portatili. Andare al cinema diventerà lentamente obsoleto. Non è per forza un male, senza i cambiamenti non ci sarebbe il progresso, ma è incredibile notare come gli scrittori siano riusciti a destabilizzare nel profondo un’arte come il cinema, riuscendo a far prevalere il loro egocentrismo e l’amore per le loro storie sulla tecnica che le doveva trasporre in uno schermo. La carta stampata ha compromesso irrimediabilmente la pellicola, dimostrando che la parola e la capacità di sapere ideare e raccontare una storia, sono oggi ben più importanti del saper raccontare la vita attraverso una macchina da presa. Quello che conta non è più l’arte, ma l’entertainment, il riuscire a coinvolgere per più stagioni possibili uno spettatore, magari facendolo passare dalla tv al libro, raddoppiando i guadagni. E’ la storia che si evolve e fa il suo corso. Una fase di transizione strettamente legata al nostro presente, che in futuro avrà di sicuro nuovi e imprevedibili sviluppi proprio perché, come detto prima, l’arte non muore mai. Diventa semplicemente qualcos’altro.

Alvise Wollner

[immagine tratta da Google Immagini]

Owen Wilson: un lucky loser a Hollywood

Parlare di Settima Arte non significa solo recensire e commentare i film. Vuol dire anche capire un po’ più a fondo chi lavora e rende speciale questa grande industria di sogni. “Fil(m)osofia” racconta oggi Owen Wilson, il biondo che non impegna. Troppo bravo e sfortunato per essere apprezzato ai giorni nostri.

Strana professione, quella dell’attore cinematografico. Fatta di luci e ombre, giorni di gloria, adulazione da parte dei fans e pochi minuti dopo di depressione più profonda per essere stato scaricato da tutti quelli che chiamavi amici a causa di un solo passo falso. E’ un mestiere con innumerevoli privilegi, ma che richiede da parte sua un carattere fuori dal comune per sopportare tutte le pressioni del caso. Ecco perché c’è chi nasce con la stoffa del divo e chi invece sceglie di fare l’attore nonostante un carattere pieno di fragilità e debolezze. Sono loro i primi a soccombere, quelli che lo star system getta nella spazzatura dopo averli spremuti a suo piacimento. E’ la fine che ha rischiato di fare anche un uomo che molti degli spettatori medi tendono a considerare come una star di secondo livello. Stiamo parlando di Owen Wilson, uno degli interpreti più sottovalutati dell’industria cinematografica odierna.

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