Guarire con la filosofia

Fin dall’antichità, filosofia e medicina sono apparse come materie strettamente collegate, affondando sin da subito le radici l’una nell’altra: Aristotele, Ippocrate e Galeno sono alcuni tra i più famosi esempi del sodalizio tra queste due discipline. Epicuro definisce la filosofia come pharmakon, rimedio per raggiungere la felicità dell’anima, così come in seguito Seneca e Cicerone; Boezio la immagina come una bella e austera donna  venuta a portare consolazione al suo spirito provato.

Pare che attualmente i legami tra filosofia e medicina risiedano più nell’ambito della bioetica e della morale in generale, volti a giudicare come giusti o sbagliati prassi strettamente cliniche, le quali risultano però, sul piano pratico, difficilmente influenzabili e modificabili: il tutto comporta una spiacevole gerarchizzazione in senso piramidale delle discipline, che vede il pensiero filosofico occupare il gradino più basso.

Eppure c’è una disciplina, forse non unanimamente accettata come scienza naturale dalla comunità degli esperti, che medicalmente cura i disturbi che le competono con un percorso terapeutico che pone l’individuo a confronto con gli aspetti più profondi dell’esistenza umana: la psicoanalisi. Nata dalla mente e dalla penna di Sigmund Freud e diramatasi in tante correnti e applicazioni pratiche quasi quante ne furono le teste che la studiarono per prima, la psicoanalisi è la teoria che ricerca le spiegazioni dell’agire umano nell’inconscio, ovvero quella parte della psiche che contiene impulsi, emozioni, modelli comportamentali e tutto ciò di cui il soggetto non ha consapevolezza ma che contribuiscono a costituirlo. Tale teoria rappresenta la terza grande “umiliazione narcisistica” per l’uomo (dopo la rivoluzione copernicana e il darwinismo), forse la più grave, perché è quella che toglie la centralità all’Io nelle dinamiche di composizione e azione del soggetto.

Sebbene in un primo momento il modello di studio neurobiologico, l’avvento della psichiatria con la prescrizioni di farmaci e la liberalizzazione della sessualità sembrava avessero smontato i presupposti della dottrina di Freud, in realtà proprio attraverso questi elementi, la piscoanalisi iniziava il suo processo di rivoluzione interna, analizzando il nucleo di quella svolta freudiana che al suo stesso creatore era rimasta velata. Autore di questo cambiamento è senza dubbio Jaques Lacan, psicoanalista e psichiatra sì, ma anche e soprattutto filosofo che ha individuato, nel percorso di analisi dell’inconscio, non solo un metodo per combattere problematiche psichiche sul piano clinico, quanto piuttosto un percorso d’avvicinamento a una verità traumatica che libera la propria voce. L’inconscio non grida frasi senza senso, ma si esprime attraverso un linguaggio; l’Io non deve mirare a dominare l’Es, pensandolo come un guazzabuglio di eventi rimossi, ma può cercare di avvicinarsi per disvelare e accettare una realtà che è già. Per Lacan nevrosi, psicosi e perversioni non sono, quindi, unicamente patologie ma veri e propri atteggiamenti filosofici che il soggetto malato assume nei confronti della realtà e che modificano la sua personalità.

Lo scopo della terapia psicoanalitica, quindi, come quello della filosofia, non è unicamente quello di portare il paziente al raggiungimento di benessere, soddisfazione personale o successo sociale, quanto piuttosto condurlo di fronte a quella sua verità, che include anche le coordinate del suo desiderio. E così, proprio come la ricerca filosofica, quella piscoanalitica alla scoperta di se stessi dura, come minimo, tutta una vita.

A questo punto, però, qualcuno potrebbe chiedere: perché mai intraprendere un percorso potenzialmente infinito e sicuramente indefinito di analisi di sé, che non comporta vantaggi immediati o che, addirittura, potrebbe condurre l’individuo che scava in se stesso a vivere momenti di crisi profonda? Non tutti potrebbero voler scoprire la propria verità, soprattutto a costo di attraversare i sentieri della sofferenza e del dubbio. Sicuramente la strada non è spianata, ma il rischio di vivere in superficie è anche quello di vivere immersi nel non-senso e nell’inautenticità. Psicoanalisi e filosofia insieme potrebbero invece restituirci pienezza e consolazione, comprensione e quindi maggiore capacità di accettazione di noi stessi, del mondo e soprattutto dell’Altro: “chi ha un perché per vivere può sopportare quasi ogni come”.

 

Vittoria Schiano di Zenise

 

[Photo credit Paxabay]

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“Dall’altra parte”: esserci o non esserci

Paolo Barnard è un noto giornalista italiano che ha redatto interessanti inchieste su temi di grande attualità, quali ad esempio la malasanità, per la trasmissione Report e tramite anche la collaborazione del canale Rai Educational. Lui ha proposto una critica all’attuale sistema sanitario italiano, impreziosita dalla narrazione dell’esperienza di vita di tre luminari italiani. I contenuti e i personaggi di cui si parla nell’opera Dall’altra parte, divenuto un libro grazie al successo mediatico riscosso dalla proiezione della puntata inchiesta cui mi riferisco, sono stati protagonisti di un reportage che il celebre giornalista ha realizzato per la serie televisiva La Storia Siamo Noi di Giovanni Minoli, trasmessa la sera del 27 giugno 2005 da Rai 3, dal titolo Nemesi Medica. Barnard ha così pensato di rivolgersi a grandi medici italiani, gravemente ammalati: e ciò perché solo loro, in quanto possessori di queste caratteristiche, avrebbero potuto costituire le guide cui rivolgersi. Solo loro, infatti, che hanno vissuto il mondo della Sanità, che l’hanno analizzato e sviscerato, che hanno studiato le più diverse patologie e avanzato delle proposte di terapia, risultano essere detentori di un sapere unico e irriproducibile, grazie alla loro parallela esperienza di malattia. Sono stati vittime di un male, e proprio nel momento di caduta nel buio psico-fisico sono stati proiettati dall’altra parte, nell’altro polo, quello più vulnerabile, nel rapporto di comunicazione e relazione tra medico e paziente. Loro hanno coniugato nel profondo di se stessi, in un vortice di emozioni e stati d’animo, ogni singola nozione scientifica che possedevano, ogni struttura ospedaliera da loro abitata, «ogni anfratto dell’universo medicina in cui erano vissuti»1. Barnard, così, confida al lettore:

«[…] A loro ho chiesto aiuto. Aiutateci a cambiare non solo la figura del medico ma anche quella della Sanità. Raccontateci come voi la rifareste oggi, dopo averla vissuta in pigiama, attaccati a un catetere venoso o urinario, nella solitudine che si prova dentro una risonanza magnetica o mentre ci si riveste in un ambulatorio; oggi che conoscete la depressione e la nausea, che anche a voi è capitato l’incontro con la logopedista o con l’oncologo dai modi poco azzeccati se non brutali, oggi che potete capire più di altri cosa vive chi è nelle vostre stesse condizioni di sofferenza ma non possiede i vostri privilegi»2.

La malattia, così come viene narrata attraverso le confessioni dei tre medici, pare più un «sequestro di persona che non [il corsivo è mio] un incidente biochimico: ti blocca ovunque tu sia, […] senza risparmiare nessuna delle tue esigenze, dei tuoi progetti e dei tuoi diritti, ti porta via in un luogo lontano da tutto ciò che hai sempre conosciuto come te stesso, il tuo ambiente, e ogni tua sicurezza»3. La malattia costituisce quella realtà che una volta insidiata e imposta nell’esistenza dell’individuo ne diventerà tiranna, sarà ciò che ne scandirà i ritmi, che ne condizionerà il percorso, condizionando allo stesso tempo la struttura della rete di affetti in cui il malato è immerso. Il periodo di malattia si propone quale insieme di stati d’animo, esperienze emotive di enorme complessità, senza dubbio più articolato rispetto a delle quantificabili e oggettivabili manifestazioni biochimiche: è ciò che, come Barnard suggerisce, segna la fine, il superamento della sfera d’innocenza e l’inizio di una nuova visione delle cose, di una diversa e imposta condotta di vita. Anche se la guarigione potrà verificarsi, la primigenia e originaria innocenza si è ormai dissolta per sempre, polverizzata dal dolore.

«In un letto alieno, in un ambiente in cui non si ha alcun controllo […] chi se ne sta supino sotto le lenzuola nel momento forse più vulnerabile di tutta la sua esistenza ha il terrore che se protesterà, se qualcuno della sua famiglia oserà difendere anche il più sancito dei suoi diritti, verrà preso in antipatia e magari poi lo cureranno male, magari la volta dopo il medico sarà più sciatto, oppure l’infermiere non verrà di notte o lo farà aspettare di più, e se in futuro dovrà tornare in quel reparto lo tratteranno peggio e gli parleranno ancora meno. In gioco c’è la propria vita e la paura della sofferenza, che rendono deboli come mai prima. Meglio tacere e ingoiare tutto»4.

Parallelamente, a mantenere e aumentare sempre più l’abisso tra malattia e professione medica, tra paziente e medico, contribuiscono senza dubbio anche strutturali limiti organizzativi e culturali di cui il medico è vittima tanto quanto l’ammalato. Ma proprio per questo,  in tale contesto, il ruolo che ricopre il medico è cruciale: sarà proprio lui a fare la differenza nel modo con cui il paziente riuscirà ad affrontare e sostenere il peso della malattia.

«I medici camminano svelti e concentrati fra ali di anime pesanti e disorientate, scrutano referti con parole che sono un destino segnato, che non li riguarda però, mentre il paziente ha appena compreso che quell’ –oma alla fine di un’astrusità che non capisce significa semplicemente che da oggi tutto ciò che ha sempre costituito il suo sé, la sua vita, e ogni altro suo riferimento è saltato per aria»5.

L’intento dell’opera, come sostiene il curatore stesso, è quello di cercare di colmare l’abisso che impedisce la comunicazione tra la scienza medica e la sofferenza del paziente: per raggiungere questo fine è necessario sostenere e spingere il medico a un profondo incontro con se stesso, con il paziente e con la malattia.

L’opera consta di quattro sezioni, dedicate alle toccanti confessioni di questi medici-pazienti, la cui ultima prevede un Decalogo, frutto della serena collaborazione dei terapeuti. Si tratta di Sandro Bartoccioni, cardiochirurgo vittima di un tumore allo stomaco, Gianni Bonadonna esempio d’eccellenza nell’oncologia medica mondiale, colpito da ictus, infine Francesco Sartori, caposcuola di chirurgia toracica a livello europeo, sopravvissuto a un devastante melanoma.

«[…] Chi è abituato a curare gli altri ha enormi difficoltà ad accettare il ruolo di paziente. Tende a negare, sminuire i sintomi, a consultare frettolosamente un collega, magari al telefono o nel corridoio dell’ospedale, a curarsi da sé. Eppure, proprio da professionista della salute, dovrebbe ricordare che il momento culminante della medicina è la diagnosi di malattia cui segue il cammino terapeutico per curare e guarire il paziente. E l’abilità nella diagnosi sta nell’annotare in modo corretto la storia clinica che il paziente racconta, i sintomi e i segni di malattia, le sue condizioni generali. Sulla base di queste osservazioni il medico formula una prima ipotesi diagnostica che, attraverso gli opportuni accertamenti, verrà avvalorata o negata. E proseguendo in una linea strategica corretta, formulata la diagnosi di malattia, il medico, porrà in atto tutti i presidi adeguati per curare e assistere il paziente che a lui si è affidato»6.

Questo articolo vuole essere solo un semplice accenno a pagine dense di testimonianze di vita, lavoro ed esperienza di malattie, prive di filtri. Dedicare un po’ di tempo alla lettura di questo interessante intreccio di storie ed esperienze di vita, legate tra loro dal dolore, dalla sofferenza e da una vocazione divenuta una missione comune, significa accettare il regalo di questa intima confidenza che ci è stata donata da questi tre medici, e così ben confezionata e narrata (sia sottoforma di proiezione televisiva che come testo) da un giornalista a volte tacciato quasi di profetismo presuntuoso, ma che ha deciso di immergersi nelle profondità di luoghi molto spesso evitati o, ancora peggio, mantenuti nell’ombra, chissà, forse per (dis-) interessi secondari o, semplicemente, per cieca ignoranza altrui.

La sfida attuale alla ricerca, all’analisi e alla diffusione di esempi di scorci di verità come questi,  relativi ad esperienze spontanee, a volte fortemente toccanti, e proprio per questo scomode, è un possibile investimento verso una serena e matura evoluzione di prospettive.

Riccardo Liguori

NOTE:
1. S. Bartoccioni, G. Bonadonna e F. Sartori, Dall’altra parte, a cura di Paolo Barnard, Bur, Milano, 2006, pag. 12
2. Ibidem
3. Ivi, pag. 6
4. Dall’altra parte, pag. 9
5. Ivi, pag. 8
6. Ivi, pag. 165

[Immagine tratta da Google Immagini]

I cinque passi

Passo 1: la negazione
È quasi un mese che sono seduta accanto al tuo letto, in questa sterile camera d’ospedale che abbiamo cercato di rendere insieme un po’ più calda, un po’ più familiare. Una nostra foto, le tue creme, il tuo pupazzo portafortuna vicino alle tante, troppe medicine.
È quasi un mese che sono seduta costantemente accanto al tuo letto, ma un’ora fa ho deciso di andare a casa a fare una doccia. Sarà passata forse mezz’ora e mi hanno chiamato dall’ospedale: mi hanno detto che sei morta.
Ho ringraziato e ho riagganciato. Mi sono vestita, mi sono truccata e sono venuta in ospedale. Le infermiere mi sono venute incontro, mi hanno detto che erano dispiaciute, perché ormai a te erano affezionate, e mille altre cose che non ricordo o che forse, semplicemente, non ho ascoltato. Ho sorriso, ho annuito. Non ho versato neanche una lacrima. E poi mi hanno portata da te. E adesso mi ritrovo, esattamente come tutti gli altri giorni, seduta accanto a te, seduta accanto a un letto di ospedale, solo in una camera che non ha niente di personale.

È tutto così irreale.

Ti guardo e non ti vedo, ti tocco ma non ti sento. Forse questa non sei neanche tu.

Passo 2: la rabbia
Ho dormito come non dormivo da settimane. È stata una notte buia, profonda. Non ho sognato. Questa mattina mi sono svegliata e senza pensarci mi sono vestita, ho preso la macchina e sono venuta in ospedale. Ho parcheggiato e sono salita in reparto. Sono arrivata davanti alla tua camera.
Non c’era più niente. Non c’eri più tu.

È in quel momento che ho realizzato che te ne sei andata, che mi hai abbandonato. Ho iniziato a sentire dentro di me un vuoto incolmabile. Un vuoto che fa male. Il dolore si è localizzato nel petto. Una fitta che mi ha tolto il fiato. È passato allo stomaco. Credo che le mie interiora si siano attorcigliate tutto d’un tratto. E poi… poi semplicemente si è diffuso a tutto il corpo. E sono rimasta immobile, davanti a quella porta, stretta in una morsa, fino a quando non mi sono abituata a quel dolore.

Ed è esplosa la rabbia. Violenta. Improvvisa. Inaspettata.

Mi si è avvicinata un’infermiera, che mi ha guardato con una tale pena negli occhi da farmi vergognare. E ho iniziato a urlare. Ho chiesto di essere lasciata in pace, in fondo ero solo passata a vedere se avevo dimenticato qualcosa la sera prima. Ma che mondo è questo? Siamo state un mese in quella stanza e adesso che sei morta non mi ci fanno neanche avvicinare? È una vergogna. E me ne vado. Salgo in macchina e inizio a correre, senza sapere dove andare, smarrita.
Sono arrabbiata. Arrabbiata con l’ospedale che ha già riempito la tua stanza. Arrabbiata con me stessa per essere venuta lì, convinta di trovarti. Arrabbiata con tutto il resto del mondo, che continua ad andare avanti come se nulla fosse successo. Mi guardo intorno e vedo la gente ridere, sbuffare, parlare al telefono. E tutto questo mi fa arrabbiare ancora di più. Sono talmente arrabbiata che stringo il volante fino a farmi male alle mani. Sono talmente arrabbiata che non so neanche quello che sto facendo o dove io sia.

Sono talmente arrabbiata che penso di odiarti.

Come hai potuto? Perché sei stata così egoista da lasciarmi? Mi hai abbandonata. Qui. Immobile. Sospesa. Non mi hai spiegato come fare ad andare avanti. Non mi hai spiegato come affrontare tutto questo. Non mi hai neanche aspettato per andartene. Lo hai fatto quando io non c’ero. E non me lo perdonerò mai. Perché mi hai fatto questo? Perché non sei andata prima dal medico? Perché hai voluto fare tutto da sola?

Sono arrabbiata. E sono arrabbiata proprio con te. Ma la verità è che la rabbia non mi impedisce di amarti e di sentirmi meno sola.

Passo 3: la negoziazione
È passato un mese. La rabbia è stata la mia compagna quotidiana. Ho mangiato rabbia. Respirato rabbia. Vomitato rabbia. La rabbia ha assorbito e bruciato tutte le energie che avevo. Ho provato a seminarla. Ho cercato di reagire alla sensazione di impotenza che provavo. Ho cercato delle risposte. Ho cercato giustificazioni. Mi sono detta che non eri più tu. Mi sono detta che è stato un bene. Per te, che non avresti più sofferto. Per me, che non ti avrei più vista soffrire, che avrei potuto riprendere il lavoro, che avrei potuto riprendere la mia vita da dove l’avevo lasciata quando avevo capito che non ci sarebbe stato più molto tempo per noi. Mi sono detta che qualcosa dopo la morte ci deve pur essere. Mi sono detta che mi saresti stata sempre vicino. Mi sono detta tante cose e mi sono arrabbiata tante volte. Ho fatto tutto questo per avere uno scudo dal dolore. E forse è vero, con lo scudo della rabbia e delle giustificazioni si soffre in modo diverso, ma si soffre lo stesso. E la cosa più difficile è dire a me stessa che tu non tornerai più. Che l’ultimo abbraccio è stato veramente l’ultimo. Che l’ultima risata è stata veramente l’ultima volta in cui ti ho visto sorridere, l’ultima volta che ne ho sentito il suono.

Ma tu non tornerai più.

Questa è la realtà.

Passo 4: la depressione
Ed è arrivato il momento in cui ho ammesso che eri morta. Che non potevo farci niente. Che non potevo scappare da quella che era la realtà. E sono caduta. Nella disperazione. Nella depressione. Non mi sono alzata dal letto per una settimana. Non mi sono lavata. Non ho mai aperto le finestre per guardare se pioveva o se fuori c’era il sole. Ho pianto e dormito. E ho pianto ancora. Ho digiunato. E poi ho mangiato chili di biscotti, gelato, patatine. Anche in quest’ordine. E ho annusato i miei cattivi odori. Non ho mai acceso il telefono o risposto al citofono. E quando mi è sembrato di non soffrire abbastanza ho spruzzato il tuo profumo sul cuscino. E ho ricominciato a piangere. Fino a quando non ho iniziato ad alzarmi e a fare qualche passo, prima incerto, poi più deciso.

Passo 5: l’accettazione
E sono sopravvissuta. Pensavo che non ce l’avrei fatta. Pensavo che non sarei mai più uscita da quel letto. Pensavo che non sarei riuscita a sopportare tutto quel dolore. Ho avuto paura di vivere e ho sperato di morire, per non provare più niente. Ma non sono morta, sono viva. E sono in piedi. Un po’ azzoppata forse. Ma in piedi. Ho affrontato tutto il dolore che avevo, non sono scappata.
Ho negato la tua morte, mi sono arrabbiata, ho cercato delle spiegazioni, mi sono abbandonata al dolore e adesso sono qui, ad accettare tutto questo. Anche se non mi piace. Ho accettato di dirti addio. Ho accettato il vuoto che mi hai lasciato. E ho accettato di dover riprendere la mia vita.

Soffro meno?

No. Il dolore ancora mi accompagna silenzioso. E a volte, quando mi distraggo, mi colpisce. Una canzone, un profumo, un luogo: un ricordo. E mi devasta. Ma poi si ritira. Per poi ritornare. Ma lo so, le ondate saranno sempre meno frequenti, sempre meno violente, fino a quando la cicatrice nel mio cuore si rimarginerà del tutto e pensarti non mi farà più così male.

Quanto ci può mettere un cuore a guarire? Un tempo “giusto” non c’è, ci sono “solo” cinque passi [₁].. il tempo dipende da quanto ci impieghiamo a mettere un piede davanti all’altro. È come imparare di nuovo a camminare. È come imparare di nuovo a vivere.

[₁]ELISABETH KÜBLER ROSS. Sulla morte e sul morire, 1969.

Giordana De Anna

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