Democrazia e la grande bugia: da Arendt ad oggi

Curioso come i maggiori pensatori di quella che è considerata, non esattamente a proposito, la prima democrazia del mondo occidentale fossero essenzialmente anti-democratici. Per quanto il modello dell’Atene del V e IV secolo a.C. abbia ispirato tanti politologi dei secoli successivi, infatti, ben pochi filosofi vedevano in una sua versione “estesa”, quindi in una effettiva democrazia, una forma ideale di governo. Senza scomodare l’aristocratico Platone, anche Aristotele diffidava della democrazia, che a suo avviso aveva nel proprio punto di forza, la partecipazione del popolo intero, la sua più grande debolezza: troppo facile, pensava, ingannare le masse e manipolarle con parole suadenti e menzogne, spianando così la strada a qualsiasi dittatore dalla parlantina sufficientemente sciolta e con un minimo di carisma.

Facendo un salto in avanti di più di due millenni, il monito aristotelico risuona nell’analisi di Hannah Arendt sull’origine dei totalitarismi del Novecento: alla base di ogni assolutismo, contemporaneo e non, c’è per la filosofa tedesca una «grande bugia», una menzogna ripetuta all’infinito che diventa mito fondante per il gruppo dapprima esiguo, poi sempre più ampio di seguaci del leader di turno. Per Hitler fu l’esistenza di una lobby ebraica che controllava l’economia mondiale, e che aveva decretato la sconfitta della Germania nella Prima Guerra Mondiale e la sua successiva crisi economica; per Stalin fu invece la presenza endemica di agenti capitalisti che arrivavano a lasciarsi morire di fame per fingere l’esistenza di una carestia e minare così la prosperità del comunismo sovietico.

Il punto di forza della grande bugia, per Arendt, è la sua pervasività: eliminando la libera stampa e monopolizzando i restanti strumenti di informazione, specialmente la radio per il regime nazista e la televisione per quello sovietico, il mito prende il posto dei fatti, la realtà viene riscritta secondo l’ideologia dominante, e al popolo non resta altra lente che non sia quella deformata dall’alto. La mancanza di confronto con qualcuno esposto a diversa narrazione e l’isolamento dal resto del mondo sono terreno fertile per la grande bugia, che diventa realtà ufficiale, e quello che prima era un capopopolo seguito da una sparuta minoranza diventa l’atteso condottiero capace di liberare le masse da una minaccia da lui stesso inventata e paventata.

Si potrebbe essere indotti a pensare che, in una società pluralista come la nostra, in cui molte e diverse voci si accavallano e si inseguono offrendo fin troppe versioni degli stessi avvenimenti, un rischio del genere sia quantomai lontano, eppure gli ultimi avvenimenti di Washington smentiscono una versione così ottimistica. Vedere migliaia di persone prendere d’assalto il Campidoglio, riunirsi in tutta la città invocando un golpe nel cuore di quella che è ancora la più grande democrazia occidentale, e in seguito organizzarsi online per un successivo raid in concomitanza con l’insediamento del nuovo Presidente eletto, sarebbe già di per sé sconcertante, ma lo diviene ancora di più studiando le motivazioni dei manifestanti. I complottisti di QAnon che vedono in Trump un eroe che combatte in segreto contro gruppi di satanisti pedofili e comunisti sono uniti dalla loro “grande bugia”, cui si è unito adesso l’imperituro mito della “vittoria mutilata”, altra contro-narrazione smentita dai fatti che diventa tradizionalmente humus per personaggi autoritari.

La grande bugia sarebbe dovuto essere sconfitta dalla comunicazione, dal confronto, dalla interconnessione, e la virtuale assenza di isolamento avrebbe potuto essere un ottimo vaccino, ma è accaduto invece l’opposto. Gli algoritmi dei social network che determinano i nostri interessi e le nostre opinioni, chiudendoci in tante echo chamber (= camere dell’eco) in cui il nostro pensiero risuona all’infinito rafforzato da quello di altri che portano avanti le nostre stesse idee, finiscono col privarci di uno scambio, di un confronto, di una comunicazione reale. Un gruppo su Facebook o un trend su Twitter non risultano troppo diversi dagli sparuti gruppetti astiosi e violenti che si trovavano nelle birrerie di Monaco negli anni Venti, intenti a discutere di cose che solo loro sapevano, lontani dal “popolo bue” che non vedeva oltre la versione ufficiale dei giornali.

Per quanto possiamo considerarci connessi, ci ritroviamo ancora una volta soli, in esclusiva compagnia dei nostri miti e di sodali che sono in realtà un nostro specchio, alla mercé di chiunque sia in grado di mentire abbastanza bene da convincerci che la sua grande bugia sia in realtà la “grande verità” che i “poteri segreti” ci nascondono.

 

Giacomo Mininni

 

[Photo credit pixabay]

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Un viaggio circolare per la storia?

Er ist wieder da (in inglese Look who is back) è una novella satirica tedesca scritta da Timur Vermes del 2012 e adattata poi al grande schermo nel 2015. La storia immagina un viaggio nel tempo di un inconsapevole Adolf Hitler, che confuso si risveglia nel 2011 a Berlino. Sia la commedia che il film hanno diviso la critica e suscitato un acceso dibattito in Germania, dove l’argomento è ancora un tabù in termini di satira. Senza entrare nel merito, è indubbio che la novella abbia una sua morale. Infatti nell’ultima scena rivolgendosi al co-protagonista, che tenta di ucciderlo, Hitler dice che «la storia si ripete». Quando, dopo avergli sparato e credendo di averlo ucciso, Hitler riappare alle spalle del co-protagonista, il dittatore gli spiega che «non riuscirà a liberarsi di lui».

Quest’ultima frase è un chiaro invito al lettore-spettatore a riflettere: le idee non si possono uccidere. Che rilevanza ha dunque nel 2022, a qualche anno di distanza dall’uscita del film e del libro, questa morale?

Abbiamo lasciato il Novecento promettendoci “mai più”: mai più guerre, mai più orrori, mai più genocidi. Abbiamo istituito le ‘giornate della memoria’: la Giornata della Memoria per le Vittime dell’Olocausto (27 Gennaio), Giornata della Memoria per il Genocidio Armeno (24 Aprile) e Giornata della Memoria per il massacro delle Foibe (10 Febbraio), tra le più note. Il secondo decennio degli anni duemila però sembra volerci ricordare che la memoria e il ricordo non bastano a mantenere la promessa.

Guardando impotente l’evoluzione politica delle nostre società, mi sono chiesta spesso se effettivamente la storia si ripeta, se non sia altro che un viaggio circolare dell’umanità. Non ho una risposta definitiva, ma quello che è certo è che certi eventi accadono come reazione ad altri eventi e, per quanto scontato possa sembrare, non sempre ce ne accorgiamo.

Moltissimi articoli sono stati scritti di recente sul ritorno del populismo in Europa. Il termine populismo identifica un atteggiamento ideologico attraverso il quale principi e programmi politici vengono trasmessi, che esalta in maniera demagogica il ruolo del popolo1. Dunque è il populismo il problema? In parte. Quello sui cui si dovrebbe riflettere di più è un fenomeno definito come polarizzazione sociale. Polarizzazione è un termine della fisica che identifica un processo per il quale si vengono a creare due polarità contrapposte, ovvero la concentrazione separata di due forze di valore opposto in uno stesso corpo. Se estendiamo il termine alla sociologia, polarizzazione identifica la concentrazione di valori ed idee opposti in seno alla società, dunque la tendenza della popolazione a schierarsi per uno dei due poli. In questo senso, il populismo a sostegno delle estremità degli schieramenti favorisce ed alimenta la polarizzazione delle società.

Come è successo? Siamo entrati nel secondo decennio degli anni Duemila in piena crisi economica, con conseguenze già evidenti sui consumatori e dunque un clima di insicurezza generalizzato. Le cose non sono migliorate negli anni successivi: tra fine 2010 e inizio 2011 prende avvio la Primavera Araba, una serie di proteste che ha interessato i paesi del Medio Oriente e Nord Africa. Le proteste non sono riuscite nel loro intento democratico e in Siria la protesta si è trasformata in una vera e propria guerra civile: ciò ha avuto una conseguenza significativa sui flussi migratori. Migliaia di persone sono entrate in Europa per fuggire a guerra e persecuzioni, aggiungendosi ai migranti economici che almeno dagli anni ’90 del Novecento attraversano il Mediterraneo in fuga dalla povertà. In un clima di sofferenza già esistente, questi flussi hanno inasprito le tensioni all’interno della società. Il colpo finale l’hanno dato gli attacchi terroristici su suolo europeo a partire dal 2015: la paura costante nella vita quotidiana di prendere i mezzi pubblici, viaggiare, recarsi in qualsiasi luogo affollato, ha sancito lo spostamento definitivo di intere porzioni di votanti verso retoriche semplicistiche, ma che promettono di recuperare la sicurezza perduta. Abbiamo così una polarizzazione a tutto tondo: cittadini europei che cadono nella propaganda del reclutamento jihadista (e in misura minore di altri terrorismi) da un lato, e tendenze populistiche di estrema destra dall’altro. Due polarità contrapposte che non solo si alimentano a vicenda, ma hanno anche le stesse radici.

La sfida che attende noi cittadini è capire veramente questi meccanismi di polarizzazione; la sfida che attende i nostri policy-makers è quella di fermarla, tenendo bene a mente che le idee non si uccidono e dunque la regola vincente è dotare le persone degli strumenti critici necessari per non cadere nella propaganda terrorista da un lato e nel populismo di destra dall’altro. La speranza è che fra dieci anni potremo dire che alla fine il viaggio non è stato circolare e che ad un passo dal chiudere il cerchio, la storia ha invece deviato il suo corso verso un nuovo inizio.

 

Francesca Capano

Laureata in Relazioni Internazionali in Italia, ha successivamente approfondito il suo interesse per la sicurezza internazionale con un Master a Londra. Attualmente vive a Bruxelles, dove si occupa principalmente di prevenzione della radicalizzazione e migrazione in ambito europeo. Segue principalmente la politica internazionale, senza perdere di vista le sue ripercussioni interne a cui affianca spesso una prospettiva sociologica.

NOTE:
1. Populismo, Enciclopedia Treccani Online.

[L’immagine in copertina è un fotogramma del film]

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La disumanizzazione ieri e oggi

Lunedì sono andato al cinema: “Race – il colore della vittoria”. Parla delle vicende di J. Owens, corridore afroamericano che partecipò ai giochi olimpici del 1936 a Berlino sotto il regime Nazista. Vinse quattro medaglie d’oro e diventò un simbolo della lotta alle ideologie razziste dell’Hitlerismo ma anche interne agli USA. La storia è molto curiosa e ricca di spunti interessanti; tra questi, uno che mi ha colpito e fatto riflettere è il processo di disumanizzazione perpetrato dal Nazismo che tanto sconvolge e del quale non si parlerà mai abbastanza.

La riflessione di H. Arendt nell’opera “La banalità del male – Eichmann a Gerusalemme” punta l’attenzione anche su questo aspetto. È una delle possibilità più spaventose che l’uomo possa produrre: com’è possibile che si possa considerare un’altra persona non umana? Perché è proprio questo che permetteva ai nazisti di compiere i loro crimini. Non stavano uccidendo una persona, ma un animale. Non stavano eliminando delle vite, ma liberando il Paese da un’infestazione. Non stavano compiendo sperimentazioni contro qualsiasi etica o diritto, perché i pazienti non erano degli uomini.

Cosa avremmo fatto noi in quegli anni se ci fossimo trovati immersi in quel clima?

Avremmo osato morire per difendere una persona che magari neanche conoscevamo e che sarebbe comunque stata uccisa dopo di noi?

Avremmo rischiato la morte per proteggere degli sconosciuti invece di incassare una ricompensa per la loro denuncia?

Insomma: ci saremmo fatti anche noi contagiare dalla banalità del male, che permette di mettersi il cuore in pace spegnendo il cervello?

Eichmann, infatti, ha introdotto il pericolo dell’irriflessività: una massa di uomini normali – la stessa Arendt definisce così Eichmann quando lo vede e lo ascolta a Gerusalemme – che compivano azioni mostruose. È il trionfo della follia, spacciata per legge e “giustizia”. Il contesto ideologico all’interno del quali si era inseriti conferiva agli uomini nuove categorie di interpretazione del reale. Un gesto che prima poteva ripugnare diventava semplice e normale – anzi – forse addirittura doveroso.

Non è un discorso astratto, perché la situazione si sta ricreando – per alcuni già ha preso il sopravvento – proprio qui, in Italia. Certo, magari sono cambiati i toni (basta fare un giro su Facebook per rendersi conto che non è proprio così); forse il risultato che si vuole ottenere è diverso (idem); potrebbe darsi che questa volta si risparmino almeno i bambini (l’immagine di quel corpicino disteso inerme sulla spiaggia dovrebbe essere ancora fresca nelle nostre menti), ma il bersaglio rimane sempre lo stesso: un capro espiatorio che incarni tutti i problemi del Paese e contro il quale scagliarsi sottraendogli lo statuto di persona. La crisi migratoria ha messo in luce le reali difficoltà dell’Unione Europea nel corso degli anni, e l’accordo con la Turchia entrato in vigore il 4 Aprile ne ha sancito il fallimento. Come si può pensare che il rimpatrio in Turchia sia una scelta corretta e soprattutto etica nei confronti dei profughi? In ogni caso, la chiusura della rotta Balcanica ha riportato l’Italia a meta privilegiata di chi fugge, complicando ancora di più la nostra già precaria situazione.

I numeri dell’ondata sono impressionanti: secondo l’Unhcr – l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati – nei primi tre mesi del 2016 in Italia sono arrivate 18.400 persone. Nel 2014 l’Is ha incassato circa trecento milioni di dollari dal traffico di esseri umani secondo un rapporto della Global iniziative against trasnational organized crime. Tom Keatinge del Royal united services institute afferma – però – che “non è l’Is a gestire il traffico, ma tassa chi lo fa”. «Più che la minaccia del gruppo Stato islamico, l’impegno del governo italiano è dovuto all’urgenza di fermare i migranti e tutelare l’interesse dell’Eni» queste le parole di Alberto Mucci, ripreso dal settimanale “Internazionale” riguardo all’impegno italiano in Libia. Il petrolio. Sembra inconcepibile che di fronte alla tragedia che si sta compiendo anche in questo preciso istante l’interesse sia rivolto a quel maledetto liquido nero. Eppure «[…] in Libia l’Italia ha già grandi interessi. L’Eni ha quasi un monopolio sul settore petrolifero libico: è presente nel paese dal 1959 ed è l’unica azienda internazionale a operare a pieno regime. La sua presenza in Libia ha un’importanza strategica vitale per l’Italia e, nonostante gli enormi costi per la sicurezza, è forse il principale motivo degli sforzi di Roma per pacificare il paese nordafricano, con o senza alleati. […]»: sempre parole di Mucci.

Finché l’Europa non vorrà prendere a cuore la questione in modo serio, le morti in mare continueranno e gli sbarchi aumenteranno. Ma se gli interessi principali rimangono il petrolio ed il denaro proveniente dal traffico di esseri umani invece che salvaguardare le loro vite mi viene da pensare che questo non costituisca un problema. Dobbiamo renderci conto che la disumanizzazione dei profughi è già in atto. Una differenza rispetto al passato però è individuabile: per non vedere ciò che sta succedendo non li identifichiamo come animali senza diritti come facevano i Nazisti, semplicemente facciamo finta che il loro sangue in mare sia azzurro, in modo che non ci guasti il panorama.

Massimiliano Mattiuzzo

 

“NOI VIVI” – Attraverso la Galleria Borbonica…attraverso la vita!

Solo i morti hanno visto la fine della guerra. Platone

Un parcheggio multipiano. Moderno, nuovo, in una delle zone più belle di Napoli.

Risali in superficie ed entri nella Storia, quella vissuta, quella fatta e sudata da uomini, donne e bambini; la storia della paura, delle corse affannate in cerca di riparo, dell’angoscia di esserci tutti.

Entri nella Galleria Borbonica e, senza nemmeno chiudere gli occhi, ti ritrovi immerso negli anni della seconda guerra mondiale, periodo in cui Napoli fu la città più bombardata, con 200 raid aerei dal 1940 al 1944, di cui 181 soltanto nel 1943.

Napoli sepolta nella guerra non aveva avuto un suo poeta né un suo reporter, perché per tutti era stato troppo difficile e sorprendente il sopravvivere all’arida tragedia di quegli anni per poterla subito fissare e prolungare in una memoria, in un diario.  Nello Ajello

Se ti concentri vedi le persone che entrano, corrono, con la paura sui loro volti; i bambini ritrovano i giochi lasciati il giorno prima, le mamme si assicurano di aver preso nei 15 minuti a disposizione tutto l’occorrente per stare…quanto? E chi poteva saperlo là sotto. Il tempo diventava una variabile superflua, ciò che contava era vedere che i tuoi cari erano lì accanto a te metri sotto terra.

Percorri la galleria e ti imbatti in resti di brandine, giocattoli, boccette di profumi…già i profumi! E non per farsi belli, ma per poter respirare!

Ciò che cattura più l’attenzione sono però le scritte sui muri: nomi, date e poi la più semplice ma più commovente: “NOI VIVI”. Provo ad immaginare cosa potessero significare quelle due parole per chi le ha scritte…sopravvissuti certo, ma intendeva tutta la famiglia, come a dire “ce l’abbiamo fatta”?, oppure indicava “ehi noi esistiamo! noi siamo sotto terra, ma siamo vivi! Vogliamo vivere e non moriremo per colpa vostra!”, come una specie di sfida a chi lassù, tanto meccanicamente, sganciava bombe sui civili.

Ecco, quella scritta a me ha trasmesso un’appassionata volontà di vita, uno stringere i denti una volta ancora, senza accettare di uscire da quel rifugio come topi che escono dalla tana incerti di non rivedere il nemico.

NOI VIVI.

Una complessità ben celata è nascosta dietro a queste parole, perché vi sono tante, troppe implicazioni emotive, culturali, storiche.

Oggi chi di noi pronuncerebbe questa frase? Potremmo essere scambiati per matti o per scopritori di acqua calda, eppure non possiamo nemmeno immaginare quanto per niente scontata potesse essere dentro quel rifugio.

Proviamo solo ad immaginare il suono della sirena che indica il coprifuoco e in 15 minuti prendere le cose indispensabili per stare “x” tempo sottoterra, magari non solo per te ma anche per i tuoi figli o i tuoi nonni; e alla fine, uscire dal rifugio con quali sensazioni, quali pensieri?

La persona che ha scritto Noi vivi cosa avrà trovato quel giorno, una volta ‘riemersa’? La stessa città? E la sua casa era ancora in piedi?

Tutte queste domande te le poni mentre visiti la Galleria Borbonica, perché hai voglia di capire, di riflettere sul fatto che in quell’epoca, la maggior parte del tempo era trascorsa sottoterra.

Libertà negata, quella di essere Persone libere di camminare per la strada, di andare a lavorare, di andare a scuola! La libertà di agire senza costrizioni e di autodeterminarsi era abolita, perché costretta dentro 4 mura, circondata da centinaia di persone e dominata dalla paura, quella stessa paura che ti faceva però riscoprire il valore della solidarietà e della condivisione, che ti faceva sorridere quando incontravi le persone della volta prima, felice che anche loro fossero ancora vive.

Ecco allora forse una qualche libertà era concessa anche sottoterra: quella della volontà di vivere, di crederci, di sperarci tutti insieme e di attendere la fine di un incubo, urlando “noi siamo vivi qua e saremo vivi lassù”.

Quando la guerra finì, possiamo pensare che quei rifugi vennero abbandonati e le persone che vi trovavano riparo tornarono a casa…invece la fine della guerra portò con sé gli strascichi di una tragedia senza fine, lasciando sfollate migliaia di persone.

La negazione di una casa propria, la dignità di uomini e donne calpestata dalle macerie rimaste al suolo, questo c’era nella confusione del fragore della “liberazione”. Liberazione da cosa? Dal sottosuolo? Dal nemico? Ora non importava più il prima, si pensava solo al futuro, a cosa sarebbe successo da quel momento in poi, la preoccupazione era di sopravvivere anche al senso di impotenza e di perdita materiale e morale.

In quel tunnel, anche se la guerra era finita, continuarono a vivere almeno 500 persone.

La prigionia non era, dunque, finita.

Se vi capiterà di percorrere la galleria, assimilate ogni sensazione, pensate che centinaia di persone vi passarono giornate intere, non solo un’ora come noi visitatori; fatevi avvolgere dall’estrema umidità, ascoltate ogni rimbombo dei vostri passi, guardate con empatia i nomi incisi nella pietra e pensate che tutto questo era ‘banale’ quotidianità.

Potete avere notizie della Galleria seguendo la pagina FB: Galleria Borbonica o visitando il loro sito: Galleria Borbonica

Valeria Genova

[Immagine tratta da Google Immagini]