Metamorfosi e specchi, imagerie grottesca, riso e polifonia

«Mieulx est de ris que de larmes escripre/ Pour ce que rire est le propre de l’homme»1: questi i due versi conclusivi rivolti Ai lettori nel Gargantua et Pantagruel, ciclo di cinque romanzi scritti da François Rabelais, pubblicati con lo pseudonimo e anagramma di Alcofibras Nasier a Lione nel 1542 dall’editore François Juste. In età rinascimentale era celebre la formula aristotelica del De Anima «fra tutti gli esseri viventi, solo l’uomo conosce il riso»: dono divino, il riso era considerato un privilegio offerto soltanto all’uomo, dotato di ragione e di spirito, inaccessibile alle altre creature. 

Nella storia del riso, l’epoca di Rabelais, Cervantes e Shakespeare rappresenta un decisivo turning point e il modo di concepire il riso marca in modo netto le frontiere che separano il Rinascimento dai secoli seguenti: se in età rinascimentale, infatti, il riso, punto di vista sia particolare che universale sul mondo, percepisce la realtà in modo diverso, ma non per questo meno importante, dal tono serio, a partire invece dal XVII secolo il riso è inteso come svago leggero e stigmatizzazione socialmente utile di atteggiamenti riprovevoli, non più capace di esprimere la verità sostanziale sull’uomo, rilegato tra i generi minori. 

Ad esempio negli Essais Montaigne, pur dichiarando di amare i libri divertenti – forse per questo ancora uomo del XVI secolo – tuttavia annovera Rabelais, con il Decameron di Boccaccio, ai margini della grande letteratura, nell’elenco di quei libri «simplement plaisants […] dignes qu’on s’y amuse». 

E rispetto alla tradizione antica e medievale, in età rinascimentale non c’è semplicemente una continuazione di quella pratica artistica del riso ma piuttosto l’apertura a una fase totalmente nuova e superiore, più radicale e più universale: nel Rinascimento il riso si svincola infatti dalla cultura popolare e dalle forme d’arte non ufficiali per fare irruzione nella letteratura. Come spiega a riguardo, nel celebre saggio su Rabelais, il critico letterario russo Michail Bachtin – che conia l’etichetta di «carnevalizzazione della letteratura» ‒ «il riso del Medioevo nel periodo rinascimentale del suo sviluppo divenne espressione di una nuova coscienza storica, libera e critica, dell’epoca»2: il riso quindi, con il suo materialismo e la sua sfrontatezza, evolve da uno stadio di esistenza quasi spontaneo a uno di consapevolezza artistica, e, in particolare nell’opera di Rabelais, avviene la sutura tra il realismo grottesco di matrice comico-popolare e la letteratura. 

Oltre ad Aristotele, fonte della filosofia del riso, in epoca rinascimentale, è Ippocrate: non solo i trattati medici, quali il De morbis passim grassantibus, sul potere curativo del riso, ma anche il  cosiddetto Romanzo di Ippocrate, corrispondenza apocrifa, allegata al Corpus Hippocraticum, in cui si parla della “follia” di Democrito, intesa come atteggiamento dell’uomo che ha raggiunto appieno la maturità. Terza fonte della filosofia del riso rinascimentale è Luciano, in particolare il Menippus o Necyomantia e i Mortuorum dialogi. Lo sviluppo della satira menippea nel folclore carnevalesco medievale e rinascimentale è al centro di un altro importante studio di Bachtin, Dostoevskij. Poetica e stilistica (1929), dove il critico introduce il concetto di narrazione polifonica e dialogica, peculiarità della poetica dostoevskiana i cui antecedenti sono da rintracciare in quel filone “minore” della letteratura, definito “serio-comico”, in particolare nel dialogo socratico e nella satira menippea, appunto. 

Il carnevale è contraddizione e libertà ‒ sia pure effimera ‒ tutto distrugge e tutto rinnova, mescolando attori e pubblico è una grande platea di se stesso, tutto è ambivalente e invertito: questo bisogno di sospensione e di rovesciamento si esprime ad esempio già nella libertas Decembris dei Saturnali, quando si invertivano i rapporti tra padroni e servi, o nei ludi scenici plautini, che, come spiega Maurizio Bettini nel saggio introduttivo alla Mostellaria, Un’utopia per burla – alludendo così al rito d’incoronazione del godereccio re carnevalesco ‒ «agiscono proprio come scompaginamento fittizio, come inversione giocosa dei rapporti sociologici usati. […] Diciamolo pure, il teatro plautino è un teatro “carnevalesco”»3. Profondamente ambivalenti sono anche le forme del riso carnevalesco, parodistiche e grottesche, deformanti e bizzarre, talvolta con una declinazione realistica: tipico, in tal senso, l’intreccio di umano e animale, come nella metamorfosi dell’Asino d’oro di Apuleio. 

Con riferimento alla linea individuata da Bachtin, di poetica del riso e carnevalizzazione della poesia si parla anche in ambito novecentesco in particolare a proposito della portata provocatoria e stilisticamente innovativa delle Avanguardie, quali Dadaismo e Surrealismo, e per autori estrosi, quali Aldo Palazzeschi, autore dell’ “antiromanzo” Il codice di Perelà (1911), scanzonata e allegorica fiaba surreale, ritenuto dal critico Luigi Baldacci il libro più valido e felice della produzione palazzeschiana per la leggerezza di tocco e la decisa caricatura delle idee correnti, resa sul piano stilistico mediante l’uso di lunghissime sequenze di dialogo di gusto teatrale. E l’artista saltimbanco nel gennaio 1914 su «Lacerba» nel paradossale manifesto Il Controdolore ribalta con scherno le convenzioni e il perbenismo proclamando il piacere di farsi beffe di tutto: «Bisogna educare al riso i nostri figli, al riso più smodato, più insolente»

 

Rossella Farnese

 

NOTE:
1. «Meglio è di risa che di pianti scrivere/Ché rider soprattutto è cosa umana» da F. Rabelais, Gargantua et Pantagruel, Einaudi, Torino, 1973, p. 5.
2. M. Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare. Riso, carnevale e festa nella tradizione medievale e rinascimentale, Einaudi, Torino, 1979, p. 75.
3.  M. Bettini, Un’utopia per burla in Plauto, Mostellaria-Persa, Mondadori, Milano, 1991, p. 12.

 

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Un viaggio nell’arte del surreale

Ogni viaggio che si compie porta inevitabilmente a delle riflessioni, siano esse in merito a un dato stile di vita oppure a ciò che vediamo per le strade e le piazze, nei musei e ovunque possa nascondersi qualcosa che stimola il nostro interesse. La visita alla città di Madrid è stata per me senza dubbio una delle più fruttuose in questo senso, specie se prendo in considerazione i suoi grandi musei, veri e propri monumenti all’arte spagnola e non solo. Ma se da una parte ciascun grande museo europeo può facilmente stimolare l’interesse e l’attenzione nei confronti di qualche particolare autore o di una specifica corrente artistica, i due principali musei madrileni, il Prado e il Reina Sofia, riescono con successo a unire le loro forze per restituire al visitatore, tra le altre cose, una sorta di compendio della pittura del surreale, o, meglio, un percorso tematico che dalle prime immagini fantastiche e visionarie assimilabili all’irrazionale conduce fino alla corrente artistica e letteraria che di questi principi ha fatto il suo manifesto, vale a dire il Surrealismo.

È il Museo Reina Sofia a offrire al visitatore un’ampia carrellata di opere dei due tra i più grandi esponenti di questa importante Avanguardia, Salvador Dalì e Joan Mirò. Profondamente influenzati dalla lettura dei testi di Freud e Jung, nonché vicini all’opera letteraria di André Breton, fondatore del movimento nel 1924, e all’opera pittorica di alcuni colleghi, in primis René Magritte e Max Ernst, essi hanno sviluppato autonomamente due poetiche dalle caratteristiche estetiche molto diverse ma dalle basi concettuali ovviamente simili.

Loro obiettivo è quello di rappresentare in pittura e in scultura visioni oniriche che volutamente non hanno alcun senso, e che sono quindi definibili come totalmente irrazionali e assurde. Tuttavia queste complesse immagini sono talvolta pregne di simboli dai connotati spesso grotteschi, che, se adeguatamente interpretati in relazione l’uno con l’altro, riconsegnano un significato non banale celato dietro l’intera composizione. La creazione di queste opere, d’altronde, avviene non senza un’ampia conoscenza alle spalle dell’autore, che, una volta assimilate le teorie della psicanalisi, consapevolmente perde consapevolezza del suo essere razionale per stimolare in sé, mediante numerose tecniche, pensieri e immagini appartenenti alla sfera dell’inconscio, i quali, elaborati con estrema libertà e disinibizione, vengono prontamente trasformati in pittura o scultura. Si ottengono così composizioni dall’aspetto straniante e assurdo, marcatamente contrapposte alle ricerche figurative dell’arte tradizionale e delle altre avanguardie storiche, tendenzialmente legate a un forte senso di razionalità (soprattutto Cubismo e Futurismo).

Va detto, però, che nella storia dell’arte occidentale non mancano alcuni rari ed eccezionali episodi di manifestazione dell’irrazionale e dell’inconscio precedenti all’esperienza surrealista, e proprio a Madrid, spostandosi di qualche centinaio di metri dai capolavori di Mirò e Dalì, si trovano alcuni degli esempi più eclatanti in questo senso, capolavori pittorici dalle caratteristiche uniche, conservati all’interno del Museo del Prado.

Il capostipite, il precursore inconsapevole del surreale nella pittura figurativa è senza dubbio Hieronymus Bosch, artista fiammingo attivo tra la fine del Quattrocento e il 1516, anno della sua scomparsa. Al Prado sono presenti alcuni dei suoi maggiori capolavori, primo tra tutti il Trittico delle Delizie, che quanto a figure surreali, scene assurde e immagini fantasiose riesce sicuramente a superare persino l’estro unico e irripetibile di Salvador Dalì. Quel che si para di fronte agli occhi dello spettatore è un ampio giardino popolato da decine e decine di figure in preda al delirio, al piacere più sfrenato, alla follia. Alcune creature mostruose o animali dalle proporzioni totalmente irreali accompagnano il grande turbinio che anima la composizione e il tutto è condito da numerose scene che vanno da quelle di un erotismo deviato presenti nel pannello centrale a quelle apocalittiche del pannello laterale.

Se confrontato con le opere di Dalì, questo dipinto può facilmente essere indicato come un’anticipazione dei soggetti del Surrealismo. Tuttavia l’opera è una grande allegoria di difficile interpretazione, spesso indicata come rappresentazione dei vizi umani, e pertanto ha poco a che vedere con la poetica surrealista del Novecento: le immagini presenti nel dipinto hanno esclusivamente funzione simbolica e, nonostante siano frutto di una fervida e invidiabile immaginazione, non possono essere del tutto assimilate alle immagini dell’inconscio presenti nelle opere dell’Avanguardia, caratterizzate da un forte taglio individuale, strettamente legato alla personalità dell’artista.

Le stesse considerazioni possono essere fatte sul più grande dipinto esistente del pittore fiammingo Pieter Bruegel il Vecchio, la Festa di San Martino (anch’esso al Prado), inclemente raffigurazione della bestialità umana che risente della lezione di Bosch. Questi capolavori presentano immagini irrazionali, grottesche e di straordinaria visionarietà, che tuttavia fungono da mezzo per trasmettere messaggi razionali e in genere condivisi dal contesto culturale nel quale essi sono stati creati. Di conseguenza, nonostante la loro vicinanza estrema alle opere del Novecento del Museo Reina Sofia per quanto riguarda l’approccio alla visione surreale, mostruosa ed estraniante, è il tipo di lettura e, dunque, il loro fine ultimo a decretare una distanza in realtà incolmabile con i capolavori della corrente surrealista.

Altro discorso invece va fatto per la serie di 14 dipinti noti sotto il nome di Pitture nere, realizzati da Goya nei suoi anni estremi (1820 circa) e originariamente eseguiti ad olio sulle pareti della sua casa (la “Quinta del sordo”). Trasportati poi su tela alla fine dell’Ottocento, sono oggi visibili tutti insieme in una sala loro dedicata all’interno del Museo del Prado. Eseguiti in un’epoca in cui già esisteva una marcata sensibilità nei confronti dell’irrazionale e dell’onirico, questi dipinti rappresentano forse il vertice insuperato e insuperabile dell’arte del surreale, in quanto autentiche e pure rappresentazioni delle spaventose visioni del vecchio Goya, ormai sempre più vicino alla fine dei suoi giorni. Rappresentazioni macabre e visionarie, frutto dei terrificanti pensieri dell’autore, incubi a occhi aperti, caratterizzati dal medesimo caos disturbante che regna nei nostri sogni più ambigui e ansiogeni, una vera e propria trasposizione materiale dell’inconscio dell’artista, da lui gestito con lucidità e sincerità, senza le inibizioni e le censure imposte all’operato degli artisti quando non lavorano per sé stessi.

Mancano qui le immagini fantasiose e surreali di Dalì e Mirò, ma, d’altro canto, a essere surreale è l’umanità che vi è rappresentata, l’atmosfera generale in cui queste scene sono pensate e il significato stesso delle raffigurazioni. Nessuno prima di Goya si era davvero avvicinato così tanto alla poetica e ai concetti che il Surrealismo avrebbe manifestato circa un secolo più tardi. Tuttavia, qui c’è qualcosa che va addirittura oltre: non vi è alcuna sovrastruttura culturale dietro queste opere, nessuna lettura freudiana, nessuna intenzionalità, ma un uomo solo di fronte al proprio destino, con le sue paure, le sue debolezze, il suo mondo interiore.

Nulla di più coerente e significativo per concludere un viaggio all’insegna dell’irrazionale e dell’inconscio, che unicamente nella capitale spagnola può trovare così numerosi e straordinari spunti di riflessione.

 

Luca Sperandio

 

[Immagine tratta da Google Immagini]

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Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza. Cosa sono la vita e la morte?

Il film Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza è uscito nel 2014, aggiudicandosi il Leone d’Oro al Festival del Cinema di Venezia. È diretto dal regista svedese Roy Andersson, che con questo lungometraggio conclude una peculiare trilogia (composta dai suoi due precedenti lavori Songs from the Second Floor del 2000 e You, the Living del 2007).

Andersson è un regista del quale non si sente molto parlare in Italia – se non fra i critici.  

Ammettiamolo: questo lunghissimo titolo fa pensare a quei film d’essai che spesso si fatica a capire (o a digerire!). Se è vero che la pellicola è un’elucubrazione mentale di matrice certamente filosofica, è anche vero che non si tratta affatto di un film eccessivamente cerebrale o pretenzioso. Direi che si rivela, piuttosto, una gradita e dolce-amara sorpresa. Ma avverto: bisogna armarsi di pazienza. Tante sono le scene mute, esclusivamente e pittoricamente visive, e occorre fare molta attenzione ai particolari.

I titoli di testa ci annunciano che il lungometraggio è la «parte finale di una trilogia sull’essere un essere umano». Il nucleo tematico del film è dunque la fin de la vie, il momento del trapasso – infatti ci vengono mostrati tre incontri con la morte.

Andersson mette subito in scena il suo grottesco umorismo: il primo incontro riguarda un decesso che passa inosservato, quello di un uomo colto da infarto senza che la moglie canterina, impegnata in cucina, si accorga di nulla. Seconda inquadratura: un uomo si reca in ospedale al capezzale della madre morente, dove ritrova i suoi fratelli. La moribonda stringe tra le mani una borsa contenente gioielli e soldi. I fratelli spiegano che la donna vuole portare con sé in paradiso tutti i suoi preziosi averi. Segue un tragicomico tentativo, da parte dei fratelli, di strappare la borsa dalle mani della madre mentre lei si lamenta e il suo letto d’ospedale si sposta accentuando il ridicolo di tutta la situazione. Terzo incontro col sonno eterno: un uomo muore improvvisamente a bordo di un traghetto, proprio dopo aver pagato un pasto e una bibita che, ovviamente, non ha fatto in tempo a consumare. «Non si può certo pagare due volte una consumazione, meglio offrirla a qualcuno» dicono i presenti.

Tanti altri personaggi si avvicendano nel corso del film, che è un susseguirsi di inquadrature frontali – è la prospettiva che avrebbe un piccione appollaiato su un ramo. Pennuto che viene citato a un certo punto della storia: una bambina impacciata sale sul palco durante un saggio scolastico intenzionata a recitare una poesia su questo uccello che «si riposava e pensava, pensava che non aveva soldi e poi volava a casa sua». Come non pensare che il regista ci abbia voluto suggerire che la vita in fondo è questo: riflessione (alla quale Andersson dona enorme importanza), ma anche osservazione, nonché – scadendo nella materialità così come fanno i figli che cercano di scippare la madre morente – soldi e casa.

Che tutto ruoti attorno al denaro lo sanno anche i due venditori di scherzi che paiono mortalmente seri. Uomini bizzarri che vanno in giro con valigette contenti denti da vampiro, sacchetti che riproducono risate e un’inquietante maschera. I due cercano di concludere (senza riuscirci) grandi affari, scontrandosi con la loro vita grigia, arida, miserabile. Vivono in una specie di pensionato che ricorda una prigione, litigano ma si riappacificano perché al mondo non hanno nessun altro. Ci ricordano che la vita non è che uno scherzo grottesco e tragicomico, uno scherzo serio, per usare un calzante ossimoro.

Ma la vita è anche la pulsione sessuale rappresentata dall’insegnante di danza vecchiotta e in carne che incalza il suo bello e giovane allievo. Vita è lo scorcio visivo e sonoro che mostra un bimbo in carrozzina che ride gioioso. Vita è l’energia dei soldati di re Carlo XII di Svezia (che fa una stravagante comparsata in un bar dei giorni nostri) pronti a combattere – ma anche a morire – sul campo di battaglia.

Questo e molto altro ancora è ciò che possiamo trovare in questo film iper filosofico che propone e ripropone alcune silenziose domande: vogliamo essere osservatori come il piccione del titolo oppure soggetti agenti? Vogliamo concentrarci sugli aspetti materiali della vita o sugli affetti (la casa)?

Nel suo tetrafarmaco, Epicuro ci rassicura spiegandoci che non ha senso temere la morte: quando ci siamo noi, lei non c’è e viceversa. Ma il tutto è davvero così semplicistico?

Concludo con una citazione dal film: «Aveva un sasso nella scarpa, è stato bello quando se l’è tolto».

Forse, per sentirci più liberi prima che giunga la fine – risata finta e stonata che incombe sulla vita, riso argentino e genuino – sarebbe meglio togliere qualcosa.

 

Francesca Plesnizer

 

[immagine tratta da Google immagini]

 

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Io, corpo mostruoso. Perfezione e grottesco nell’arte e nella vita

Per anni mi sono sentita, e a tratti continuo a sentirmi, un corpo mostruoso.

Osservando le modelle, le pubblicità più o meno patinate e i film americani non posso far altro che sentirmi così, piccola e mostruosa in un mondo di gente perfetta. In passato ci pensava l’arte a proporci modelli di perfezione inarrivabile: dal canone policleteo alle Madonne medievali e poi le vergini rinascimentali, passando per le donne formose di Rubens e per contro poi il corpo snello Art Déco. Ma la cosa peggiore è che oggi la bellezza viene sbandierata come il frutto di un duro lavoro: “A lovely girl is an accident; a beautiful woman is an achievement” è lo slogan che Vogue ha lanciato addirittura negli anni Trenta e che ancora oggi ci annichilisce. Se non sei bello, insomma, è colpa tua e della tua pigrizia. Non puoi nemmeno mettertela via.

 

Si diventa un ibrido. Che però è anch’esso mostro. E si torna al punto di partenza.

orlan_la-chiave-di-sophiaÈ evidente che se la società ha da sempre ricercato la perfezione, come conseguenza ha anche da sempre scacciato i cosiddetti mostri, i “freaks”, gli altri-da-sé. Lo racconta già Mary Shelley quando scrive Frankenstein nel 1816: ciò che è diverso da noi è brutto e ci fa paura; per questo lottiamo così strenuamente per scacciarlo (a volte anche solo inconsapevolmente). Alterità e bruttezza vanno di pari passo e la loro conseguenza è la paura. Secondo il semiologo Jurij Lotman, infatti, l’Altro è ciò che irrompe negli schemi del consueto e che si colloca al di fuori delle funzioni chiare e consolidate, “costringendo” ogni società culturale a creare un proprio sistema di marginali. Eppure, quasi paradossalmente, sarebbe proprio questa interruzione degli schemi e della consuetudine a trasformare il nostro modello di appartenenza, a metterlo in moto, a renderlo dinamico. Il mostro, l’ibrido, l’Altro, avrebbe dunque una valenza del tutto positiva1, ci renderebbe in qualche modo migliori.

Un pensiero consolante.

Del resto, il nostro mondo è completamente multiforme, un’accozzaglia di aspetti, suoni, menti, ondate e risucchi di opinioni e di forme. Inutile uniformare, ancora più inutile uniformare sotto l’egida della perfezione. Un mondo incasinato, poi, non può che ispirare un’arte incasinata: ed ecco allora che la forma artistica sbriglia totalmente la fantasia sui corpi, nasce un groviglio di alterità e deformità esagerate che riempie l’arte. Il grottesco, da sempre resistito nella storia dell’arte, trovando espressione in meno note opere di artisti come Dürer e Raffaello e attraversando il Rococò, ha raggiunto anche le stampe di Odile Redon. Nel grottesco dell’arte oggi si superano i limiti della sessualità, si scardinano gli ideali di bellezza, mutano e si ridefiniscono le dinamiche di appartenenza, perché secondo il filosofo russo Michail Bachtin «il corpo grottesco è un corpo in divenire. Non è mai dato né definito: si costruisce e si crea continuamente, ed è esso che costruisce e crea un altro corpo»2.

jenny-saville_la-chiave-di-sophiaLe figure visionarie del Cremaster Cycle di Matthew Barney, le mutazioni genetiche di Patrizia Piccinini tra animale e umano, i corpi deformi di Jenny Saville, le creature di Karin Andersen, i personaggi silenziosi di Korzhev, ma anche i corpi menomati di Marc Quinn e i volti non-volti di Francis Bacon, che anelano a rivelare qualcosa che sembrava non potesse essere detto. Adesso si può dire tutto: tormento, esclusione e dolore possono essere espressi e possono diventare protagonisti di uno slancio di forza e di speranza, di accettazione.

Cerco allora di osservare questi corpi grotteschi dell’arte, di arrivare alla loro dignità espressa, all’essenza che emerge dall’apparenza, e tento di vedere in essi la mia immagine. L’immagine di chiunque si guardi e si veda sbagliato nel mondo dei perfetti. Penso che è nei mostri che pulsa la vita, che si nasconde la vera bellezza, che è insito il senso del nostro esistere. E che quindi forse, ma solo forse, sono quei corpi perfetti a essere profondamente imperfetti e che è nel “normale” a nascondersi ciò che dobbiamo tentare di evitare.

 

Giorgia Favero

NOTE
1 J. Lotman, La caccia alle streghe. Semiotica della paura, in Incidenti ed esplosioni, Aracne Editrice, 2010
2 M. Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare

[Immagine di copertina: un famoso frame dal Cremaster Cycle di Matthew Barney;
prima immagine interno articolo: l’artista Orlan (da notare le protesi sulle tempie);
seconda immagine interno articolo: opera di Jenny Saville.
Tutte le immagini sono tratte da Google Immagini]

 

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