La Chiesa all’opposizione: un’intuizione pasoliniana

Il destino della Chiesa, il potere, la lotta e la rivoluzione. Termini e uso del linguaggio anacronistici, desueti: infatti sto prendendo in considerazione un articolo di Pier Paolo Pasolini uscito esattamente il 22 settembre 1974 sul Corriere della sera, pubblicato con il titolo I dilemmi di un Papa, oggi.

Raccolto in Scritti corsari, l’articolo richiamava la possibilità che la Chiesa si facesse paladina di un movimento antagonista rispetto alla società di massa che proprio in quegli anni era agli albori, con la sua sacra dedizione al consumismo e la consegna della propria anima ai vizi dell’edonismo. Pasolini disegnava un orizzonte in cui il cattolicesimo potesse realmente “passare all’opposizione”, realizzando quel distacco (in tutto e per tutto volontaristico ed eminentemente “morale”) dall’incipiente disfacimento ultracapitalistico della società.

«Questo è certo: che se molte e gravi sono state le colpe della Chiesa nella sua lunga storia di potere, la più grave di tutte sarebbe quella di accettare passivamente la propria liquidazione da parte di un potere che se la ride del Vangelo», scriveva Pasolini.

Il nuovo fascismo, come lo chiamava, aveva infatti relegato la Chiesa ai margini della storia, mediante una sorta di nietzscheana trasvalutazione di tutti quei valori (cristiani e paleocapitalistici) che avevano dominato la storia recente. Chiesa, patria, famiglia, obbedienza, ordine, risparmio, moralità avevano ceduto il passo alla felicità legata ai consumi e ad uno stile di vita imperniato sul piacere e sul godimento.

Certo è lo stesso Pasolini a definire quest’idea della “rivoluzione” della Chiesa come «una prospettiva radicale, forse utopistica, o, è il caso di dirlo, millenaristica». Il tono usato dallo scrittore però tradisce un’ultima – recondita – speranza.

«La Chiesa potrebbe essere la guida, grandiosa ma non autoritaria, di tutti coloro che rifiutano il nuovo potere consumistico che è completamente irreligioso; totalitario; violento; falsamente tollerante, anzi, più repressivo che mai; corruttore; degradante. È questo rifiuto che potrebbe dunque simboleggiare la Chiesa: ritornando alle origini, cioè all’opposizione e alla rivolta. O fare questo o accettare un potere che non la vuole più: ossia suicidarsi».

Un richiamo, quello di Pasolini, che è chiaramente rimasto inascoltato nel tempo. E lo è stato perché in quell’articolo lo scrittore poneva una precondizione che la Chiesa non è mai stata disposta ad accettare: «Per passare all’opposizione, dovrebbe prima di tutto negare se stessa». La direzione è stata invece diametralmente opposta, visto che la Chiesa, più che accettare passivamente il potere, ne ha assunto anche la fisionomia. Non c’entrano nulla la ricchezza e lo sfarzo, che se mai ricordano un appannaggio quasi nobile del clero.

Parlo dei sistemi di comunicazione di massa, dei messaggi semplici e a forma di slogan veicolati attraverso la televisione e internet, della riduzione del messaggio evangelico ad articolo degno del peggior opuscolo, o della sua compressione (demonica?) in “stati” o “post”.

Questo rapporto simbiotico della Chiesa con la società dell’edonismo tecnicizzato potrebbe essere interpretato come un’alleanza, ma anche come una resa incondizionata e mai annunciata del Vaticano, o addirittura come un sodalizio tra due poli apparentemente indifferenti l’uno all’altro, oppure come una miscela – placida e silenziosa, non certo esplosiva – di questi tre elementi.

Certo è che la vicinanza dei modi e dei metodi del Cristianesimo degradato con il nuovo Potere, come lo definiva Pasolini, è assolutamente evidente. Tanto più quanto ormai le categorie del “lavoro”, dello sviluppo, della felicità e dell’amusement di cui si parla nella Dialettica dell’Illuminismo non vengono mai messe in discussione. Il suicidio sta proprio nel credere di poter veicolare un messaggio cristiano attraverso dei mezzi e degli atteggiamenti che sono per loro intrinseca natura anticristiani.

Ci vorrebbe il Tau al posto della cupola: ma questa è davvero – soltanto – un’utopia.

Roberto Silvestrin

[Immagine tratta da Google Immagini]

Longyearbyen, (quasi) al Polo Nord

Ci prepariamo per partire alla volta della vetta di Sarkofagen, io e Olaf, la mia guida finlandese, entrambi spettinati dal vento impetuoso e intenti a masticare un inglese del tutto sgrammaticato. Mosh, il suo cane groenlandese, si assopisce disteso vicino al suo zaino stracolmo, in attesa di partire. “Non puoi immaginare quanto sia spaventoso un orso polare”, inizia a raccontarmi, “Una forza e una ferocia sanguinaria racchiusa in una stazza portentosa che non lascia scampo a nessuno. Proprio un anno fa, lassù, su quella montagna, a poche centinaia di metri dal tuo ostello, una ragazza è stata sbranata da uno di questi formidabili predatori, e solo perché non aveva seguito l’esempio dell’amica che pur di salvarsi la vita si era gettata giù dal dirupo. Loro sono state molto sfortunate certo, perché la possibilità di incontrare un orso polare appena fuori dalla città è remota, isolata, a tratti impensabile, ma la vita è abbastanza lunga perché si possa essere sfortunati almeno una volta e noi non vogliamo esserlo, giusto?”, conclude sorridendo, un poco ironico, caricando l’ultima cartuccia nel fucile.

Se si è capaci di far fronte alle aspre intemperie artiche, le isole Svalbard diventano la concretizzazione della vita più prossima al più vero significato della libertà. La si ottiene pagandone lo scotto che pretende. Per godere della fedeltà di una muta di cani groenlandesi bisogna sopportare l’eternità della notte polare, per vagabondare tra gli anfratti abbandonati di Pyramiden occorre procacciarsi la carne per sopravvivere all’inverno. È una terra che lascia l’universo a disposizione a patto che lo si sappia affrontare, che gli si sappia resistere, perché cercherà sempre di riprendersi il maltolto. Non mi voglio soffermare sulla maestosità dei paesaggi che hanno riempito i miei occhi, sarebbe tautologico oltre che dispersivo, ma intendo piuttosto pormi contro la filosofia della vile inazione che freme di terrore ancor prima di vedere cosa produce quell’ombra sulla parete: quando si pensava che fosse qualcosa di assolutamente infattibile e invece bastava muovere un piede in avanti, uno solo, per tastare il terreno e vedere che in realtà non frana sotto il nostro peso come invece ci era stato presagito. È l’educazione alla paura, alla salvaguardia di sé spinta sino al ridicolo. Non bisogna temere i problemi perché anche se li prevediamo qualcuno sfuggirà alle nostre attenzioni, sempre, per ripresentarsi quando meno ce lo aspettiamo. Bisogna piuttosto imparare ad affrontarli con lucida coscienza perché dove c’è un problema c’è la soluzione, dove non c’è la soluzione, non c’è il problema.

Questo viaggio è stato come una cerimonia, un’iniziazione a qualcosa di indefinito che ha smosso la diga che arrestava il fluire dei miei passi, un passaggio oltre un’esistenza di indecisioni che si è finalmente tradotta in una chiara consapevolezza di quel che deve essere il mio destino. Come se avessi deliberatamente cercato il suicidio più spettacolare, la fossa più sperduta in cui gettare le mie reliquie malconce, sotto i ghiacci, nel fango, disperse come nevischio negli impetuosi venti del nord più estremo, solo per calzare finalmente la pelle coriacea di un esploratore dell’Artico. La scelta è indifferente, gli estremi portano entrambi alla stessa conclusione: bene, male, nord, sud, il traguardo è sempre una tetra landa buia e innevata perché i poli del mondo e i poli dell’uomo sono identici, frastagliati, avvolti in un azzurro lugubre e onnipresente, relegati nel bianco più assoluto che tutto cancella. E in uno di questi devo tornare per mettermi alla prova, devo, e basta, perché di questo piccolo pianeta blu ormai non c’è più nulla da dire.

E il ritorno a Oslo non ha fatto che accentuare questa certezza forse irrealizzabile. Scrivo dopo essere rientrato da una passeggiata alla cieca tra le vie inquiete che costeggiano l’argine del fiordo. È una città che concentra il suo formicolare, la sua pubblicizzazione, il suo aspetto europeo in unico punto, dal quale basta allontanarsi per pochi minuti per sprofondare immediatamente in un imo buio grigiastro. La gente qui sembra aver lo spirito stanco, satollo, e di non desiderare altro che appagare un consumante bisogno fittizio rimbalzando da un negozio all’altro per accaparrarsi il capo più mondano, come se per valorizzare la loro giornata non avessero altra scelta se non quella di arricchire il loro personale patrimonio. Tutti tacciono, tutti sfilano come fantasmi sui bus saettanti, si chiudono nel loro intimo, e quando parlano sussurrano come intimoriti dall’interazione con l’altro. È una serenità apparente che tradisce la letargia della vitalità, l’accidia imperante che non vuole affrontare quel che la natura qui comunica e urla continuamente a gran voce, che come manifestazione di vita siamo ospiti invadenti, parassiti, ribelli al mutismo del cosmo. Questa è un’alienazione che non posso sostenere, che nessuno dovrebbe sostenere, bisogna vagare sperduti, riflettere, perdere tempo, quel tempo che non esiste, lasciare che i lampioni di Oslo intaglino le nostre espressioni con quelle stesse, tormentate sfumature arancioni che tanto avevano angustiato il vecchio Munch più di cent’anni fa. La storia che si ripete, la vita e l’illusione del tempo, l’eterno ritorno, e così sempre, con le ovvietà disarmanti.

E nonostante questo errare alla rinfusa in una bolgia come un’altra nel vasto e piccolo viso del mondo, nonostante non abbia ancora raggiunto davvero il polo della mia vita e mi sia buscato il peggior raffreddore che io ricordi, è lì, in quel glaciale, gelido, buio, inospitale, vendicativo, fangoso, crudele, sperduto luogo desolato e dimenticato da dio, che ho lasciato tutto il mio cuore.

Leonardo Albano