Sono forse io il custode di mio fratello? – Intervista ad una assistente sociale

Secondo i dati della UN Refugee Agency (UNHCR), dal 1 gennaio 2016 ad oggi, sono sbarcate 230.226 persone tra Grecia ed Italia. 2.890 sono coloro che hanno perso la vita nell’attraversamento del Mar Mediterraneo1.
Uomini e donne che hanno deciso di rischiare la loro vita e quel che è peggio, quella dei loro figli, in cerca di un po’ di pace, di dignità. Famiglie che si accollano debiti inimmaginabili per permettere ai propri cari di tentare di raggiungere un luogo della terra non dilaniato da guerre o sopraffatto da terrore e violenze continue e di ogni sorta.
Chi sono questi migranti? Cosa vivono e sopportano nel cercare di raggiungere i paesi del Mediterraneo?
Nel tentativo di fare un po’ di chiarezza e di verità abbiamo incontrato Cristina, 26 anni, lavora come assistente sociale in un centro di accoglienza nella provincia di Treviso. Lei, ogni giorno, opera a diretto contatto con decine, anzi centinaia, di persone che, per i motivi più disparati, hanno deciso che rischiare la morte per sé e per i propri cari, probabilmente, non può essere peggiore di quello che subiscono nei loro paesi o delle condizioni in cui sono costretti a vivere nelle loro città, case, famiglie.

Nel Centro di accoglienza dove lavori di che sesso e nazionalità sono i profughi?

La maggior parte dei richiedenti asilo sono uomini, tra i 20 e i 30 anni. Ci sono anche donne, ma in numero minore. Alcune donne spesso sono accompagnate dai mariti, altre, giovanissime, arrivano sole. Ancora meno, ma comunque presenti, sono i bambini che spesso nascono durante il viaggio o giungono nei centri di accoglienza da piccolissimi.
Nel centro dove lavoro la maggior parte delle persone proviene dall’Africa Sub Sahariana, principalmente Nigeria, Gambia, Ghana, Senegal, Costa d’Avorio, Mali… Ci sono anche persone originarie dell’Afghanistan, Pakistan e Bangladesh.

Come sono approdati in Italia, quanto dura e quanto costa in media un viaggio per raggiungere il nostro Paese?

Non c’è una regola precisa per la durata e il costo del viaggio. In base ai paesi di provenienza è possibile individuare due tipologie di “viaggio”. Per le persone provenienti dall’Africa subsahariana il primo pezzo del tragitto è differente in base alla città di partenza, però, ad un certo punto del viaggio tutti convergono in Libia e raggiungono l’Italia via mare.
Le persone provenienti da Pakistan, Afghanistan e Bangladesh viaggiano via terra; le tappe obbligate sono Turchia e Grecia, poi il tragitto può diversificarsi, raggiungono il nostro Paese passando per Ungheria e Austria.
Per quanto riguarda i tempi vi sono molte differenze in base al progetto migratorio di ogni persona, variano da 1 mese a 4-5 anni. Relativamente alla durata del viaggio influiscono, oltre che il progetto di ognuno, variabili quali il denaro, i trafficanti, la situazione libica…
Anche per il costo non c’è un “prezzo fisso”, ad esempio si può pagare il viaggio in partenza, oppure tappa per tappa trovando dei lavori occasionali lungo la strada. Dalle storie ascoltate in questi mesi in linea di massima il viaggio è molto costoso, basti pensare che una famiglia si indebita per mandare uno solo dei figli alla ricerca di una vita migliore.

Probabilmente sono tutte persone consapevoli dell’alta possibilità di perdere la vita durante il viaggio, perché decidono comunque di rischiare? Quali storie ci sono dietro ad una tale decisione?

Ogni persona ha una storia, una motivazione e un progetto migratorio diversi. Anche persone provenienti dallo stesso Paese o dalla stessa città scappano per motivi diversi. Il fattore determinante non sono solo le guerre, le violenze che vivono e sopportano, non sono solo il frutto di lotte armate; possono esserci motivazioni familiari, capita spesso che i ragazzi non siano accettati dalla famiglia di origine o dalla comunità per aver scelto una religione diversa, per l’orientamento sessuale o per altre scelte contrastanti con la realtà in cui vivono ed essere vittime di continue ed estenuanti vessazioni. Altri magari vengono da zone di continui scontri tra fazioni politiche o parti religiose, altri ancora cercano la libertà. Spesso la loro idea iniziale non è quella di raggiungere l’Italia però durante il percorso è facile finire nelle mani dei trafficanti e il loro viaggio continua secondo rotte non frutto di proprie scelte, ma obbligate.

Quanto è difficile ascoltare questi racconti di grande sofferenza? Ad un certo punto ci si può “abituare”?

Ci si può abituare a sentire nominare i diversi Paesi attraversati, nell’ordine di percorrenza; è bello scoprire che ad un certo punto della strada qualcuno di loro trova una “persona buona” che li aiuta a proseguire senza voler nulla in cambio… però i vissuti che li portano a fuggire, ciò che sono costretti a vivere/subire durante il viaggio è purtroppo nuovo ogni volta e quando a raccontartelo sono una ragazza o un ragazzo, magari della tua stessa età che cercano di salvare la loro vita e se possibile anche un po’ di dignità, come si può parlare di abitudine…

La stampa riporta spesso lamentele dei richiedenti asilo relativamente alle strutture in cui sono accolti, al cibo, mancanza di televisione, ecc. Sembra impossibile che dopo tutto quello che hanno passato siano scontenti di quello che ricevono.

Appena sento i ragazzi lamentarsi anche a me viene da pensare e a volte glielo faccio notare che con tutto quello che hanno passato i loro problemi dovrebbero essere altri e sarebbe il caso che si lamentassero per altro. Però, se ci penso, io e noi tutti ci lamentiamo quotidianamente per molto meno, per il traffico, per il cellulare scarico e per mille altri futili motivi.
Quindi, credo che queste lamentele che comunque a volte sono anche veritiere, possano essere lette in due modi. Penso che se una persona con il loro vissuto si sta lamentando di una cosa (sia anche superflua per me in questo momento) significa che anche per soli cinque secondi ha pensato ad altro rispetto a ciò che magari ha passato in Libia o in Afghanistan… e quanti di noi riuscirebbero a farlo dopo aver subito anche solo la metà di ciò che è toccato loro?
Poi, ritengo che sia doveroso restituire un po’ della dignità perduta con una buona e attenta accoglienza (sicuramente non fatta solo di buon cibo e televisore in camera).

Cos’è il tanto discusso pocket money erogato giornalmente ai richiedenti asilo e come funziona?

Il “costo” giornaliero per l’accoglienza di un richiedente asilo è di 35 euro, denaro necessario per far fronte alle spese per il vitto, l’alloggio, l’affitto dello stabile e lo stipendio delle persone che ci lavorano. Il pocket money, invece, è la parte di questi 35 euro (solitamente corrisponde a 2,50 euro) che viene erogata direttamente alla persona che vive nel centro di accoglienza.

Molto spesso i nostri connazionali che versano in stato di indigenza riferiscono e lamentano di essere trattati dallo Stato peggio dei profughi…

Probabilmente hanno ragione, ma lo Stato continua a fare per loro ciò che faceva anni fa, prima di questa emergenza. Credo che il sistema dei servizi andrebbe ripensato in base alle nuove esigenze della popolazione indipendentemente da ciò che lo Stato fa o meno per i richiedenti asilo.

Se facciamo una passeggiata nelle nostre città, spesso incontriamo migranti con cellulari ultimo modello ecc…

Non sempre sono persone che scappano da povertà o miseria, ci sono tanti giovani laureati, di buona famiglia e con un lavoro che però sono costretti a fuggire dai loro paesi d’origine per motivi politici, di razza, religiosi… e quindi il cellulare per loro non è un bene di lusso. Poi, ci sono anche persone che fuggono dai loro Paesi per motivi economici, di estrema povertà: loro non arrivano con un cellulare, però è tra le prime cose che acquistano in quanto è l’unica modalità per mettersi in contatto con la famiglia o gli amici. Anche solo per dire loro dove si trovano e che sono vivi.

 

L’ultima domanda non la rivolgo a Cristina ma la cito dal libro Nel mare ci sono i coccodrilli di Fabio Geda: la storia vera del viaggio di Enaiatollah Akbari, un bambino afghano di dieci anni la cui madre, per proteggerlo dai talebani che perseguitano la famiglia e minacciano di ucciderlo, decide di farlo fuggire dal suo Paese.
Lo scrittore, intervistando il giovane, si rivolge a lui chiedendo: «Come si fa a cambiare vita così, Enaiat?
Una mattina, un saluto.
Lo si fa e basta, Fabio. Una volta ho letto che la scelta di emigrare nasce dal bisogno di respirare.
È così. La speranza di una vita migliore è più forte di qualunque sentimento. Mia madre, ad esempio, ha deciso che sapermi in pericolo lontano da lei, ma in viaggio verso un futuro differente, era meglio che sapermi in pericolo vicino a lei, ma nel fango della paura per sempre»2.

Silvia Pennisi

NOTE:
1. www.data.unhcr.org
2. Fabio Geda, Nel mare ci sono i coccodrilli. Storia vera di Enaiatollah Akbari, Baldini e Castoldi, Milano 2013, pp. 72-73.

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[T] ERRORE

Terrorismo: una guerra che ha come obiettivo la psiche umana e collettiva, laddove la realtà percepita non è quella reale.

Attentati terroristici, bombardamenti, raid: queste sono le parole che accompagnano i titoli dei nostri quotidiani. Il fenomeno del terrorismo non è un’emergenza, ma un dato di realtà. Combatterlo è un dovere, restando consapevoli dell’impossibilità di un suo completo sradicamento. Oggi ci riferiamo soprattutto al terrorismo di matrice islamica. Tuttavia, oltre ad essere sbagliato, è pericoloso convogliare le forme di sedizione su una religione.
Siamo di fronte ad un’islamizzazione della radicalità e non ad una radicalizzazione dell’Islam. I simpatizzanti dello Stato Islamico sono coloro che necessitano di un’ideologia che possa sostenere la loro ribellione.

Il terrorismo è un fenomeno in crescita. Sono circa 35.000 i morti nel 2015, ma non è un numero assai cospicuo. Si pensi, per esempio, che le morti causate da incidenti domestici sono ben superiori (250.000 decessi all’anno)1.

Inoltre, da un punto di vista economico, i danni diretti sono valutati intorno ai 55 miliardi di dollari, tuttavia, se pensiamo ai trilioni di dollari in circolazione nel mondo sono cifre quasi ininfluenti.

Eppure, lo spirito del terrore è al centro del nostro mondo, in particolar modo quello mediatico, diventando una patologia comunicativa. Appare, così, più drammatico di quanto esso sia in realtà. È più rilevante quello che si riesce a far dire ai media del nemico rispetto a quello che si proferisce attraverso i propri. Le parole sono importanti. Esse creano un’immagine mentale che si sedimenta dentro la psiche. Occorre incitare la propria folla, ma l’obiettivo finale è quello di suscitare nelle persone del campo avversario delle emozioni negative.
Inoltre, come ci ricorda Noam Chomsky «sfruttare l’emozione è una tecnica per provocare un corto circuito su un’analisi razionale e, di conseguenza, il senso critico dell’individuo».

L’obiettivo dell’assoggettamento della mente all’ansia, alla paura, all’impotenza ha un impatto più intenso rispetto al danno diretto causato da un attacco.
La percezione del rischio e la paura diventano gli indicatori di come le persone rispondono alle minacce terroristiche. Esse sono chiamate ad una risposta, la quale esige un mutamento cognitivo e comportamentale per reagire allo stress.
Le emozioni che ne derivano sono molte, così come le risposte comportamentali. L’impulso a fuggire da una situazione percepita come pericolosa è una risposta coerente e fisiologica, ma talvolta queste risposte si attivano anche in assenza di un’effettiva minaccia incombente. La paura causata da una sproporzionata percezione del pericolo influenza i comportamenti delle persone, sia come singoli che come folla, portando a decisioni inadeguate ed irrazionali.
La domanda alla quale è opportuno rispondere è: “Rischio reale o presunto?”
La consapevolezza della realtà circostante diventa la nostra arma di difesa e rievocando le parole di Lucio Caracciolo «il terrorismo non deve cambiare le nostre vite

Jessica Genova

NOTE:
1 http://www.epicentro.iss.it/ Il portale dell’epidemiologia per la sanità pubblica. A cura del Centro Nazionale di Epidemiologia, Sorveglianza e Promozione della Salute.

“La Grande Guerra”

Nel 1959 Mario Monicelli regala uno dei più grandi film sul conflitto del ’15-’18, nonché uno dei capolavori del cinema italiano. Leone d’oro al Festival del Cinema di Venezia, La Grande Guerra è uno dei migliori contributi cinematografici allo studio della Prima Guerra Mondiale; non c’è una rappresentazione retorica e propagandistica tipica del Fascismo o dell’immediato secondo dopoguerra, in cui durava ancora il mito di un conflitto glorioso ed eroico. Monicelli ci mostra la guerra vera, fatta di fango, di soldati logori e stanchi.
Al momento dell’uscita nelle sale la pellicola ebbe problemi di censura e numerose furono le polemiche di opinione pubblica e produttori, scettici nei confronti di un film che il pubblico non avrebbe accettato o amato, troppo distante dai canoni retorici a cui era abituato.

Protagonisti del film sono Oreste e Giovanni, interpretati da Sordi e Gassmann, un romano e un milanese, diversi nell’aspetto e nel carattere; si conoscono durante la chiamata alle armi e nonostante un iniziale contrasto diventeranno amici e compagni di trincea, condividendo freddo, paure, fame: la guerra nella sua totalità. Attraverso le più diverse peripezie e difficoltà, incontrando un’umanità dai mille volti e accenti, arriveranno insieme a condividere i loro ultimi momenti, non da eroi ma da semplici soldati.

Monicelli compie un’opera magistrale, porta la commedia all’italiana al suo apice; la sua capacità di leggere e raccontare gli aspetti più tragici della vita, facendo ridere lo spettatore, viene esaltata al suo massimo. La vita di un uomo è fatta di sorrisi, gioie, delusioni, paure, tanto nella quotidianità quanto in trincea ed è quello che sapientemente il regista porta sullo schermo. La guerra degli scarponi di cartone, del rancio putrido, dei tanti dialetti diversi, degli analfabeti; la guerra dei poveracci e dei ragazzi neanche ventenni. Non ci sono eroi o martiri, ma solo semplici uomini, catapultati in una fredda trincea e trasformati dagli avvenimenti in soldati.
Il tutto è ripreso con un’accuratezza maniacale, quasi documentaristica, nessuno prima di Monicelli aveva raccontato la Grande Guerra in modo così accurato: la fotografia e il bianco e nero ci trasportano direttamente in prima linea, a combattere a fianco degli italiani, a strisciare, a marciare, a correre. Sordi e Gassman sono maestri nel mostrare la loro comicità regionale, alternandola a momenti di drammaticità pura, strappando in un primo momento una risata sincera, per poi farci ripiombare in una cupa riflessione sull’assurdità di una guerra che ha distrutto un’intera generazione. È un alternarsi continuo di emozioni, ci si sente vicini ad ogni personaggio, si prova la stessa solidarietà e fratellanza di chi combatteva spalla a spalla senza avere nulla in comune, se non la disgrazia di condividere una simile tragedia.
Questo forse è l’aspetto più importante di questo film: ci si immedesima completamente nei destini di questi ragazzi. È senza dubbio un’opera quasi educativa, continua a tener vivo un momento lontano ma importante della nostra Storia, che non dobbiamo mai dimenticare; come il coraggio di Oreste e Giovanni, sacrificatisi non da eroi ma sapendo vivere fino all’ultimo con dignità e semplicità, come uomini di tutti i giorni, militi ignoti non consapevoli del loro ruolo.

Lorenzo Gardellin

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Può esistere un buon governo? Sviluppi dall’assolutismo Hobbesiano

Sarebbe bello se questo sovrano conoscesse veramente ciò che è giusto per la sua comunità, sarebbe bello se egli operasse esclusivamente per il bene di quest’ultima. Sarebbe bello se non ci fosse bisogno di porre nessun tipo di rimedio alle sue decisioni. Sarebbe bello se tutto funzionasse a regola d’arte, in politica, in società, nei rapporti umani. Sarebbe bello se non vi fossero conflitti, contrasti, logiche di interesse!

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“NOI VIVI” – Attraverso la Galleria Borbonica…attraverso la vita!

Solo i morti hanno visto la fine della guerra. Platone

Un parcheggio multipiano. Moderno, nuovo, in una delle zone più belle di Napoli.

Risali in superficie ed entri nella Storia, quella vissuta, quella fatta e sudata da uomini, donne e bambini; la storia della paura, delle corse affannate in cerca di riparo, dell’angoscia di esserci tutti.

Entri nella Galleria Borbonica e, senza nemmeno chiudere gli occhi, ti ritrovi immerso negli anni della seconda guerra mondiale, periodo in cui Napoli fu la città più bombardata, con 200 raid aerei dal 1940 al 1944, di cui 181 soltanto nel 1943.

Napoli sepolta nella guerra non aveva avuto un suo poeta né un suo reporter, perché per tutti era stato troppo difficile e sorprendente il sopravvivere all’arida tragedia di quegli anni per poterla subito fissare e prolungare in una memoria, in un diario.  Nello Ajello

Se ti concentri vedi le persone che entrano, corrono, con la paura sui loro volti; i bambini ritrovano i giochi lasciati il giorno prima, le mamme si assicurano di aver preso nei 15 minuti a disposizione tutto l’occorrente per stare…quanto? E chi poteva saperlo là sotto. Il tempo diventava una variabile superflua, ciò che contava era vedere che i tuoi cari erano lì accanto a te metri sotto terra.

Percorri la galleria e ti imbatti in resti di brandine, giocattoli, boccette di profumi…già i profumi! E non per farsi belli, ma per poter respirare!

Ciò che cattura più l’attenzione sono però le scritte sui muri: nomi, date e poi la più semplice ma più commovente: “NOI VIVI”. Provo ad immaginare cosa potessero significare quelle due parole per chi le ha scritte…sopravvissuti certo, ma intendeva tutta la famiglia, come a dire “ce l’abbiamo fatta”?, oppure indicava “ehi noi esistiamo! noi siamo sotto terra, ma siamo vivi! Vogliamo vivere e non moriremo per colpa vostra!”, come una specie di sfida a chi lassù, tanto meccanicamente, sganciava bombe sui civili.

Ecco, quella scritta a me ha trasmesso un’appassionata volontà di vita, uno stringere i denti una volta ancora, senza accettare di uscire da quel rifugio come topi che escono dalla tana incerti di non rivedere il nemico.

NOI VIVI.

Una complessità ben celata è nascosta dietro a queste parole, perché vi sono tante, troppe implicazioni emotive, culturali, storiche.

Oggi chi di noi pronuncerebbe questa frase? Potremmo essere scambiati per matti o per scopritori di acqua calda, eppure non possiamo nemmeno immaginare quanto per niente scontata potesse essere dentro quel rifugio.

Proviamo solo ad immaginare il suono della sirena che indica il coprifuoco e in 15 minuti prendere le cose indispensabili per stare “x” tempo sottoterra, magari non solo per te ma anche per i tuoi figli o i tuoi nonni; e alla fine, uscire dal rifugio con quali sensazioni, quali pensieri?

La persona che ha scritto Noi vivi cosa avrà trovato quel giorno, una volta ‘riemersa’? La stessa città? E la sua casa era ancora in piedi?

Tutte queste domande te le poni mentre visiti la Galleria Borbonica, perché hai voglia di capire, di riflettere sul fatto che in quell’epoca, la maggior parte del tempo era trascorsa sottoterra.

Libertà negata, quella di essere Persone libere di camminare per la strada, di andare a lavorare, di andare a scuola! La libertà di agire senza costrizioni e di autodeterminarsi era abolita, perché costretta dentro 4 mura, circondata da centinaia di persone e dominata dalla paura, quella stessa paura che ti faceva però riscoprire il valore della solidarietà e della condivisione, che ti faceva sorridere quando incontravi le persone della volta prima, felice che anche loro fossero ancora vive.

Ecco allora forse una qualche libertà era concessa anche sottoterra: quella della volontà di vivere, di crederci, di sperarci tutti insieme e di attendere la fine di un incubo, urlando “noi siamo vivi qua e saremo vivi lassù”.

Quando la guerra finì, possiamo pensare che quei rifugi vennero abbandonati e le persone che vi trovavano riparo tornarono a casa…invece la fine della guerra portò con sé gli strascichi di una tragedia senza fine, lasciando sfollate migliaia di persone.

La negazione di una casa propria, la dignità di uomini e donne calpestata dalle macerie rimaste al suolo, questo c’era nella confusione del fragore della “liberazione”. Liberazione da cosa? Dal sottosuolo? Dal nemico? Ora non importava più il prima, si pensava solo al futuro, a cosa sarebbe successo da quel momento in poi, la preoccupazione era di sopravvivere anche al senso di impotenza e di perdita materiale e morale.

In quel tunnel, anche se la guerra era finita, continuarono a vivere almeno 500 persone.

La prigionia non era, dunque, finita.

Se vi capiterà di percorrere la galleria, assimilate ogni sensazione, pensate che centinaia di persone vi passarono giornate intere, non solo un’ora come noi visitatori; fatevi avvolgere dall’estrema umidità, ascoltate ogni rimbombo dei vostri passi, guardate con empatia i nomi incisi nella pietra e pensate che tutto questo era ‘banale’ quotidianità.

Potete avere notizie della Galleria seguendo la pagina FB: Galleria Borbonica o visitando il loro sito: Galleria Borbonica

Valeria Genova

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L’ora dei diritti

Parliamo di diritti sì perché non se ne parla mai abbastanza. Il 2015 per molti versi è stato un anno difficile e complicato, segnato dalla paura e da molte situazioni critiche che hanno condizionato lo stato dei diritti. Questo pezzo vorrebbe segnalare alcune delle buone e delle cattive notizie dell’anno appena trascorso in materia di diritti, umani e civili, in Italia e nel mondo, per capire a che punto siamo su questo tema, augurandoci un 2016 migliore.

Inizia un nuovo anno e la politica italiana si chiede dov’ era rimasta in materia di diritti e la (solita) risposta è: sempre allo stesso punto, ma forse ancora per poco. Soprattutto per quanto riguarda i diritti civili e LGBT è da molti anni che il dibattito è sterile e complici maggioranze deboli e veti incrociati ben poco si muove. Affossati i Dico e dimenticati i Pacs anche il 2015 è finito con varie promesse non mantenute, ma il 2016 potrebbe essere finalmente un anno importante. Infatti una legge sulle unioni civili omossessuali sarà in parlamento a fine Gennaio. Il nostro paese, dopo il referendum della cattolicissima Irlanda – sicuramente una delle sorprese positive del 2015 – era rimasto l’unico Stato dell’Europa occidentale a non avere ancora una legislazione in materia. Come già detto però a breve potrebbero essere regolamentate le unioni tra persone dello stesso sesso, con il nodo dell’adozione da parte di un membro della coppia del figlio naturale del partner (stepchild adoption) al centro del dibattito (parecchio strumentale) in questi giorni. La società civile è pronta, forse già da anni, ora tocca alla politica.

Ma nel nostro piccolo e spesso indolente orticello non succederà solo questo: si cercherà un’intesa sullo Ius soli (il diritto di cittadinanza per i figli di immigrati nati in Italia) e forse ci si potrebbe spingere a parlare anche di testamento biologico (mentre già molte in città sono disponibili registri per le indicazioni di fine vita). Ancora non si sa molto invece sull’auspicabile introduzione del reato di tortura, auspicabile per scongiurare il ripetersi di eventi quanto mai indelebili come gli episodi della scuola Diaz e della caserma di Bolzaneto, come è augurabile un dibattito serio sulla situazione delle carceri e sui diritti dei carcerati.

Nel mondo la situazione non è delle più rosee, come riporta Humans Rights Watch nel suo rapporto annuale. In almeno 90 paesi del mondo le condizioni umanitarie sono peggiorate. Il direttore Kenneth Roth, scrive nel suo pezzo che il timore- di conflitti, di repressioni, dei migranti, di attacchi terroristici, di gruppi di opposizione al governo – è stato il movente principale delle situazioni critiche che si sono sviluppate nel corso del 2015. Queste situazioni di instabilità hanno portato ad una drastico peggioramento dei diritti umani soprattutto a discapito dei molti rifugiati, a causa di leggi restrittive di interesse nazionale.

Tra le varie situazioni a rischio a questo proposito si segnala il ripristino dei controlli alle frontiere di Danimarca e Svezia, così come nuove leggi sul permesso di soggiorno colpiscono i rifugiati siriani in Libano. Stessa questione per i migranti centroamericani, vittime di povertà e scontri tra i cartelli della droga, che cercano asilo in Messico.
Israele è invece segnalato per lo sfruttamento di manodopera palestinese a basso costo nell’ambito degli insediamenti illegali in Cisgiordania, altra questione sempre attuale di rischio per i diritti civili degli abitanti.
Per gli Stati Uniti è stato un anno segnato dalle violenze della polizia e dalle proteste della comunità afroamericana, da Ferguson a Chicago, che sotto lo slogan di Black Lives Matter chiede di fare chiarezza su alcuni casi di omicidio da parte delle forze dell’ordine e in generale maggiori tutele.
Da non tacere poi il clima di minacce a giornalisti e civili in Uganda e gli abusi su donne attiviste per i diritti umani in Sudan.
Un caso che ha suscitato l’indignazione della comunità internazionale è quello dell’Arabia Saudita, protagonista di un annus horribilis quanto a repressione del dissenso (si ricordino le frustate al blogger Raif) e culminato con l’esecuzione di 46 pene capitali in un solo giorno. In un anno in cui le donne saudite hanno ottenuto per la prima volta nella loro storia il diritto di votare ed essere votate (ma non quello di guidare), la monarchia del Golfo sembra essere ancora molto distante da uno standard accettabile in materia di diritti umani.

Passi avanti sono stati fatti invece in Suriname e Belize. Il primo ha abolito la pena di morte, mentre nel secondo l’ultimo condannato in attesa della pena ha visto commutata la sentenza, svuotando così il braccio della morte.
Durante l’anno sono stati rilasciati prigionieri politici o persone incarcerate ingiustamente in Paesi come Iran, Siria, El Salvador, Etiopia e Camerun.
Per quanto riguarda la nostra Europa, come già accennato, un importante traguardo è stato raggiunto dall’Irlanda che con un referendum popolare ha legalizzato le unioni omosessuali.

Si sa che i conflitti portano alla destabilizzazione e questa alla paura, ed è proprio la paura che bisogna combattere perché sue dirette conseguenze sono la chiusura in se stessi e la repressione. Solo in un mondo senza guerre e senza timori i diritti, di qualsiasi tipo essi siano, possono crescere e prosperare come tutti ci auguriamo che accada.

Buon anno, e che quest’ anno porti più diritti a tutti.

Tommaso Meo

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De immigratione

In primo luogo noi non desideriamo essere chiamati «profughi». Tra di noi ci chiamiamo «nuovi arrivati» o «immigrati». I nostri giornali sono per «americani di lingua tedesca»
Solitamente il termine «profugo» designava una persona costretta a cercare asilo per aver agito in un certo modo o per aver sostenuto una certa opinione politica. È vero, noi abbiamo dovuto cercare asilo, tuttavia non abbiamo fatto nulla e la maggior parte di noi non si è mai sognata di avere un’opinione politica radicale. Con noi il significato del termine «profugo» è cambiato. Ora «profughi» sono quelli di noi che hanno avuto la grande sfortuna di arrivare in un paese nuovo senza mezzi, e che per questo hanno bisogno dell’aiuto dei Refugee Committees.”[1]
Queste le parole di Hannah Arendt nel saggio “Noi profughi” contenuto all’interno dell’opera Ebraismo e Modernità. E da notare come questa testimonianza non abbia solo un valore storico ma anche ontologico-esistenziale. Infatti, come sottolinea la pensatrice, si ha una trasmutazione del significato di “profugo” che determina un cambiamento dell’accoglienza che sta alla base dell’arrivo in un nuovo paese.

“Abbiamo perso la casa, che rappresenta l’intimità della vita quotidiana. Abbiamo perso il lavoro, che rappresenta la fiducia di essere di qualche utilità in questo mondo. Abbiamo perso la nostra lingua, che rappresenta la spontaneità delle relazioni, la semplicità dei gesti, l’espressione sincera e naturale dei sentimenti. Abbiamo lasciato i nostri parenti nei ghetti polacchi e i nostri migliori amici sono stati uccisi nei campi di concentramento, e questo significa che le nostre vite sono state spezzate.”[1]

“Profughi” sono diventate le persone ultime tra le ultime, chi non ha più niente: casa, lavoro, lingua. «Le nostre vite sono state spezzate»: a sottolineare come la morte non ha a che fare solo con la fisicità, ma – più intimamente – con la mente, con il pensiero. La vita non sarà mai più quella di una volta: ci si trova ad essere stranieri tra gli stranieri, con il bisogno di essere accettati ma con l’incapacità di portarlo a termine. Si è persa la casa, cioè l’intimità dei legami – della vita quotidiana -, il radicamento alla terra, si è perso il lavoro, ciò che ci rende socialmente utili e accettati; e si è persa la lingua, cioè l’identità con se stessi e con il proprio mondo.

Certo, le situazioni e condizioni non sono identiche di quelle ebraiche ai tempi dell’Hitlerismo, ma quale argomento più attuale se non il flusso migratorio che interessa il momento? La descrizione che fa H. Arendt calza tristemente a pennello con chi è costretto a salire su un barcone verso l’Europa, visto che scappare per salvare la vita lasciandosi alle spalle tutto ciò che prima essa rappresentava è esattamente quello a cui erano costretti gli Ebrei
Ne abbiamo sentite di tutti i colori, ed è oltremodo semplice sentirsi confusi o ritrovarsi traviati dal calderone di idee che interessa quello che viene definito un problema.
Perché – effettivamente – di un problema si tratta.
La mia personale opinione, però, è che sia la nostra volontà a renderlo tale.
Infatti: cosa trasforma una potenziale risorsa in un problema? La risorsa stessa o chi gestisce la questione?
Aristotele aveva fatto luce sul passaggio da un tipo di essere ad un altro, qualificando il divenire come passaggio da potenza ad atto. Ebbene: quale malsano ragionamento ci permette di rendere qualcosa che in potenza può essere utile in un danno totale in atto?
Mi spiego meglio. Il diverso – l’altro – fa sempre paura ad un primo impatto. È un sentimento legittimo: dal nuovo non possiamo sapere cosa aspettarci. Ora, superata questa prima caratterizzazione, il successivo passo logico dovrebbe essere quello di scoprire la fondatezza o meno dei nostri timori. Ecco il punto nevralgico: la fonte di informazioni che crea in noi la nostra “personale” – le virgolette sono d’obbligo vista la facilità con cui ci facciamo manipolare – opinione in merito alla questione. Aggiungiamo un altro tassello: in Italia, ma non solo, l’informazione non è libera; o meglio: l’informazione lo è, ma indipendenti non sono le modalità con cui possiamo raggiungerla.
La dimostrazione è semplice: domandiamoci quali sono i mezzi che partecipano al parto di un’opinione. Nella maggior parte dei casi la risposta è banale: giornali, televisione, internet; ed è proprio nella semplicità con cui possiamo raggiungerli che si cela l’inganno. Il filosofo austriaco Karl Popper aveva proposto una patente che regolasse le comparse in televisione, proprio a causa dell’enorme potenzialità di questo mezzo, capace di influenzare ogni vita umana. La forza risiede nell’enorme visibilità che può avere un’opinione espressa attraverso la tv, in grado di indirizzare le nostre scelte verso ciò che viene trasmesso o affermato durante un programma, basta pensare alla pubblicità.

 
L’esperimento sociale condotto da P.F. Cottone – docente di psicologia presso l’Università di Padova – è un chiaro esempio di come la manipolazione mediatica agisce sulle nostre opinioni. Egli ha intervistato a Lampedusa uomini e donne di varie età domandando cosa ne pensassero della situazione profughi e le risposte erano state varie ma comunque indirizzate verso un’accoglienza calorosa e per nulla distaccata, con la convinzione che fosse un’opportunità di riscatto e per mettersi in gioco. È necessario sottolineare che, al momento delle interviste, non fosse possibile la lettura di giornali. Successivamente – quando il flusso di notizie cartacee ebbe ripreso a scorrere in città – Cottone ripropose l’intervista alle medesime persone, ottenendo risposte differenti, non nella sostanza ma nei modi, sull’onda della paura – per non dire odio – che le testate giornalistiche propongono ogni giorno.
Toniamo quindi a noi, al punto più importante della questione: siamo noi a trasformare in problema la situazione attuale?
Usciamo da buonismi e semplicismi, ma anche da pregiudizi e generalizzazioni; allontaniamo posizioni politiche o pseudo-politiche – non è il risvolto politico che mi interessa – e concentriamoci solo ed esclusivamente su semplici fatti.
La crisi delle carceri in Italia è in atto almeno da un decennio, ben prima che il flusso migratorio diventasse così cospicuo.
È stato sotto gli occhi di tutti noi, tutti i giorni, come qualsiasi governo – da qui ad almeno venti anni or sono – non sia stato in grado di gestire in maniera adeguata l’emergenza migranti, e non solo quella.
A ciò aggiungiamo il contributo Europeo, che prima investe milioni per le accoglienze, poi si dimentica dell’esistenza del problema, proprio nel momento in cui si aggrava, poi cambia di nuovo idea con l’attuale riassegnazione delle quote (e l’accordo tra i vari Paesi è ancora molto lontano).
E questo è ciò che riguarda noi; ora diamo uno sguardo – breve e superficiale, ne sono consapevole, ma quanto basta per farci una prima idea – alla situazione del continente Africano.

 
Guerre. Fame. Povertà.
Tre semplici parole, il cui uso è stato ormai abusato, ma che non possiamo ignorare. È solo comprendendole che possiamo iniziare a capire cosa spinge migliaia di persone ad abbandonare il proprio paese, la propria casa, i propri conoscenti – a volte la stessa famiglia! – per intraprendere un viaggio che sembra più una condanna che una salvezza. Alcuni Paesi vivono una tale situazione di terrore che la famiglia è costretta a celebrare un finto funerale per chi scappa, altrimenti se si venisse a conoscenza della partenza le ripercussioni sui suoi famigliari sarebbero terribili.
Chiediamoci, allora, cosa può spingere una persona a mettere a rischio la vita della propria moglie, del proprio marito, dei propri figli, pur di partire; e quale può essere il suo scopo? Scappa perché è povero e vuole andare a rubare per arricchirsi? Scappa perché non gli bastano la moglie – o le mogli – che già ha e vuole andare a stuprare? Scappa perché odia così tanto gli europei a tal punto da voler rubar loro il lavoro? Io non credo.
Con questo – per evitare generalizzazioni malsane – non voglio santificare i profughi o far finta di non vedere le situazioni critiche di povertà a cui sono sottoposti anche gli italiani. Non deve esistere una gerarchia della sfortuna, un criterio che scelga chi aiutare e chi no, men che meno se questo criterio è la nazionalità. Allo stesso modo un criminale è colpevole di ciò che fa e deve rispondere dei suoi atti, non del Paese nel quale il Fato ha scelto di farlo nascere!
E smettiamola con le fantasie che l’informazione – o dovremmo dire disinformazione? – propone ogni giorno.
L’idea che dobbiamo crearci deve essere dettata da buon senso, da fatti, dati , prove, da ragionamenti che non favoriscano uno o l’altro partito, ma che cerchino di dare uno sguardo d’insieme che sia il più possibile oggettivo, o al meno ragionevole.
Ribadisco il mio assoluto distacco da quel che ormai – il motivo non me lo spiego – viene definito buonismo. Ma cos’è il buonismo? Il vocabolario Treccani afferma: «Ostentazione di buoni sentimenti, di tolleranza e benevolenza verso gli avversari, o nei riguardi di un avversario, spec. da parte di un uomo politico».
“Avversari”. Chi decide chi è mio avversario? Non dovremmo essere noi stessi a farlo, invece che venga sempre scelto un capro espiatorio come causa di ogni male da qualcun altro?
Ecco perché la soluzione non è sicuramente quella di un’accoglienza totale ed indiscriminata, come non può esserla la chiusura delle frontiere. L’estremismo non risolve mai nulla. È ovvio che accogliere ed aiutare tutti allo stesso modo non è possibile – o almeno non lo è da soli – ma anche la politica opposta non risolve nulla, visto che i barconi continueranno a sbarcare persone anche se decidessimo di non accettarle, aggravando ancora di più la situazione a causa del fatto che verrebbero a mancare anche i primi fondamentali controlli. Bisogna rimboccarsi le maniche e mettersi al lavoro con decisione, con impegno, ma anche con umanità, perché non possiamo dimenticarci che è sempre della vita di esseri umani come noi che si sta parlando. Iniziamo a tagliare vitalizi e mega-pensioni, diminuiamo l’evasione fiscale, diminuiamo l’età pensionabile e re-investiamo in un’accoglienza che sia finalmente ragionata, coerente con lo scopo che si è prefissata e priva di sprechi (di quei famosi 30 euro – e si sentono cifre ancora maggiori – quanti vanno veramente in mano ad un profugo e quanti sono invece messi in tasca da chi – italiani – gestisce la cosa?).
Re-investiamo nel lavoro e nell’entrata in società, per italiani e non ovviamente. Come possiamo pretendere l’inserimento sociale se non sono presenti le condizioni che lo rendano tale?
Diamo una possibilità al “nuovo”, sfruttiamone la potenzialità come risorsa – non solo materiale ma anche culturale – invece che trasformalo in un problema che non siamo capaci di risolvere. Costi e sacrifici ce ne saranno per tutti, ma ogni cosa ha il suo prezzo, e il risultato vale bene qualche sacrificio da parte di ognuno di noi.

Massimiliano Mattiuzzo

Uomo innocente, uomo di pena

La preghiera[1]

1928

Come dolce prima dell’uomo
Doveva andare il mondo

L’uomo ne cavò beffe di demòni,
La sua lussuria disse cielo,
La sua illusione decretò creatrice,
Suppose immortale il momento.

La vita gli è di peso enorme
Come liggiù quell’ale di ape morta
Alla formicola che la trascina.

Oh! rasserena questi figli.
Fa’ che l’uomo torni a sentire
Che, uomo, fino a te salisti
Per l’infinita sofferenza.

Sii la misura, sii il mistero.

Purificante amore,
Fa’ ancora che sia scala di riscatto
La carne ingannatrice.

Vorrei di nuovo udirti dire
Che in te finalmente annullate

Le anime si uniranno
E lassù formeranno,
Eterna umanità,
Il tuo sonno felice.

Dinanzi ad una quotidianità grondante sangue – che ha tutto un solo colore, un solo nome, pulsa vivo in un solo corpo- è inevitabile domandarsi se sia possibile l’innocenza: se lo sia mai stata, se lo sia ancora. È inevitabile domandarsi donde venga la brutalità dell’uomo, se sia innata e inevadibile oppure accorsa, posticcia: la perversione d’una strada dapprima diritta. E ancora: cosa ne è delle persone che sono vittime di brutalità, alle quali è data una morte che appare violentemente contro natura, una morte che si rifiuta, che ferisce nel profondo, con la sottigliezza d’una terribile nota stonata, tutta l’umanità?

È forse nei versi d’un “uomo di pena” e poeta dell’oblio che si possono trovare risposte almeno preliminari, un greto di parole da raspare per trovarne di più adeguate. Innanzitutto, perché sono versi scaturiti dal cuore d’un uomo che ha vissuto in prima persona la brutalità umana, che ha veduto i propri compagni cadere riversi nel nulla, ha sentito il peso insostenibile della vacuità che la guerra si lascia dietro, ha constatato quanto sia labile la misura tra l’estremo dolore e il radicale attaccamento alla vita. [2] I versi riportati in apertura sono quelli ai quali si vuol fare direttamente riferimento per tentare di iniziare a rispondere alle urgenti domande poco sopra formulate ( per se alla spicciolata e senza la compiutezza che richiederebbero). La Preghiera è una poesia del 1928 e compare nella sezione Inni de Il Sentimento del Tempo, raccolta pubblicata per la prima volta nel 1933.

Sin dalla primissima lettura di questi versi, si mostra un afflato, una vocazione spirituale incarnata in un poetare salmodiante: il poeta genuflesso dinanzi al Divino, riconosce la colpa dell’uomo che ha voluto allontanarsi dalla misura originaria, cioè dall’equilibrio in cui viveva tutta l’Eterna umanità, come raccolta in un solo corpo.

Rotto l’equilibrio originario, distrutta la pace dell’uomo con se stesso, questi ha potuto pervertire il corso del mondo; infranto il legame con se stesso, l’uomo ha potuto illudersi d’essere creatore del mondo, adorare i più oscuri frutti della propria perversione nella pietra pesante di idoli muti; volle tendere le mani a conquistare il tempo e farsi come Dio.

Avendo tradito il patto originario tra sé e il Divino, tra sé e l’armonia, l’uomo ha creduto di potersi creare da sé, di poter determinare le condizioni della propria vita: ha assunto su i sé il peso dei suoi giorni desiderandone il dominio, tollerandone a malapena il peso; ritrovandosi, come una formicola affamata d’una vittima, il peso insostenibile d’una ala d’ape: cioè il peso insostenibile di vacue illusioni.

Il poeta veste gli abiti del salmista e, al cospetto di Dio, canta i peccati dell’uomo per poi chiederne la remissione, per poi invocare la restaurazione misericordiosa d’un tempo prima del tempo, d’un uomo prima dell’uomo corrotto.

Oh! rasserena questi figli/Fa’ che l’uomo torni a sentire/ Che, uomo, fino a te salisti/Per l’infinita sofferenza.

Schiacciato sotto il peso del tradimento, l’uomo non può evadere dal proprio dolore e si ritrova a vivere una mezza esistenza essenzialmente da esso segnata: è rinchiuso in un circolo di dolore, che subisce e che procura, perché ne ha dimenticato il senso autentico. Del dolore, nella sua forma originaria, anche il Divino fa esperienza: la figura del Cristo rappresenta l’umanità del Divino sublimata per mezzo della sofferenza.

Sofferenza deriva dal verbo latino suffero che, accanto al significato di tollerare, sopportare un dolore e quindi soffrire, presenta anche quello di offrire, porgere, presentare: la sofferenza autentica, di cui anche Dio fa esperienza – e che l’uomo ha dimenticato-, è un dolore che dice già il proprio senso, la propria destinazione. È dolore che trova posto nella vita della totalità, che si colloca sin da subito in modo tale da non turbare l’armonia originaria, la misura.

Tramite la sofferenza si giunge al Divino, alla misura: «Sii la misura, sii il mistero».

Si è accolti in una dimensione che non è tanto semplicemente altra, assoluta rispetto all’umano: è piuttosto un abisso d’umanità, un oblio d’umanità in cui, smarrite le individuazioni determinate, cioè i patimenti singolari che affliggono e disegnano la persona umana, l’Umanità sia eternamente se stessa, una, armonica.

Ed è in questa dimensione che l’innocenza è di nuovo possibile come una rinnovata freschezza esistenziale. Ma si è detto che questa dimensione non è un piano assoluto, un livello ulteriore rispetto all’uomo; piuttosto – si è detto poco sopra- è la profondità dell’essere umano in cui si trova la sua più intima essenza.

Dunque, affinché l’uomo sia innocente, non è necessario che l’uomo vada oltre se stesso [3]; anzi, al contrario: è necessario, indispensabile che scavi dentro se stesso per ritrovare il proprio ἔθος (èthos), la propria configurazione essenziale, cioè la propria inviolabile identità con sé e con l’armonia cui è intimamente destinato; cioè che si vada finalmente al cuore dell’umano, dando il giusto valore alle sacrosante differenze che ci caratterizzano: impedendo, cioè, che la miniera della differenza sia campo di battaglia, che la vita sia trincea, che l’uomo sia disumano.

 Emanuele Lepore

NOTE

[1]GIUSEPPE UNGARETTI, La Preghiera, in Tutte le poesie, Sentimento del Tempo, Inni, Mondadori, Milano, 1986 (I ed. 1969).

[2]Giuseppe Ungaretti ( Alessandria d’Egitto, 8 febbraio 1888- Milano, 1°giugno 1970) combattè nel XIX Reggimento di fanteria della Brigata “Brescia”, arruolatosi volontario quando l’Italia entrò in guerra, il 24 maggio 1915. Altre informazioni bibliografiche – che pure sarebbero necessarie per una comprensione piena del poeta Ungaretti- vengono qui tralasciate, poiché non essenziali ai fini della prospettiva che si vuol proporre.

[3] Che sia fin troppo breve il confine tra oltre-uomano e dis-umano è riscontrabile nelle pagine più buie della storia dell’uomo.

Vogliamo parlare di guerra? Eliminiamo ogni forma di finalismo: il punto di vista di Bobbio

È l’ormai lontano 1979 quando Norberto Bobbio, con lo scritto Il problema della guerra e le vie della pace, cerca di dimostrare con decisione l’insostenibilità di qualsiasi tipo di giustificazione della guerra. Con le sue pagine egli vuole affermare la necessità di un totale abbandono non solo di questa pratica, ma anche, in senso più generale, della violenza e di ogni suo tipo di manifestazione. Al centro della sua analisi vi è il fatto che gli armamenti delle varie potenze mondiali si sono sviluppati, durante il secolo scorso, fino a raggiungere un livello tale per cui, se si dovesse ricorrere al loro utilizzo, si potrebbe compromettere la stessa esistenza dell’uomo sulla terra. Un’affermazione di questo genere a molti potrebbe sembrare esagerata o addirittura infondata: è proprio questa la preoccupazione che tanto assilla Bobbio, ovvero la mancanza di una “coscienza atomica”. Il livello di sviluppo tecnico e militare a cui siamo giunti è in grado di esporci, infatti, alla possibilità di una guerra termonucleare, la quale, non potendo assolutamente essere paragonata alle guerre che finora si sono verificate, ci pone di fronte ad una vera “svolta storica”.

Perché una guerra di tal tipo è da considerare come una guerra nuova e dunque da rifiutare con assolutezza? A detta di Bobbio, non è affatto a causa dell’orrore: per lui, infatti, ogni guerra è orrenda; ogni guerra avrebbe dovuto, in passato, e dovrebbe, in futuro, essere condannata.

Le ragioni su cui si concentra il suo ragionamento ci conducono ad una riflessione molto più profonda. La guerra termonucleare, infatti, potrebbe mettere a repentaglio la vita e la storia intera dell’umanità, potrebbe distruggere tutto ciò che è esistente. Inoltre, la guerra termonucleare potrebbe non condurre a nessun tipo di risultato. Se lo scopo di ogni conflitto bellico è la vittoria (e il raggiungimento di tutti i vantaggi politici, economici e sociali che essa consente di ottenere), la guerra termonucleare, a differenza delle guerre passate, potrebbe invece non permettere una distinzione tra vincitori e vinti1.

Alla luce di queste considerazioni, mi chiedo e vi chiedo: possiamo rimanere indifferenti di fronte ad una tale eventualità? Possiamo pensarla con distacco o indifferenza? Io credo di no! Credo che ciò non sia possibile nemmeno per l’animo più bellicoso. Il motivo è semplice, ed è Bobbio stesso a suggerircelo: la possibilità di una guerra atomica ci costringe ad elaborare prima, e ad assumere poi, un nuovo e decisivo punto di vista storico: dovremmo eliminare dal nostro orizzonte di pensiero qualsiasi forma di finalismo. Ebbene sì, dovremmo spogliarci proprio di quel tipo di ragionamento che tanto caratterizza la nostra mentalità occidentale! Dovremmo imparare a vedere la storia dell’uomo non più come un processo inevitabile, connotato da un tendenziale miglioramento, ma come un susseguirsi di fatti sì inevitabile, ma sprovvisto di qualsiasi tipo di senso.

Di fronte a questo panorama, Bobbio propone un irrinunciabile atteggiamento di pacifismo attivo, il quale consisterebbe nel negare in modo totale ogni ricorso a conflitti armati, affermando così una profonda fiducia negli effetti pratici che possono discendere dall’utilizzo delle tecniche nonviolente. Questa soluzione vi lascia perplessi? Ebbene, la sensibilità disillusa di Bobbio è perfettamente cosciente della difficoltà di questo tipo di alternativa: egli infatti ritiene che essa si presenti ancora come (inaccettabilmente) distante dalla nostra realtà attuale, nella quale «l’etica dei politici è l’etica della potenza».

Ciò che gli preme di più, dunque, sembra essere l’indirizzarci ad una revisione del nostro modo di stare al mondo e del nostro modo di percepire e valutare ciò che quotidianamente ci potrebbe apparire come invece inafferrabile, come troppo grande rispetto alla nostra finitudine di singoli individui, e come troppo lontano dalla portata delle nostre decisioni ed azioni. Ciò che più conta sembra essere il gettare il seme, il delineare delle piste di lavoro, lo smuovere la sensibilità pubblica, nell’attesa, speranzosa e calma (ma non inerte) che le cose comincino a mutare dal loro profondo.

Ma le cose potranno cambiare davvero? Di fronte a ciò che quotidianamente accade nel mondo, possiamo dirci fiduciosi? Certamente ed innegabilmente, ritengo si imponga sempre più come necessaria, e con una certa fretta, una più profonda riflessione da parte di ciascuno di noi rispetto a queste tematiche; non soltanto per riscattarci dal punto di vista bobbiano secondo il quale «l’arma totale è arrivata troppo presto per la rozzezza dei nostri costumi, per la superficialità dei nostri giudizi morali, per la smoderatezza delle nostre ambizioni, per l’enormità delle ingiustizie di cui la maggior parte dell’umanità soffre non avendo altra scelta che la violenza e l’oppressione»; ma anche per prendere posizione di fronte al fatto che sebbene la guerra atomica sembri essere solo una mera possibilità “futuristica”, in realtà siamo tutti potenzialmente coinvolti e dunque tutti potenziali vittime, e questo, la Storia, non solo passata, ma anche presente, la quotidianità, ce lo hanno già dimostrato.

 Federica Bonisiol

NOTE:
1. Per non limitarsi al puro piano teorico, è Bobbio stesso che cita un esempio riguardante gli U.S.A.: «gli Stati Uniti potrebbero riprendersi in 5 anni se subissero un attacco con soli 10 milioni di vittime, mentre con un attacco massiccio che uccidesse 80 milioni di americani, la ripresa richiederebbe mezzo secolo». Queste stime sono risultate da studi antecedenti di vent’anni rispetto al saggio del 1979, e sebbene debbano essere prese in considerazione e ridimensionate alla luce del progresso tecnologico che sempre più ci impone i suoi tempestivi risultati, sono comunque utili per farci valutare il fenomeno della guerra atomica in modo più concreto.

BIBLIOGRAFIA:
Norberto Bobbio, Il problema della guerra e le vie della pace, Il Mulino, 2009

“Se ti distrai, rischi grosso”. Intervista ad un incursore

Intervista tratta dalla tesi di laurea “Il tempo nella sofferenza” di Valeria Genova [acquistabile qui o su Amazon]

Siamo il primo mezzo della colonna, ogni metro potrebbe essere l’ultimo, ma non ci pensi. La testa è troppo impegnata a scorgere nel terreno qualcosa di anomalo […]. 1

Questa frase proviene dalla lettera che il caporalmaggiore Matteo Miotto aveva inviato, due mesi prima di morire, dall’Afghanistan, al Gazzettino, per descrivere l’esperienza della Brigata Julia cui apparteneva; qui si intuisce subito che il presente è lo stato temporale in cui si svolge l’intera missione di questi soldati. Non ci pensi è la frase che ho più sentito pronunciare anche durante l’intervista con il Maggiore M., un incursore dell’Aeronautica Militare che ha svolto più volte missioni all’estero, in Afghanistan e in Iraq. Dalle sue parole ci arriva il messaggio forte di uomini che svolgono il loro dovere per la Patria e riescono comunque ad avere il tempo da dedicare alle famiglie; un tempo scandito dall’attesa del ritorno, dall’ansia per quello che si è lasciato in Italia e dalla speranza di compiere il loro dovere nel migliore dei modi.

Corrono giorni in cui identità e valori sembrano superati, soffocati da una realtà che ci nega il tempo per pensare a cosa siamo, da dove veniamo, a cosa apparteniamo…2

– M., cosa succede quando qualcuno dall’alto vi dice ‘tra un mese devi partire’?

Ci prepariamo. Il nostro motto è ‘addestrati duro combatti facile’: si cerca di ricreare in territorio Nazionale le condizioni della realtà Internazionale, cosa, oggi come oggi, difficile da realizzare, perché alcune simulazioni non sono simili alla realtà che poi troveremo nelle zone ‘calde’.
Vedi, quando arrivi in teatro operativo dovresti essere già pronto, ma soprattutto devi riuscire a non perdere l’obiettivo ed essere sicuro di quello che fai: ecco perché occorre arrivare con il massimo addestramento, ma non capita spesso e questo è dovuto ai tempi di recupero, tra una missione e un’altra, che sono sempre troppo brevi, lasciando così le persone spaesate poiché non riescono a trovare un equilibrio nel tempo da dedicare a tutte le cose, lavoro e famiglia.

– Ecco, hai introdotto tu stesso il concetto di ‘tempo’: come riuscite a gestirlo?

La gestione tempo per noi è divisa: vi è l’attesa di partire, quindi sai che devi partire e cominci a sintonizzare tutti i tempi della vita quotidiana, per cercare di non lasciare nulla in sospeso, cioè devi ottemperare gli impegni per il lavoro e lasciare una condizione di tranquillità emotiva alla tua famiglia e di conseguenza a te stesso. È proprio nella fase di pre- deployment, infatti, che la gestione del tempo è complessa: per esempio, se non hai pagato una bolletta in tempo e sai che chi rimane potrebbe non essere in grado di farlo, parti con una preoccupazione che si può ripercuotere poi in teatro operativo.

– Quali sensazioni avete in questa fase di pre-deployment, periodo in cui tutto si sottomette all’attesa della partenza?

Questa concezione del tempo così particolare ti crea uno stato emotivo di ansia, ma poi, una volta partito, paradossalmente ti tranquillizzi. Ansia perché stai andando in un territorio difficile, stai lasciando la tua famiglia per dei mesi, e stranamente non vedi l’ora di partire, forse per limitare la sofferenza tua e dei parenti…proprio per questo quando sto partendo sono in attesa, in ‘muta attesa’ 3, un tempo infinito e indeterminato che scaturisce dalla mia voglia di andarmene il prima possibile. Ecco perché non appena metto i piedi sull’aereo che mi porterà in missione mi tranquillizzo: ormai ci sono, me ne sto andando e non resta che impegnarsi a sopravvivere.

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– Come si vive l’esperienza nei teatri operativi?

Ogni turno che ho fatto è stato di non più di quattro mesi e mezzo e in quel periodo ero completamente concentrato solo nella mia attività e, paradossalmente, nonostante il rischio avevo tutto il tempo per riuscire a gestire al meglio l’operazione non avendo gli input continui della società che sono tantissimi, dagli obblighi legali a quelli morali: è proprio questo il vantaggio e, se vogliamo, il paradosso, perché chi pensa che una volta in teatro operativo non abbiamo più il tempo di fare nulla o non c’è la libertà di pensare alle cose proprie, sbaglia; infatti, è vero che prima di un’operazione la fase di pianificazione è lunga e l’operazione reale dura solo una frazione del tempo totale, ma è proprio questo che ci permette di gestire bene il nostro tempo in ogni sua fase e ci rende tranquilli. Quindi, quando arrivi al target devi solo mettere insieme i tasselli che hai studiato perfettamente prima. Inoltre, essendo ripartiti in team di dodici operatori l’addestramento intenso, fatto in Patria, ti consente di sapere esattamente cosa farà ogni operatore: questi, infatti, deve fare una cosa specifica nelle modalità previste dalla pianificazione.

La gestione tempi, dunque, in teatro operativo, consiste nel pianificare alla perfezione ogni cosa, stando sicuri che tutti abbiano capito quello che devono fare.

– Quando uscite dalla base e andate in missione, come avvertite il tempo? Cosa provate?

Quando andiamo in missione e stiamo fuori una settimana la pianificazione deve essere non solo finalizzata all’esecuzione dell’obiettivo, ma anche completa di tutta la parte logistica, cioè sai che sei con dodici persone e magari tre mezzi e per una settimana devi essere autonomo per cibo, acqua, tenda ecc.; è tutto tempo avvertito come attesa, dell’arrivo del rifornimento, dell’ok per spostarsi da un posto ad un altro, del completamento della missione: anche in questo caso noi viviamo ‘appesi’, il tempo non dipende solo da noi, ma si blocca e aspetta che qualcosa accada. In queste situazioni lo stato d’animo possiamo dire si trovi in una bassa frequenza, cioè tutti i ritmi si abbassano e paradossalmente -ripeto sempre paradossalmente perché alle persone che non svolgono questo lavoro può apparire strano quello che dico!- quando sei costretto ad attendere qualcosa ti rilassi: non so se è una forma di autodifesa ma trovi il tempo di riflettere, cominci a pensare, la tua mente vaga, nei ricordi, nella nostalgia di quello che hai lasciato ma soprattutto pensi a quello che ti fa stare meglio, quando rientrerai -ok sto facendo questa esperienza, ma ha un termine, magari non bene definito, ma in linea di massima devono passare 4-5 mesi, e alla fine tornerò.-. Ognuno, in questo modo, si crea uno spazio mentale e passa, dunque, il tempo cercando di pensare a quello che è stato e a quello che sarà: oscilliamo dal passato al futuro, vediamo il primo come appiglio per trovare il sorriso anche nelle difficoltà più estreme e il secondo come ancora di salvezza dall’angoscia che in alcuni momenti si può provare. Passato-futuro ti danno la forza giusta e la tranquillità emotiva per proseguire al meglio la missione. Chi, invece, ha fretta di tornare a casa e pensa esclusivamente ai giorni che mancano, non è ben predisposto per espletare questo compito; chi si trova in difficoltà, infatti, non parte proprio perché in una situazione del genere in cui si sta una settimana intera senza contatti telefonici con la famiglia, lo stato emotivo non è idoneo a sopportare un’eventuale operazione delicata

in cui si deve pensare solo a quello.
Certo che nel futuro riponiamo, però, anche tanti interrogativi, perché noi tutti sappiamo che dopo 4-5 mesi di lontananza troveremo cambiati i nostri affetti, le persone a cui vogliamo bene, è fisiologico.

– In che senso dici che trovate i vostri famigliari cambiati una volta rientrati in Patria?

Devi pensare che quello che ci rende tranquilli, anche se abbiamo lasciato una famiglia a casa, è il fatto di svolgere missioni con altre persone in una piccola cellula di dodici persone: ciò ti fa rendere conto che vivi con un’altra famiglia il cui scopo non è crescere i figli ma ha il compito di portare la pelle a casa, quindi ognuno svolge il suo lavoro per raggiungere l’obiettivo e difendersi a vicenda. Questo ti rende tranquillo.
Mentre, l’unica mia preoccupazione è quella di non poter telefonare a casa per una settimana, ma non per il fatto di sentire quella persona, che comunque fa sempre bene, ma ho la preoccupazione che quella persona non sentendomi stia male: io vivo con le persone con cui lavoro anche in operazione, quindi c’è una continuità tra territorio Nazionale e l’estero, la mia vita si riempie e rimane sempre piena; la persona, invece, che lascio e che è abituata a starmi vicino e a condividere tutto con me poi all’improvviso mi vede partire per sei mesi, quando torno la trovo inevitabilmente cambiata e poi ci vuole del tempo per recuperare. Questo accade perché quella persona passa dalla routine, da un tempo quasi monotono, sempre uguale a se stesso, statico, ad una vita in cui la velocità del tempo viene raddoppiata perché deve pensare a compiere quegli obblighi che magari prima divideva con me. È quasi un trauma per la persona che resta perché, anche se abituata, anche se consapevole del mio lavoro, si ritrova improvvisamente sola. Infatti, credo che per noi che lavoriamo in territori operativi il tempo passi molto più velocemente rispetto alla persona che attende il nostro ritorno; perché noi sappiamo che oggi dobbiamo fare questo, domani quello ecc., le nostre giornate sono continuamente scandite dagli impegni ed ogni obiettivo raggiunto diminuisce la distanza dal ritorno. Mentre chi aspetta a casa non ha la minima percezione di quello che noi facciamo e abbiamo da fare, risulta pertanto difficile avere un punto di riferimento per contare i giorni che restano…certo c’è il calendario e il solito ‘conto alla rovescia’, ma è una cosa che sconsiglio perché rallenta in modo impressionante lo scorrere del tempo.

– Il pericolo, tu, l’hai mai incontrato? Come ci si sente davanti a ciò che minaccia la tua vita?

Ciò che è considerato pericolo per noi è diverso per voi.

Capita a volte che ci si trovi a passare per delle località in Afghanistan e magari dal tetto di una casa ti tirano due colpi: per voi è pericolo, per noi significa reagire tempestivamente. Per voi il tempo si blocca nell’istante dello scoccare del primo colpo, per noi il tempo non esiste, o meglio è frazionato in millesimi di millesimi di secondo con una precisione che pare impossibile: il millesimo prima che arrivi il colpo noi sappiamo già che sta per arrivare. Non è prevedere, è il sapere dettato dall’addestramento. Infatti noi, mentre andiamo in missione, non pensiamo ‘e se adesso esce un cecchino e ci spara? E se troviamo una mina e saltiamo in aria?’ perché sono eventualità che noi abbiamo già considerato prima di partire e cerchiamo, dunque, solo di raggirare. Giochiamo in anticipo. Il tempo per noi è previsto, è ‘conosciuto’.

– L’operazione più complessa è per voi, forse, quella in cui dovete andare a catturare qualcuno: il tempo in questo caso è sempre previsto o può anche succedere che l’imprevisto mandi all’aria tutto e subentrino così l’angoscia, il panico perché per un attimo non sapete come giostrarvi?

Quando dobbiamo fare operazioni più complesse, in cui dobbiamo andare a prendere un personaggio, la preoccupazione sta solo nel cercare di rispettare la tempistica prevista: sarò in grado di entrare simultaneamente ad altri operatori che entrano dalla parte opposta? La risposta per noi è scontata: sono addestrato per questo.

Certo che non tutto va sempre come previsto, ecco perché in queste situazioni c’è l’agitazione perché tutti hanno l’adrenalina al massimo per il fatto della sincronizzazione dei tempi e, come si sa, non tutti hanno gli stessi tempi di reazione, ma, ripeto, noi ci addestriamo per questo, ed è difficile che capiti di non sapere cosa fare, perché in noi è ormai radicato l’automatismo che è ciò che spesso ci salva la vita quando non c’è tempo per pensare e agire -RAID: reazioni automatiche immediate-.

– Ti è mai capitato di dover soccorrere, durante un agguato, dei colleghi feriti? In quest’occasione, il tempo come ti è parso, veloce o lento?

A volte capitano le situazioni in cui oltre a tutelare noi stessi abbiamo dovuto assistere persone già ferite: in questo caso ci si deve allontanare dal punto di contatto e, contemporaneamente, si devono mettere in salvo delle persone. Quello che dobbiamo

81 sempre ricordarci è che quando dobbiamo portare via un ferito, lui non potrà contribuire al fuoco: ma è strano, anche in questa fase tu non pensi, perché anche qui viene tutto prima: se tu sai ciò che devi fare perché l’hai pianificato ti sale il livello di adrenalina e puoi reagire e anche quando non pianifichi qualcosa che poi però si verifica, se sei addestrato non hai proprio il tempo di avere paura intesa come panico che ti blocca! Questo lavoro ci tempra al punto che anche la gestione della paura è una gestione di qualcosa che sì è più forte di te ma che se sai gestire vai alla grande: quando tu fai qualcosa e non provi un minimo di timore è il momento più giusto che ci rimetti la pelle, mentre se hai paura e la sai gestire hai l’adrenalina a mille che è ciò che ti permette di stare tranquillo perché sai di poterti regolare. Quindi, anche se sei accanto al compagno ferito non c’è paura perché in quel momento il tuo unico obiettivo è di portarlo in salvo. Certo, poi magari a mente fredda ci pensi: se ci fossi stato io chissà…ma è un pensiero ipotetico che subito ti abbandona perché la tua mente si può concentrare solo sull’adesso. Quindi risponderei né veloce né lento mi pare il tempo in queste situazioni: non ci penso!

– Allora proprio per il fatto che non ci pensi il tempo vola via, quindi pare velocissimo…

Forse sì, sarà come dici tu, ma una cosa te la posso dire: per noi soldati in missione oggi, esiste certamente un passato, fatto di ricordi, a cui pensiamo con nostalgia, esiste assolutamente un futuro, fatto di certezze e di dubbi, ma vi è solo il presente. Noi viviamo solo il presente. Solo in questo modo possiamo sopravvivere e riuscire a ricucire il nostro passato con l’avvenire. Il presente è quello che ci salva la pelle, perché in quel determinato giorno, a quella precisa ora noi dobbiamo agire in un certo modo e la nostra mente pensa esclusivamente a quel preciso istante.
Se ti distrai rischi grosso.

Come ho potuto notare dopo questa intervista, i tempi sono decisamente cambiati rispetto a quelli delle guerre mondiali: il soldato in trincea viveva giustamente la guerra con maggiore paura, perché spesso non c’erano gli addestramenti che ci sono invece oggi, e comunque la vita in trincea era decisamente più pericolosa. Le due guerre mondiali hanno causato più vittime tra i soldati rispetto alle missioni di oggi, e questo ha reso la concezione del tempo molto diversa: per i primi c’era l’attesa estenuante del ritorno, accompagnata dalla speranza quindi di sopravvivere, il futuro era allora incerto; oggi i nostri soldati vivono il presente senza tornare troppo al passato e senza pensare al futuro, per motivi di concentrazione da cui dipende la loro salvezza. I soldati di allora vivevano il presente con l’angoscia di quello che sarebbe potuto succedere e si proiettavano verso l’avvenire per poter dire ‘sono ancora vivo’ o si rifugiavano nel passato per sconfiggere la malinconia: il presente era solo un passaggio, ma talmente lento che

sembrava eterno e da cui ci si voleva allontanare il prima possibile.

Valeria Genova

1-2: Caporalmaggiore Matteo Miotto, lettera inviata dall’Afghanistan al Gazzettino, Giovedì 11 Novembre 2010

3: Cfr. Turoldo David Maria, In muta attesa, in Ultime poesie, Garzanti, Milano, 1999, p. 13

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