Brevemente, sull’amore

Esiste un ormone nel corpo umano definito “ormone dell’amore”. Si tratta dell’ossitocina, un ammasso di amminoacidi che permette di amplificare le esperienze emozionali che viviamo, riempendole di entusiasmo e trepidazione.

In realtà sarebbe più corretto definire questa componente dell’individuo, come “ormone dell’innamoramento”, perché è proprio questa fase dei rapporti interpersonali, che suscita fervore e passione. Si tratta di un periodo che può manifestarsi più volte nell’esistenza di una persona, ma che può durare pochi mesi o, nelle situazioni che hanno uno sviluppo più lento, fino a tre anni. La differenza tra innamorarsi e amare risiede, dunque, in questo: lasciarsi travolgere dall’istinto e, al contrario, decidere di stare accanto ad una persona. Due fasi spesso accomunate, ma in realtà opposte, che presuppongono due tipi diversi di predisposizione, che possono susseguirsi, ma mai sostituirsi.

Ci troviamo nell’epoca in cui esse vengono confuse, spesso abbandonando la nave poco prima che ci si possa ritrovare nello stadio della responsabilità, della scelta, dell’amore. Il confronto – talvolta scontro – che Hegel poneva alla base della crescita dell’Io attraverso l’altro, viene considerato come superfluo, come un qualcosa di nefasto da tenere debitamente lontano. Ci si rifugia in considerazioni, quali: “la vita è già difficile, perché dover lottare anche per amore?” Quasi come se l’amore fosse un residuo, una sorta di tertium non datur dopo il lavoro e gli impegni personali; chi me la fa fare?

La risposta la si potrebbe trovare ne L’amore ai tempi del colera, in Jane Eyre, o più semplicemente parlando con i propri nonni o i propri genitori. Tuttavia il confronto ha lasciato spazio all’individualismo, in base al quale ognuno sa badare a sé e nessuno ha bisogno di nessuno. La conseguenza non è un mondo più perfettibile, bensì una vera e propria castrazione di emozioni. Ci siamo resi fautori di strumenti e di istituti che – a guardare indietro – viene da chiedersi come si potesse vivere senza. Si pensi al divorzio, all’aborto, alla possibilità di cambiare città in pochissimo tempo; forse, però, ci siamo al contempo dimenticati della parte “positiva” della vita, laddove il termine in questione fa riferimento alla sua naturale etimologia e che – dal latino ponĕre, ci regala il significato di “porre”, “fare”, “aggiungere”. Ci siamo dimenticati di come si ama. Sono forse le priorità ad essere cambiate?

Galimberti, eccelso pensatore e scrittore, parla di questa come dell’ “epoca della revocabilità”; un’epoca in cui si «sviluppa un concetto di libertà come assoluta revocabilità di tutte le scelte, che non implicano più impegni e conseguenze perché tutto, dalla scelta di un amico a quella di un amante, dalla scelta di una gravidanza o di una carriera, può essere suscettibile di una cancellazione immediata, non appena si offrono opportunità all’apparenza più gratificanti.» Ed allora risulta più proficuo vivere il momento, cullarsi nel “qui ed ora”.
Nulla quaestio se, nel rapportarsi in tal modo ad un’altra persona, si comunica in modo diretto e trasparente questo mood prescelto di vita. Ma cosa succede se si ingenerano aspettative, se offuscati, magari da quell’ossitocina che spesso annebbia le menti, non si rende edotto l’altro, del proprio non essere capaci di amare, cioè di “desiderare in modo totale” (dal sanscrito “kama”)?

Il mondo che stiamo costruendo risulta sempre più caratterizzato da un’egosintonia dell’anaffettività, in cui ognuno trova quiete solo nel rapporto con sé stesso, nel prefiggersi continui obiettivi di formazione o di lavoro, tralasciando il lato della medaglia che attiene all’investimento nei rapporti umani. La creazione di un “nido” viene vista come anacronistica, quasi come un affronto alle tante battaglie femministe – a partire dal 1800 con il movimento delle Suffragette – verso la conquista del diritto di voto, di condizioni migliori nei luoghi di lavoro, dell’accesso all’università, dell’uguaglianza uomo – donna. Ma oggigiorno siamo molto distanti da quello che, successivamente, anche nel 1900, Simone de Beauvoir sosteneva e creava, in una Francia colpita dalla seconda guerra mondiale, iniziando dalle menti dei suoi studenti, da un mondo accademico che – nonostante le morti e la disperazione – aveva sete di rinnovamento. Una libération des femmes che chiedeva di aggiungere, di ottenere, di possedere un valore concreto all’interno di una società ancora troppo maschilista e patriarcale per poterne accettare le regole.

Oggi si chiede di poter togliere, abdicare, venir meno. L’ideale è stato per lo più sostituito da un programma giornaliero personale, che non contempla l’altro. In questo contesto, delineare un sentimento in fattezze non evanescenti, diviene un’impresa ardua, che confligge col disperato bisogno di essere protagonisti, di rivestire sempre il ruolo di “figli”, in un mondo con sempre meno genitori.

 

Chiara Savazzi

 

Classe ’93. Laureata in giurisprudenza a Bologna, è dottoranda di ricerca in diritto penale a Catanzaro, dove si occupa principalmente di neuroscienze e imputabilità. Ha un master in diritto di famiglia ed è Coordinatrice Genitoriale, perchè crede che le parole – ancor prima dei tribunali – possano molto. Pubblica su svariate riviste giuridiche e non (Pacini Giuridica, Sole 24 Ore, Il Mulino, ecc), su opere collettanee e su libri di diritto. È specializzanda in criminologia investigativa.
Il suo amore per la scrittura nasce a sei anni e mezzo con la prima poesia “Il sole ride” e, da allora, scrive sempre i suoi contributi a mano, prima di ricopiarli al computer.
Il suo cuore è costantemente diviso: fra due città; fra cane e gatto; fra diritto e letteratura. Ama: i viaggi in solitaria, le persone leali, i mercatini vintage.

 

[Immagine tratta da Unsplash.com]

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La cancel culture: nuova frontiera della damnatio memoriae?

Georg W.F. Hegel sosteneva che ogni momento della storia fosse necessario e ragionevole, ma alla luce dei recenti avvenimenti causati dall’invasione dell’Ucraina del 24 Febbraio 2022 da parte della Russia, tale concetto sembra venir meno sempre più, portando con sé episodi di ostracismo, spesso e volentieri ingiustificato, nei confronti della cultura russa, che investono anche personaggi morti e sepolti che nulla c’entrano con tali fatti.
Si pensi in prima battuta al caso del ciclo di quattro lezioni di Paolo Nori su Dostoevskij che si sarebbe dovuto svolgere presso l’Università Bicocca di Milano, ma che quest’ultima ha preferito rimandare al fine di evitare ogni forma di polemica in un momento di forte tensione, ripensandoci poi in un secondo momento, dopo essersi resa conto dell’assurdità di tale censura: può davvero essere così lesivo tenere un corso su un colosso della letteratura russa morto nel 1881? È questo il modo di palesare la nostra solidarietà al popolo ucraino?

La domanda che dobbiamo porci è se sia realmente efficace combattere un’ideologia non condivisa con la cancellazione della cultura o della storiaStoricamente, specie nell’antica Roma, era già presente un sistema molto simile a quello che oggi definiremmo cancel culture: ovviamente tutti ricorderanno nei libri di storia il concetto di damnatio memoriae, ossia la pena consistente nella cancellazione di ogni traccia riguardante un determinato personaggio come se egli non fosse mai esistito, che si applicava attraverso l’abbattimento di statue equestri e monumenti inerenti ai cosiddetti hostes (nemici del Senato romano) e ai traditori dello stato.

Ma la damnatio memoriae, a differenza della moderna cancel culture, derivava dall’imposizione di poteri pubblici dotati di coercizione e veniva applicata, ragionevolmente, al fine di abbattere le tracce storiche di sistemi ai quali non si sentiva più di appartenere. Sappiamo bene, infatti, che tale punizione non venne applicata solo nella Roma antica, ma anche a personaggi e regimi politici di epoca moderna: subirono infatti una damnatio memoriae il fascismo in Italia, il nazismo in Germania, il franchismo in Spagna, così come furono rimosse le statue di di Saddam Hussein in Iraq e di Gheddafi in Libia, lo stesso avvenne in Unione Sovietica che, dopo la morte di Stalin, subì un processo di destalinizzazione atto alla cancellazione di ogni monumento che esaltava il culto del dittatore. La cancel culture, invece, nonostante le affinità che la avvicinano al concetto di damnatio memoriae, si delinea come moderna forma di ostracismo nella quale qualcuno o qualcosa diviene oggetto di proteste in nome della cultura del politically correct, facendo sì che tale personaggio o ideologia venga rimossa sia dal mondo reale, che da quello digitale e social.

La cancel culture può considerarsi dunque la nuova frontiera della damnatio memoriae? Per rispondere a questa domanda è necessario sottolineare la differenza tra storia e memoria: abbattere una statua o cancellare un’effige, non elimina certamente ciò che è stato, lascia quindi immutata la storia, ciò che viene cancellata è solo la memoria di un determinato personaggio o di un’ideologia; inoltre la damnatio veniva applicata per eliminare dalle città simboli che non appartenevano più alla cultura di un determinato popolo e nei quali non si rispecchiavano più, sarebbe piuttosto assurdo immaginare Berlino ancora piena di svastiche o una Roma colma di appariscenti simboli legati al fascismo. Diverso è però applicare una censura nei confronti di elementi storico-culturali appartenenti ad epoche passate, solo perché affini ad ideologie attuali che oggi non condividiamo: il caso preso da esempio all’inizio, delle lezioni su Dostoevskij è solo uno dei tanti esempi che si potrebbero portare; per citarne un altro potremmo ricordare la sospensione da parte della HBO dello streaming sulle piattaforme digitali del famosissimo film del 1939 Via col vento, in seguito agli episodi razziali che portarono alla morte di George Floyd in America il 25 maggio 2020 e le conseguenti polemiche che hanno condotto a episodi iconoclasti volti alla rimozione di statue e monumenti di un passato razzista e schiavista nei confronti degli uomini di colore.

Per quanto assolutamente comprensibile possa essere l’indignazione di fronte all’episodio della morte di Floyd, non si può dire lo stesso della cancellazione di un film del 1939, girato in un’epoca differente impossibilmente sensibile alle tematiche che attualmente riusciamo a comprendere. Lo stesso si può dire della questione Dostoevskij: che la guerra attuata dalla Russia nei confronti dell’Ucraina vada condannata è indubbio, ma perché cancellare corsi su un pilastro della letteratura, solo perché russo? Non è censurando un corso universitario, un vecchio film dalle piattaforme digitali o celandosi in maniera ipocrita dietro terminologie politicamente corrette che si combatte un’ideologia attuale alla quale non ci sentiamo di appartenere, specie se ciò che si vuole andare a cancellare è ormai assolutamente decontestualizzato dal mondo attuale, sarebbe quindi il caso di essere più “comprensivi” nei confronti di personaggi, libri, film e così via, facenti parte di un passato, che per quanto spesso sia stato oscuro, non è possibile cancellare.

 

Federica Parisi

 

[Photo credit Pixabay]

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Io contro di te: Hegel e la lotta per il riconoscimento

Leggere la Fenomenologia dello spirito è un atto di scoperta e sofferenza continua: ogni volta che credi di averla capita, ecco che riesce a sorprenderti e a rivelarti qualcosa di nuovo a cui non avevi fatto caso. Sembra una di quelle calli veneziane che più le percorri e più ti risultano oscure e misteriose, conducendoti sempre in una direzione diversa. Ed è proprio per questo suo continuo ribollire di idee che oggi vorrei ritornare sulle pagine della Fenomenologia e parlare un po’ del tema del riconoscimento tra auto-coscienze. Però anziché considerare questo tema attraverso la famosa dialettica tra servo e padrone, vorrei concentrarmi sul suo stadio preparatorio. Sto parlando della lotta per la vita e la morte. Questa lotta è estremamente interessante, perché ci mostra con grande chiarezza i rischi di una concezione astratta dell’identità personale; rischi che si manifestano quotidianamente negli scontri tra fidanzati, amici, genitori e figli, etc.

Per cominciare bisogna dire che l’esperienza che Hegel ci sta descrivendo con questa lotta è un’esperienza originaria, perché rappresenta un desiderio di riconoscimento che ciascuno di noi – in quanto uomo – vive costantemente dentro di sé e fuori di sé, nel confronto con gli altri. Nel caso specifico della lotta per la vita e la morte, Hegel ritiene che questo desiderio si caratterizzi per il fatto che ciascun uomo pretende di affermare la sua assoluta libertà e indipendenza, e di essere riconosciuto come tale, senza però voler riconoscere a sua volta l’altro. Per esempio, un figlio adolescente pretende il riconoscimento unilaterale da parte dell’autorità del padre, che per lui significa dire: «Io sono grande e, se voglio uscire con gli amici, posso fare ciò che Io voglio!»
Allo stesso tempo, un padre pretende che il figlio sottostia e riconosca come assoluta la sua autorità, affermando che «Io sono il padre e decido Io cosa è meglio». In questo caso, è chiaro che le due auto-coscienze che sono coinvolte nello scontro si considerano entrambe come assolutamente libere e indipendenti, ovvero come un “puro essere per sé” che non è limitato da nulla poiché non è dipendente da nulla. Considerandosi così assolutamente libere, però, le due auto-coscienze non possono certo riconoscere l’altro come un loro stesso pari, ma soltanto come una cosa che limita momentaneamente la loro libera espressione di sé.

Siccome il riconoscimento è essenziale per l’auto-coscienza in generale, non le è mai sufficiente considerarsi libera in sé, ma sempre vuole essere riconosciuta in quanto libera dall’altra auto-coscienza. È così che nasce l’eventualità del conflitto e la vera e propria lotta per la vita e la morte: padre e figlio, per esempio, non si accontentano di dire «Io sono libero» ma bramano al contempo di ottenere la prova della propria libertà. Questa prova, ovviamente, passa attraverso l’altro, poiché mancando l’altra coscienza mancherebbe anche il mezzo del riconoscimento. Ecco che così si mostra il fraintendimento di fondo di questa lotta, in cui i due contendenti non comprendono che riconoscersi vuol dire includere e non escludere l’altro.

Ora, per Hegel, l’esito necessario di questa lotta tra auto-coscienze che si considerano astrattamente libere e indipendenti è che una delle due decida di abbandonare la scontro, al prezzo di riconoscere senza essere riconosciuta dall’altro contendente. Così si raggiunge una forma di riconoscimento, seppur assolutamente asimmetrica: un sé riconosce l’altro e così abbandona la propria assoluta indipendenza e libertà, l’altro sé rimane legato a questa indipendenza e libertà ottenendo il riconoscimento desiderato. Nel caso di padre e figlio, è solitamente il figlio che rinuncia alla sua libertà di uscire e divertirsi con gli amici e dà il riconoscimento dovuto al padre, che al contrario rimane fermo sulla sua posizione (ovviamente, è anche possibile che sia il padre a rinunciare alla sua autorità e lasciare fare al figlio tutto ciò che vuole).

In conclusione, la lotta per la vita e per la morte è estremamente interessante, poiché ci rivela qualcosa di essenziale sul modo in cui ci dobbiamo relazionarci agli altri; una relazione che passa attraverso l’evitare di affermare una concezione astratta e completamente auto-assorta della nostra identità. Infatti, ogni volta che crediamo di essere assolutamente liberi e indipendenti e di poter ottenere il riconoscimento dell’altro attraverso l’esclusione, ecco che siamo condotti alla più primitiva e ottusa violenza (sia verbale sia fisica); affermiamo, inoltre, con convinzione che la relazione con l’altro va rifiutata perché “Io” sono naturalmente auto-sufficiente e ci chiudiamo, infine, in un circolo vizioso di isolamento.

 

Gaia Ferrari

 

[Photo credit Marc Sendra Martorell via Unsplash]

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Fiat mundus, pereat iustitia: sulla NATO e sull’Ucraina

Davanti agli occhi sconcertati e scandalizzati dell’opinione pubblica, una grande nazione ne assale improvvisamente una più debole, piegandola con la pura potenza militare in una serie di scontri brutali e chirurgici. Le altre potenze, infiammate da giusto sdegno… restano a guardare, minacciando ritorsioni, ammonendo, colpendo a suon di sanzioni rese inefficaci in partenza da dissidi e disaccordi e dalla accorta preparazione dell’invasore.

L’invasione in questione era quella della Polonia da parte della Germania nazista, nel 1939, ma potrebbe benissimo essere una cronaca degli ultimi giorni. Senza voler equiparare Vladimir Putin a Adolf Hitler, o la Russia contemporanea al Terzo Reich, i paralleli emergono evidenti.
Al netto dei retroscena e delle dietrologie, senza voler indagare, in una fase evidentemente precoce, le responsabilità della NATO o della Federazione Russa, senza rivangare la lunga storia di conflitto etnico e culturale nelle regioni di Crimea e Dombass (Ucraina), merita forse, in questo momento, focalizzarsi sulla (non) reazione della comunità internazionale e dell’opinione pubblica, dei non direttamente coinvolti. Sulla nostra reazione.

Come nel ’39, le avvisaglie del conflitto ci sono state, confermate da più fonti, ignorate da più parti. Come nel ’39, nessuno ha creduto fino in fondo che il leader autoritario di turno muovesse effettivamente guerra: ieri perché un sanguinoso e devastante conflitto si era appena concluso, oggi perché uno scontro militare su territorio europeo è considerato praticamente impensabile da oltre settant’anni (con buona pace dei Balcani). Come nel ’39, infine, le reazioni tardano ad arrivare e sono quasi simboliche, più emblematiche prese di posizione che non effettive scelte di campo, una voce grossa a volte sincera, mai incisiva.
Su una cosa tutti gli intervenuti sono d’accordo: non ci sarà un singolo soldato inviato al fronte, l’opzione bellica è civilmente esclusa. Ma neppure ci saranno sanzioni realmente efficaci, e neppure ci sarà un massiccio intervento diplomatico. I tentativi erano validi “prima”: una volta cominciato, tanto vale che finisca al più presto, possibilmente motu proprio.

Immanuel Kant, in Per la pace perpetua, aveva fatto proprio il motto asburgico Fiat iustitia et pereat mundus, ovvero “Sia fatta giustizia, perisca pure il mondo”. Nel rigido sistema razionale kantiano, la frase latina era un invito ai governanti a seguire una inflessibile morale deontologica, per la quale i principi morali erano superiori a ogni cosa, perfino alla vita umana. Per quanto un simile adagio massimalista sia evidentemente estremista, sembra quasi che la (non) azione di questi giorni risponda a un principio opposto e ancora più esecrabile: Fiat mundus et pereat iustitia: “Sia (ri)fatto il mondo, muoia pure la giustizia”.
Si sbrighi Putin a deporre Zelens’kyj e a sistemare in Ucraina un governo fantoccio filorusso che blocchi l’avanzata della NATO; si sbrighi ad annettere quante più parti dell’Ucraina gli aggradano; si sbrighi a bombardare, schiacciare, demolire, distruggere, purché si possa tornare al più presto alla vita di prima, alla solita tranquillità, a preoccupazioni degne del terzo millennio invece che a quelle legate all’antiquata e anacronistica guerra. Poco importa che a questa fretta di concludere, a questo desiderio di farla finita il prima possibile, siano sacrificati migliaia di ucraini, privati della loro terra, della loro serenità, dei loro averi, della loro vita.

Nel ribaltamento crudele e beffardo del motto asburgico, purtroppo, pare ci si scordi sempre di una sua revisione più propriamente etica, che un altro grande della filosofia, Hegel, ne fece appositamente come risposta al sistema kantiano: Fiat iustitia ne pereat mundus, “Sia fatta giustizia affinché non perisca il mondo”. Ora come ora, sarebbe l’unica versione realmente necessaria, l’unica rispondente alle preghiere del cuore degli uomini piuttosto che agli interessi di piccole e grandi nazioni. L’unica ancora inesplorata in questa guerra in Ucraina.

 

Giacomo Mininni

 

[Immagine di copertina proveniente da Pixabay]

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La potenzialità segreta dello scontro secondo Hegel

Scorrendo qualche riga di filosofia hegeliana, può accadere che ci venga in mente la seguente immagine: un soldatino che forte della sua armatura si contrappone al mondo, brandendo fieramente la spada. Pur essendo una scelta forse singolare per rappresentare il sistema del celebre pensatore tedesco, ne suggerisce perlomeno un concetto chiave: la necessità dello scontro nel processo di compimento della Tesi.

Questo particolare aspetto può rievocare a tratti la trama travagliata ma a lieto fine delle favole di quando eravamo bambini: ci è presentata inizialmente una piccola Tesi ignara del mondo circostante che, quando si stufa di giocare nella sua campana di vetro e decide di sfondarne le pareti, per la prima volta viene a contatto con la durezza e l’asperità della realtà. Costretta a fronteggiarsi con forze avverse, Tesi determina finalmente se stessa attraverso la sua Antitesi. Per la coppia protagonista, e per tutte le altre che analogamente si combattono, è guerra aperta: in una violenta contrapposizione, ogni tesi è negata dal suo contrario e costretta a un costante confronto-scontro per rivendicare la propria identità. Ciononostante una volta che tali scontri saranno terminati, ogni tesi scoprirà una sé dall’autoconsapevolezza e forza rinnovate.

Immaginiamo di convertire la visione di quelle piccole tesi che si negano reciprocamente in una folla brulicante di esseri umani, ciascuno intento a scoprire e a difendere la propria strada: se si ripetesse la favola hegeliana?
Qualcosa che inizialmente appariva puramente astratto – il sistema cardine dell’idealismo – si rivela fecondo di insegnamenti oggi, io credo, particolarmente importanti: è differente una relazione significativa da una che invece è solo passeggera, magari fondata su un mutuo interesse utilitario? È possibile smantellare il mito che ritiene valide solo le relazioni sempre armoniose, pacifiche? E se l’armonia non coincidesse con un percorso perennemente lineare ma assomigliasse, invece, a un sentiero faticoso e irto di spine?

La risposta affermativa di Hegel sembrerebbe condensarsi proprio nella figura triplice della Tesi, dell’Antitesi e della Sintesi: i rapporti veri nascono dallo scontro con l’altro e sono sempre fertili, dove “fertile” esprime un apprendere costante, e dove “apprendere” è contemporaneamente assorbire e trasmettere.
L’autentico rapporto umano è dunque uno scontro-scambio, in cui l’urto di partenza sfocia in un “aggancio spirituale” dei soggetti interagenti, ma la fusione finale è paradossale, in quanto si realizza nella lacerazione personale: confrontarci con la realtà esterna è frantumare la campana di vetro. Possiamo intraprendere un reale percorso di rafforzamento interiore solo nel momento in cui accettiamo di squarciare le nostre sicurezze e le nostre difese e di metterci in discussione da capo a piedi, una volta e un’altra volta ancora, per poter accogliere ciò che di vivo e di arricchente ci offre il mondo circostante e infondere in esso ciò che di unico dentro di noi custodiamo.

Immaginiamo un contesto distopico nel quale un bambino viene chiuso fin dalla nascita in una stanzetta, senza venire mai a contatto con la realtà esterna: egli non ha stimoli fisici di nessun tipo, è completamente abbandonato alla sua interiorità. Come, cosa sarebbe dieci anni dopo? O venti, o quaranta? Che persona sarebbe sul punto di morire? Io credo un guscio vuoto: un seme cavo e spoglio, insanabile.
Le relazioni interpersonali sono ciò che ci sostanziano, perché in esse definiamo la nostra identità: che esse avvengano per lo più attraverso lo schermo di un computer, le pagine di un libro o di persona, rimangono fondamentali per la nostra evoluzione spirituale; e il loro contributo, sia esso positivo o negativo, si rivela determinante nell’alimentare un processo interiore che non ha mai fine e che si rinforza di ogni singolo contatto, fisico e non fisico.

Ogni contatto con l’esterno ci consente di sopravvivere, ma quello che ci pungola alla vita – perché ci spinge a lottare per noi stessi e a sviluppare ed affermare la nostra identità – è il tipo di relazione rappresentato da Hegel: la relazione-conflitto. Con essa il filosofo si riferisce non ai conflitti di per sé, come le guerre o i genocidi, ma alla lotta minuta e personale che si instaura tra due esseri umani all’interno di una relazione neofita o anche già consolidata.
La filosofia di Hegel ci suggerisce che il conflitto con la vita e più in generale con le persone che ci circondano sia un’indispensabile base di crescita. Aprirci all’altro e costruire una relazione significativa implica sì la lotta – e le ferite di quella lotta, e il dolore di quelle ferite e il tempo del loro rimarginarsi – ma non esisterebbero maturazione personale o arricchimento reciproco, non esisterebbe Sintesi senza il rinnovamento quotidiano del confronto con la realtà esterna e la puntuale rimessa in discussione di noi stessi.

 

Cecilia Volpi

 

[Photo credit drown_ in_city via Unsplash]

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Il nuovo spirito di Hegel e la grandezza del negativo

Georg Wilhelm Friedrich Hegel è stato uno dei più grandi filosofi che la storia del pensiero ricordi. Facendosi largo ad ampie bracciate fra altri giganti dei suoi tempi – come Kant, Fichte e Schelling – è riuscito a costruire un sistema teoretico estremamente articolato e complesso, ma con la facciata inscalfibile di un monolita. Sebbene potesse sembrare che altre proposte filosofiche, come quelle di Schopenhauer, Kierkegaard e Marx, in aperta rottura con quella hegeliana, avessero minato le basi del pensiero del maestro di Stoccarda – facendolo cadere in disgrazia per decenni e che tale stato di sfortuna fosse destinato a perdurare con il rifiuto dei grandi sistemi da parte del postmoderno novecentesco – in realtà, nonostante tutto, Hegel non è mai stato superato.

Per questo motivo, allora, perché non tentarne una breve sintesi, che possa magari servire da nuovo strumento per leggere la contemporaneità, interpretare il nostro momento storico universale, declinato nel particolare quotidiano di ciascuno?
Quale occasione migliore per svecchiare la lettura di questo pilastro del pensiero occidentale e riprenderne gli spunti teoretici più affini al nostro momento dello Spirito?

Slavoj Žižek (uno dei più famosi interpreti viventi di Hegel) spiega che nessun pensatore, dopo Hegel, è stato veramente post-hegeliano, quanto, piuttosto, anti-hegeliano. Così, in questo tentativo di negazione del pensiero di Hegel, si pongono le basi non solo per il post-hegelismo, ma anche per una riproposizione del parere filosofico del maestro. Hegel, allora, risulta essere non più un fossile di un’era arcaica del pensiero.Piuttosto, un intellettuale attualissimo e pronto nel fornire utili strumenti per interpretare la realtà a chi riesca a ri-leggerlo senza la difficoltà di dover abbandonare le classiche esposizioni manualistiche.

Ebbene sì, il vero Hegel non è quello del banale sistema triadico, nel quale tesi e antitesi, risolvendosi nella sintesi, permettono un passaggio relativamente semplice e indolore dal negativo al positivo; piuttosto è il filosofo del superamento del principio di non contraddizione, dell’Aufhebung nel quale gli opposti non solo sono conviventi e compatibili, ma la loro compresenza rappresenta addirittura la condizione di determinabilità degli enti e costituisce intimamente tutto ciò che esiste nella realtà: ogni cosa materiale, evento storico, processo mentale ha in sé delle determinazioni e quelle a esse opposte e, proprio tale caratteristica, è ciò che permette di definire e circoscrivere cose, eventi e processi in un modo piuttosto che in un altro.

La dialettica, quindi, non è più solo la legge del pensiero, ma diventa anche quella dell’essere e il negativo, lungi dall’essere la macchia nera nel processo di realizzazione dello Spirito, diventa il punto di partenza, nonché di forza di un’Idea che ha come cifra originaria la ferita, ma che porta avanti un percorso infinito di automedicazione.

In questa prospettiva, l’Assoluto, essendo internamente contraddittorio, vive in un continuo stato di conflitto, che si manifesta nelle declinazioni concrete e particolari del mondo degli enti e, quindi, nella storia. È allora possibile operare una revisione interessante anche del processo storico concreto, nel quale la contingenza precede sempre, quasi paradossalmente, la necessità: se è vero il primato del negativo, la necessità non è un qualcosa di positivo che sussume le cose contingenti, ma il rovescio negativo di queste; è ciò che nasce sempre retroattivamente e a seguito di determinazioni storiche: la caduta dell’Impero Romano, per esempio, potrebbe essere vista come un avvenimento inevitabile, date le cause retrostanti; nella prospettiva hegeliana, invece, il crollo dell’Impero appare necessario solo perché è effettivamente avvenuto e, guardando indietro e non potendo immaginare altri scenari, viene classificato come ineluttabile.

A questo punto, anche il momento precedentemente definito di “sintesi” è opportuno che prenda un altro nome: vista la centralità della negazione, il terzo traguardo dello spirito sarà la negazione della negazione, definizione che ribadisce quanto ciò che può sembrare un ostacolo nel percorso della storia dell’Intelletto, sia, invece una condizione positiva di possibilità. Nel medesimo lume interpretativo, infine, può essere inserito anche il concetto hegeliano di ripetizione: ciò che sembra riproporsi non è un semplice ritorno dell’uguale, ma un ripresentarsi di situazioni con caratteri così radicalmente nuovi da non poter non interferire con lo svolgersi degli eventi.

Il pensiero di Hegel, comunque, al di là di ogni tentativo di semplificazione, resta di complessità e profondità uniche e impressionanti; tuttavia potrebbe fornire utili spunti per perlustrare anche il fondale dei nostri eventi quotidiani, individuando nelle nostre singole esistenze concrete barlumi particolari della luce universale dello Spirito, come ferita che si automedica: già partire dalla rinnovata centralità riconosciuta alla contraddizione, accettare la negatività – o, addirittura, renderla una conquista – ci permette di inquadrare il male del mondo e delle nostre vite in una prospettiva più ampia, come il dorso di una medaglia che ha bisogno del suo retro per completarsi e determinarsi.

 

Vittoria Schiano di Zenise

 

[Photo credit Nenad Milosevic via Unsplash]

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Elogio dell’alterità: perché non possiamo negare l’altro

Non esiste scienza che abbia tenuto a margine il problema dell’identità, protagonista indiscusso delle riflessioni psicologiche, sociologiche, antropologiche e, naturalmente, filosofiche di ogni tempo. La filosofia, infatti, non si è sottratta al problema, offrendone risposte plurime e diversificate, tanto sul campo logico ed ontologico, quanto su quello etico e politico. Ma sebbene di identità hanno parlato in modo più o meno chiaro svariati pensatori, molto meno calcato si è rivelato il topos dell’alterità, portando a pensare, anche nel senso comune, all’altro come un non-ente e un non-uomo, un elemento trascurabile e sempre definibile via negationis per ciò che noi siamo e lui, in quanto altro, non è. Scopo di questo piccolo scritto è allora offrire un breve sguardo sull’altro, quella nota a margine della filosofia, quel semplice sottinteso che qui vuole essere risignificato, rivalutato, riconosciuto in quanto imprescindibile e coessenziale al noi.

L’intrinseco ed ineliminabile filo che unisce identità e alterità, “noi” e l’altro, è fin da subito rintracciabile nel momento in cui ci poniamo la domanda sul suo significato. Banalmente, identico si riferisce a ciò che rimane sempre uguale a sé stesso, ciò che non è altro da sé. Notiamo così come nella stessa definizione di identità sia situato il suo rovesciamento o, per dirla con Hegel, notiamo come nella sintesi in quanto tale sia necessariamente presente la negazione della tesi, l’antitesi, che non è più solo la privazione della tesi, «il niente astratto»1, ma ha un suo statuto, è «un essere altro»2 e un suo valore specifico, perfino costitutivo. A riprova di questo gioco dialettico tra identico e altro, ci rendiamo conto di quanto nel processo di creazione del proprio Sé socio-individuale sia imprescindibile riconoscersi in un dato habitat relazionale, un ingroup, il quale non solo definisce chi siamo e l’immagine che di noi abbiamo, ma si costruisce proprio in contrasto rispetto ad un outgroup esterno: è ciò che accade quando ci si identifica in una prospettiva politica, sentendocisi di sinistra e per questo non di destra; in un gusto artistico, apprezzando il rock e meno gli altri generi musicali; nutrendo alcuni interessi rispetto ad altri e per questo configurandosi in una comunità più o meno ampia di soggetti che con noi condividono le stesse caratteristiche.

Eppure è al contempo vero che nonostante sia comprovata l’indispensabilità dell’altro, l’alterità finisce spesso per essere minimizzata e semplificata e a dircelo sono fatti storici, attenzioni disciplinari, il nostro stesso punto di vista. Può sembrare cosa da poco, ma il rischio di una sottostima dell’alterità ha come risultato un gravoso duplice effetto di risposta: quello di naturalizzazione della propria identità e quello di negazione dell’alterità. Si tratta di due dinamiche simultanee — e tutt’altro che esotiche o saltuarie — per cui proprio quando tendiamo a naturalizzare, cioè normalizzare e assolutizzare i nostri tratti identitari, andiamo a dimenticare e rimuovere ogni tipo di diversificazione intra- ed extra-sociale. Quando, ad esempio, iniziamo a ritenere, sia questo per conformismo o strumentalismo, la nostra idea di famiglia, sistema politico, credo religioso e qualsivoglia costume come il solo ed unico esistente o accettabile, ecco che inevitabilmente l’altro, colui il quale si caratterizza proprio per il suo non condividere quel tratto, si configura come anormale, stigmatizzabile, un errore da correggere o cancellare. In questo modo se ne disconosce l’esistenza o se ne delegittima la presenza, portando a un gravissimo esito per cui l’altro diviene un mero minus habens, una presenza elisa e deculturata, traducendosi nel barbaro per il greco o nell’ebreo per il nazista, nell’indigeno per il conquistatore, fino ad arrivare ad altri ingiustificabili avvenimenti, molti dei quali meno noti e lontani da noi.

Ci si rende immediatamente conto, allora, del portato politico della questione dell’alterità, ma ancora prima dell’importanza di un’apertura alla molteplicità, una disposizione alla variabilità culturale, una complessificazione dell’altro che non solo è molto più che un calco in negativo di ciò che noi siamo, ma ha a sua volta specificità: l’alterità ospita l’identità come l’identità ospita l’alterità, è questo ciò che ci insegna Francesco Remotti, che a questo tema ha consacrato la sua longeva attività parlando di «ossessione identitaria»3 e ricordandoci, con tanto di concreti casi etnografici, che così come in noi è vivo l’altro, per questo tutto fuorché eliminabile, l’altro merita un suo riconoscimento. Perché ciascuno di noi è l’ebreo (o il barbaro) di qualcuno — direbbe Primo Levi — e perché l’alterità non è un disvalore, ma qualcosa di molto di più, come afferma Lévinas.

 

Nicholas Loru – Filosoficamente

 

NOTE:
1. Cfr. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, §91.

2. Ibidem.
3. Cfr. F. Remotti, L’ossessione identitaria, 2010 e F. Remotti, Noi primitivi. Lo specchio dell’antropologia, 2009.

[Photo credit Priscilla Du Preez via Unsplash]

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Omaggio a Hegel: che cos’è la filosofia oggi?

Duecentocinquanta anni fa la filosofia veniva attraversata da una scossa tettonica rivoluzionaria che ne avrebbe interamente cambiato il suo corso e il suo destino: 250 anni fa nasceva Hegel, il filosofo grazie a cui l’uomo conquistò con il pensiero la pienezza della libertà e dell’autonomia della sua ragione. Oggi, dopo 250 anni segnati dagli eventi più disparati, cosa direbbe questo grande pensatore sul mondo in cui viviamo e sul modo in cui abbiamo incarnato la filosofia che egli aveva cercato di insegnarci? Questa domanda rischiosa è al contempo provocatoria perché, anche se a prima vista dovrebbe rimanere senza risposta, essa ci induce comunque a una riflessione profonda sul significato che la filosofia di Hegel – un uomo che con il nostro mondo fatto di velocità impercettibili e tecnologie ubique non sembrerebbe aver nulla da spartire – ha per noi oggi.

Per rispondere a questo interrogativo, iniziamo dal principio riconoscendo cosa significa filosofare per Hegel. Parafrasando un po’ metaforicamente le sue parole, la filosofia può essere descritta come una ritardataria cronica, poiché essa arriva sempre troppo tardi rispetto agli eventi che la popolano. Come la nottola di Minerva spicca il suo volo solamente sul farsi del crepuscolo, quando ormai il giorno si trasforma lentamente in notte profonda, così la filosofia si manifesta «dopo che la Realtà ha completato il proprio processo di formazione e si è ben assestata» (G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, 2006). Questo paragone azzardato che Hegel ci propone è però importante, perché riesce a far trapelare la semplice profondità che caratterizza la natura della filosofia, la quale è tutta immersa in un lavoro molto complesso e raffinato. Infatti, il suo scopo è rivolto alla comprensione, alla spiegazione e alla giustificazione del presente compiuto, e il suo intento mira alla problematizzazione della nostra esperienza quotidiana, perché la filosofia è totalmente presa dalla necessità di penetrare quel mondo in cui da sempre siamo situati e gettati. In altre parole, per Hegel la realtà – che ci circonda come un dato di fatto – deve essere lasciata andare o venir abbandonata, deve essere perduta per poter essere riconquistata attraverso la filosofia che la comprende rettamente. Comprendere la realtà giustificandola, allora, significa avviare un profondo processo di liberazione dell’uomo che pratica la filosofia, dal momento che la comprensione (di noi stessi e del mondo) che attingiamo filosofando è la conquista della nostra libertà. Nella radicalità della sua interrogazione, cosa fa la filosofia se non liberarci, rendendoci consapevoli, da tutte le forme di autorità esterna, da tutti i condizionamenti, a cui può ed è sottoposta la nostra ragione? Comprendere, giustificare, diventare coscienti (in una parola filosofare) sono quindi la conquista dell’autonomia e della libertà dell’uomo, che pur non agendo sotto occhi pubblici trasforma se stesso e le relazioni che lo legano al mondo circostante.

Ora che è più chiaro il senso della pratica filosofica per Hegel, possiamo tornare alla nostra domanda inziale, e concludere questa riflessione rispondendo al problema di come Hegel possa parlare a noi contemporanei, non solo storicamente ma anche attraverso un linguaggio di azione e praticità. Oggi più che mai l’insegnamento che la declinazione hegeliana della filosofia può darci è la conquista della nostra consapevolezza in relazione al mondo che ci circonda. Mi spiego meglio: in un mondo fatto di falsi idoli e di inestinguibili fake news, dove i confini di tutto diventano labili e sfocati, Hegel può insegnarci a ritrovare noi stessi e a trovare un posto che ci renda degli individui consapevoli, autonomi e liberi, degli individui gettati nel mondo ma perfettamente coscienti della loro “condizionatezza”. La filosofia di Hegel può mostrarci una via per divenire soggetti pensanti impavidi che sono disposti a perdersi per potersi alla fine ritrovare nella loro verità e finitezza.

A buon diritto, il nostro maestro potrebbe non essere del tutto soddisfatto di come abbiamo incarnato la filosofia in questi ultimi 250 anni; ma, osservandoci in questa situazione, egli sicuramente ci spronerebbe a iniziare a incamminarci per questa faticosa salita di autonomia e libertà, con devozione e tenacia nonostante la costante inquietudine che può sorgere in noi.

 

Gaia Ferrari

 

[Photo credit James Toose via Unsplash]

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L’amore e l’uomo: l’ultima lotta tra Nolan e la scienza

Approcciarsi alla filosofia non è impresa facile. Si può facilmente incappare in stati di confusione e perplessità quando si affrontano parole come l’Essere, il Soggetto, l’Ermeneutica, l’Infinito; espressioni nella qualità di Per sé, In sé; oppure contrapposizioni in termini di Realtà/Apparenza, Immaginazione/Meraviglia, Origine/Provenienza, Metafora/Teoria. Per fortuna, però, esistono molteplici strade per impedire qualsivoglia scoraggiamento e il cinema è una di quelle. Molto spesso infatti, e soprattutto negli ultimi decenni, l’arte cinematografica ha cercato l’origine e il senso del tutto tramite immagini e suoni grazie al lavoro di grandi cineasti che hanno offerto un alternativo approccio alla filosofia per il grande pubblico. Pionieri del calibro di Hitchcock, Bergman, Fellini, Kubrick e i più contemporanei da Anderson a Lars Von Trier, da Sorrentino ai Fratelli Coen hanno tentato l’impresa. E forse ci sono anche riusciti, come piccoli filosofi del grande schermo, tratteggiando le loro opere con temi fondativi della vita umana.

Tra i tanti autori che si potrebbero aggiungere alla lista ce n’è uno che ha fatto del proprio lavoro e del cinema un mezzo di riflessione: Christopher Nolan, l’amante del tempo per eccellenza. Infatti l’inesorabilità del passato, il contorcersi degli attimi e l’orologio impazzito e molleggiante sono i suoi cavalli di battaglia e Interstellar (2014) può rappresentare un punto cruciale del suo percorso speculativo.

È innanzitutto un film di fantascienza: un miscuglio tra fisica quantistica e passioni umane, nell’apparente caos di un tempo capriccioso e mutevole; un legame tra soggetto individuale e un’umanità che deve essere salvata; un amore tra un padre e una figlia, forte abbastanza da condurre l’intera trama in una missione quasi senza speranza. Non sorprende, dunque, che Nolan abbia ricevuto molteplici critiche: molti fisici, infatti, hanno storto il naso, soprattutto tenendo presente come dalla nascita della teoria della relatività di Einstein la stessa comunità scientifica viaggi su binari opposti, ma contemporaneamente confermati nella loro veridicità da complesse proporzioni matematiche.

Polemiche scientifiche a parte, non possiamo ignorare il fulcro della trama cioè l’amore. La passione più complessa dell’essere umano, infatti, rappresenta nell’opera il filo conduttore tra tempo e spazio apparentemente infiniti e così strettamente legati. Un amore che cerca di divincolarsi tra l’individuale e l’assoluto e anzi, che si propone esso stesso il collante per entrambe le dimensioni. Un amore come unico mezzo di comunicazione.

Nell’ottica di Nolan quest’idea è possibile e la storia della filosofia, forse, potrebbe dargli ragione. Già agli albori della cultura greca, infatti, l’amore ebbe un forte rilievo poiché assunse la mansione di intermediario tra l’uomo e gli dèi. Una passione non propriamente divina, come invece fu sottolineato dai posteri medievali, ma piuttosto un dono concesso all’uomo dall’Olimpo. Un dono capace di sancire un importante canale di comunicazione. Perché, di partecipazione si parla in Interstellar e di parola come ricerca del sapere nel Simposio. Potremmo interpretarlo in questi termini come una sorta di purgatorio a un passo dall’unità dell’essere, a un passo dal dipanarsi del tutto. Tutto questo però sembra non bastare: il bottino è troppo grande per l’uomo, il suo respiro sembra affannarsi durante il cammino, i sensi si affievoliscono, la ragione via a via leggermente si appanna.

Nolan, infatti, cerca di andare oltre. Vuole che l’amore oltrepassi l’ultimo scoglio, che esso possa, sfruttando l’infinità del tempo e dello spazio, unire la soggettività dei protagonisti al futuro dell’umanità nell’oggettività ancora troppo oscura dello spazio. Continuando nell’itinerario offertoci dalla filosofia, è nell’Ottocento che possiamo intravedere un’alternativa: con il lavoro di Hegel, infatti, il soggetto non è solo in grado di sposarsi con l’Assoluto oggettivo, ma esso stesso nel proprio dipanarsi, si scopre alla base di esso. È questa l’illuminazione che il regista cerca: scoprendosi, scontrandosi, liberandosi, infatti, la soggettività dell’uomo capisce di essere essa stessa il fulcro del tutto. Un soggetto che non si sacrifica per una causa esterna a sé, come vorrebbe la metafisica classica, ma che tramite l’amore sacrifichi sé stesso per sé stesso e per l’altro come Gesù Cristo sulla croce. È in questo modo che il Soggetto si propaga come Amore. Un amore che parte dal limite dell’individuo e che si libera esponenzialmente verso ciò che gli era ignoto.

Basta avere il coraggio di prenderlo, il bisogno di possederlo, l’affetto nel sacrificarlo. Insomma, un amore che si fa Uomo, che si scopre come tale nel momento in cui ottiene la responsabilità della libertà, il rischio della perdita, la consapevolezza di non potersi più tirare indietro davanti sé stesso e all’Assoluto che rappresenta.

 

Simone Pederzolli

 

[Photo credit space.com]

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Una citazione per voi: Hegel, la teoria e i fatti

 

• SE I FATTI NON SI ADEGUANO ALLA TEORIA, TANTO PEGGIO PER I FATTI •

 

Se c’è una diffusa e radicata convinzione sui filosofi è il crederli distaccati dalla realtà comune, dalla concretezza delle cose, dalla praticità, dalla chiarezza dei fatti. Nell’immaginario collettivo li si vede avulsi dal circostante a pensare a chissà quale teoria in cui cercano poi di incastrare gli avvenimenti del mondo.

Certamente alcuni filosofi ci hanno messo del loro. Uno di questi potrebbe essere Hegel, tra i cui pensieri si trova anche: «Se i fatti non si adeguano alla teoria, tanto peggio per i fatti».

La frase non si trova scritta in alcun saggio hegeliano, ma pare fu detta da lui stesso per rispondere a un’obiezione durante la sua discussione dottorale, nel 1801. In quest’anno, per ottenere l’abilitazione all’insegnamento, Hegel discute una tesi di filosofia della natura (De Orbitis Planetarum) in cui sostiene tra le varie cose l’impossibilità dell’esistenza di un pianeta tra Marte e Giove. Smentito dalla scoperta proprio in quell’anno di Cerere (considerato un pianeta all’epoca), Hegel dovette difendersi e restò sulle sue convinzioni citando quella frase. Il tempo ha però dato ragione ad Hegel e alla sua teoria: Cerere è infatti un asteroide e nessun corpo delle dimensioni di pianeta esiste tra Marte e Giove.

Al di là di come si svolsero e sono i fatti, il motto ha molto da dire: la filosofia sin dalle origini è una problematizzazione della realtà intera, anche degli aspetti più ovvi ed evidenti come possono essere i cosiddetti fatti. Nessuna rivoluzione nel pensiero o nella vita dell’uomo può compiersi senza dubitare del certo ed Hegel ha potuto dimostrare presto di essere un maestro anche in questo senso.

 

Luca Mauceri

 

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