La filosofia della storia in Tucidide: inevitabilità e ripetitività

Tucidide di Atene, storico e militare di V secolo a.C., ha lasciato ai posteri, oltre alle numerose pagine della sua opera, La Guerra del Peloponneso, una traumatica e disincantata filosofia della storia. Dietro agli scontri, alle battaglie, alle perdite che coinvolgono l’intera Grecia, dilaniata da un conflitto civile senza eguali, si nasconde, secondo lo storico ateniese, un’immutabile e drammatica causa scatenante, che è causa scatenante non soltanto della guerra che Tucidide vive e racconta, ma di tutte le guerre che il mondo ha ospitato e ospiterà.

Esistono, scrive Tucidide, nell’ambito del processo che ha portato alla guerra del Peloponneso, delle cause visibili, le aitìai, che sono legate allo specifico conflitto in atto e sono di natura prettamente politico-militare. A queste cause immediatamente visibili, però, sottintende una causa invisibile, una causa più vera, l’alethestate prophasis della guerra tra Atene e Sparta e, più in generale, di ogni guerra che vede protagonisti gli uomini.

Al paragrafo ventitreesimo del libro I de La Guerra del Peloponneso troviamo scritto: «Il motivo più vero, ma meno dichiarato apertamente, penso che fosse il crescere della potenza ateniese e il suo incutere timore ai Lacedemoni (gli Spartani, ndr), sì da provocare la guerra». A parer di Tucidide, quindi, la crescita progressiva e smisurata di Atene, l’auxesis, ha intimidito Sparta e la Grecia intera a tal punto da rendere inevitabile la guerra. Il concetto tucidideo di inevitabilità, innovativo e drammatico, lascia ancor più impressionati, se lo si estende non semplicemente ad Atene, a Sparta e alla Grecia di V secolo a.C., ma a qualsiasi conflitto che coinvolga gli uomini. Poco più indietro, al paragrafo ventiduesimo dello stesso libro, Tucidide scrive: «La mancanza del favoloso in questi fatti li farà apparire, forse, meno piacevoli all’ascolto, ma se quelli che vorranno investigare la realtà degli avvenimenti passati e di quelli futuri (i quali, secondo il carattere dell’uomo, saranno uguali o simili a questi) considereranno utile la mia opera, tanto basta»1. Quel che più impressiona, nella citazione, è quanto scritto tra parentesi: la natura dell’uomo è una e immutabile, pertanto gli avvenimenti futuri che lo riguardano sono facilmente prevedibili, se si è in grado di studiare il passato con competenza e oggettività.

È questo il cuore della filosofia della storia di Tucidide, che, con inarrivabile disincanto, ci fa notare come l’uomo, per sua stessa essenza, tenda alla crescita smisurata della propria forza, al timore dell’altro e, come necessario scioglimento della tensione, alla guerra. Come si è presentata la traumatica guerra presente, si presenteranno quelle future, perché al centro degli eventi è l’uomo, che ha una natura che non sarà mai in grado di tradire. Il divenire umano è ingabbiato, e Tucidide, con stile attento e rigoroso, lo mette in luce, quasi fosse un monito, ancor prima di cominciare il racconto della guerra che sta sconvolgendo la sua polis e l’intera Grecia.

Il concetto di inevitabilità e quello di ripetitività applicati alle vicende degli uomini potranno sembrare, alla luce degli straordinari passi avanti compiuti dalla storiografia, riduttivi ed eccessivamente generalizzanti (come del resto ogni filosofia della storia). Ma il messaggio tucidideo non può non segnare, ancora oggi, chi in esso si imbatte: siamo realmente destinati a necessarie tensioni? Davvero la nostra essenza di uomini ci impedisce di vivere senza incorrere, presto o tardi, in periodici e laceranti conflitti?

Mattia Zancanaro

Rodigino classe ’95, vive nella sua città natale fino al conseguimento del diploma presso il liceo linguistico. Si trasferisce poi in Germania, dove trova tempo e modo di coltivare le sue due principali passioni: la lingua tedesca e la filosofia. Rientrato in Italia, si iscrive alla facoltà di filosofia dell’Università di Trieste, città in cui attualmente vive. Amante del dibattito politico, cerca di relazionarsi a quest’ultimo affiancandogli le tematiche della filosofia, per un approccio maggiormente consapevole e maturo.

NOTE:
1. Viene qui riportata, per entrambe le citazioni del testo tucidideo, la traduzione di Claudio Moreschini, tratta dall’edizione de La Guerra del Peloponneso offerta da BUR Rizzoli, Milano 2008.

[Credit: Mark Herman]

Uno sguardo da diverse angolature: antico e moderno dell’Atene contemporanea

Origine della cultura occidentale, centro politico rinomato, l’Atene antica possedeva un fascino e una bellezza impari che la rendevano culla della civiltà, luogo in cui poter ammirare costruzioni raffinate o entrare in contatto con un sistema legislativo strutturato. La partecipazione alla vita pubblica si integrava con rituali precisi e i momenti di svago erano bilanciati da un’ampia coscienza dei doveri, nonché da un interesse verso la polis e il suo andamento. Atene era la patria dei pensatori, vantava le più importanti scuole filosofiche e la ricchezza di un’arte invidiabile.

Oggi il viandante che decide di addentrarsi nelle vie della capitale greca si trova a scoprire un’Atene duplice nella quale antico e moderno coesistono in un’unica grande realtà, si spartiscono vasti spazi, spesso entrano in conflitto tra loro, altre volte si integrano in maniera più armonica. Chi si prepara a salire l’erta collina dell’acropoli non può fare a meno di notare questo dualismo, diventato motivo di dibattito accanito tra coloro che cercano di preservare il fascino antico e le spinte sempre maggiori alla costruzione, “alla cementificazione”. Il turista vergine che muove i propri passi tra le strade di Atene rimane sicuramente colpito dagli immensi palazzoni che si affacciano lungo i fianchi delle Avenue. Antichi ruderi spuntano qua e là, come rimanenze tra le strade segnate da un via vai continuo, come resti di un’antica città che porta ormai la tipica veste di una capitale multietnica.

«“Atene è bella?” “No, Atene non è bella. Le rughe della storia e i trionfi di un passato straordinario sono come annegati in una gigantesca colata di cemento che non ha risparmiato nulla: né il centro […] né le sterminate periferie”»1, afferma Antonio Ferrari in un intervento. Come dargli torto? Il divario tra bellezze antiche e costruzioni moderne, di una modernità spesso trasandata, appare evidente: viste dall’alto le colline che circondano la capitale sembrano aver perso il loro tipico colore, per lasciare spazio ad un monocromo grigio che le sovrasta coprendole fino alle pendici. I palazzoni si susseguono indifferenti e il visitatore che si trova ad osservare la città dal monte Licabetto rimane sconcertato da quanto l’uomo sia riuscito a mettere la propria mano, in parte rovinando le bellezze del paesaggio.

“No Atene non è bella”… e allora perché visitarla? Perché fare lo sforzo di recarsi nella capitale greca se non è in grado di offrire nulla al visitatore?

In realtà, guardando più a fondo, se da un lato l’alta concentrazione delle costruzioni moderne ha tolto spazio a quelle antiche, dall’altro, contrapponendosi ad esse, contrastandole, è riuscita a farle risaltare2, dando a queste l’importanza che meritano, la capacità di far rivivere un passato millenario. Spieghiamoci meglio.

Chi si prepara a compiere la camminata che conduce al Partenone si sente quasi un “novello Dante” che, lasciate indietro le brutture del mondo, gli sgangherati lacerti della contemporaneità, è pronto per riscoprire una realtà spirituale, fatta di grandezza e solennità, antichità ed eternità.

D’altra parte, inutile mentire, le costruzioni antiche sono riuscite a preservare nei secoli il loro fascino che ancora riesce ad attrarre l’attenzione di chi si prepara a visitarle.

Il pellegrino che varca i Propilei, quasi dimentico dell’insoddisfazione della pianura, non può fare a meno di sentire l’eterno che ancora traspira dalle alte lastre di marmo bianco; non può fare a meno di riflettere su quanto sia ancora rimasto di un’epoca così lontana. Il bianco del marmo pervade lo sguardo dell’osservatore che si sente come entrato in una nuova dimensione, varcata finalmente la porta del paradiso.

Il Partenone troneggia immane nel punto più alto della collina, quasi un gigante che, con occhio vigile, controlla il territorio circostante, attento ai passi che vengono mossi, pronto a difendere le proprie zone. Colui che giunge ai suoi piedi si sente intimorito, percepisce la propria piccolezza e limitatezza rispetto alle alte colonne che lo adornano, al suo essere un “monumento perenne”.

Atene non sarà forse bella, ma l’acropoli sola vale l’intera camminata in salita, l’intero viaggio dantesco, quasi a dire, con una punta d’ironia, che la bellezza spirituale deve essere guadagnata, raggiunta soltanto dopo l’immersione nelle zone infernali o dopo un’erta passeggiata. Solo chi avrà la pazienza di osservare con sguardo vigile e cogliere l’antico che ancora risiede nella capitale non avrà compiuto il viaggio invano, perché, come afferma William Blake

«Le rovine del tempo costruiscono dimore nell’eternità».

 

Anna Tieppo

 

NOTE:
1. A. Ferrari in Grecia. Atene e il Peloponneso. Epiro. Tessaglia. Macedonia. Creta. Rodi e gli arcipelaghi, Touring Club Italiano, Milano, 2005, p.70.
2. Cfr. Ibidem.

[Immagine tratta da Google Immagini]

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Albert Camus: alla riscoperta del “pensiero meridiano”

Nonostante i cambiamenti culturali e politici che hanno interessato la realtà  nei cinquant’anni che ci separano dalla morte di Albert Camus, credo ci siano nella  vita e nel pensiero del filosofo francese alcuni aspetti da riscoprire nella loro attualità.

La coerenza fra il pensiero e l’azione che si riscontra all’interno della vita del pensatore francese fa da cornice a ciò che si ritrova nelle sue opere filosofiche e letterarie: la rivendicazione di un linguaggio chiaro e semplice e il rifiuto di qualsiasi mistificazione che tradisca la realtà.

Sono probabilmente le umili origini a far nascere in Camus la riflessione filosofica sulla condizione umana e l’idea di poter cambiare la storia attraverso un’azione politica che abbia come unico criterio la dignità dell’uomo. Egli rifiuta l’utopia in ogni sua forma, appellandosi al concreto, alla realtà che quotidianamente egli trova di fronte a se.

Il “pensiero meridiano” a cui giunge l’intellettuale francese, si fonda sul concetto di “misura”, idea che Camus riprende dal pensiero greco. L’armonia, la proporzione e il limite erano infatti alla base della religione, dell’estetica e dell’etica greca. Anche la giustizia nel pensiero arcaico era legata all’idea di equilibrio e métron: chi infrange l’ordine divino e i limiti di questo, macchiandosi di hybris, può ristabilire il giusto ordine del fato solo attraverso la punizione divina.

Ma cosa si intende per pensiero meridiano? Perché dovremmo oggi riscoprirne l’importanza?

Se si ammette una realtà e un pensiero senza mediazioni, si tradisce la realtà, che invece è multiforme e dotata di mille sfumature che non si possono semplificare e banalizzare in visioni “assolute”. É proprio la coscienza di vivere all’interno del “limite” ciò che abbiamo smarrito e che dovremmo ritrovare:  ideali come la giustizia e la libertà sono realizzabili a condizione di perdere il loro carattere assoluto, trovando un limite nel confronto dell’una con l’altra. Ciò che può essere realizzato, infatti, mantenendo integra la dignità e la libertà dell’uomo è solo un’approssimazione al regno della giustizia perfettamente compiuto, ovvero una giustizia solo relativa.

É  proprio questa forma di  “misura” e coscienza del limite secondo Camus ad opporsi a una politica conservatrice, alla morale borghese dei princìpi astratti che mistifica il reale e alla politica del socialismo rivoluzionario, che rinunciando ad ogni morale, sfocia in cinismo. Il pensiero meridiano è l’espressione della tradizione libertaria. I totalitarismi del Novecento, influenzati dal pensiero tedesco, hanno sacrificato la natura e la bellezza in nome dell’azione e della potenza, affermate attraverso la dismisura. La riappropriazione della natura e della bellezza, che erano state eliminate nel delirio storicista, è il primo compito per l’uomo che voglia recuperare la fede nella rivolta autentica e nei valori scoperti con essa. In questo modo, la storia, che pretendeva di cogliere l’Assoluto, e la politica, che si affermava come religione, perdono il loro carattere puramente dogmatico. Anche di fronte al problema del male, elemento da cui origina l’intero pensiero del filosofo francese, è la misura a offrirci un’ipotetica spiegazione: l’uomo è un “uccisore innocente”, poiché non è totalmente colpevole, in quanto egli non ha dato inizio alla storia, né totalmente innocente, in quanto con le sue azioni egli la porta avanti. Vi è sicuramente un male che nasce dalla dismisura dell’animo umano e dal desiderio di unità, ma vi è inoltre un male di cui l’uomo non è responsabile e davanti al quale egli si rivolta e chiede giustizia. Coloro che hanno cercato di dare una spiegazione razionale o irrazionale del male lo hanno giustificato o ne hanno moltiplicato la diffusione, aggiungendo al male già presente, il male di cui la smania di assoluto si è resa responsabile.

L’attacco de “L’uomo in rivolta” alla sinistra marxista e alla società comunista fa appello alla stessa coerenza di fondo: egli rivendica una società e una politica a misura d’uomo, la cui realizzazione non deve sacrificare i valori più alti. La dura replica della sinistra rivoluzionaria francese porta alla rottura definitiva con Sartre e con gli intellettuali de “Les temps Modernes”. A causa del rifiuto camusiano dello storicismo e del terrore connesso alla prassi rivoluzionaria, il pensiero del filosofo francese viene interpretato come quietismo moralista e borghese.

La condanna di Camus era invece rivolta a ogni forma di degradazione dell’uomo in carne ed ossa, sia contro la politica borghese, di cui il colonialismo francese era un’espressione evidente, sia contro la politica comunista, all’interno della quale le atrocità staliniste venivano in qualche modo giustificate o addirittura ignorate.

Le ragioni politiche del distacco fra Sartre e Camus possono essere comprese anche alla luce di una differente concezione dell’uomo.

La soluzione che Camus trova per fronteggiare e superare il nichilismo si discosta nettamente dai presupposti dell’impegno sartriano. Affermando che l’essere non si identifica con la sola esistenza, egli ammette un’essenza umana che l’esistenzialismo sartriano esclude del tutto e su quest’ultima fonda il valore prescrittivo della rivolta. Partito dalla constatazione del non senso dell’esistenza, Camus sfugge al nichilismo contemporaneo e attraverso il ripristino di un’essenza umana trova l’unico elemento che può garantire un senso all’essere.  Per Sartre, invece, l’essere non può precedere l’esistenza, in quanto l’esistenza lo precede e lo crea. Se non esiste Dio, l’uomo è l’essere che si crea e non si può definire se non alla fine, quando da niente è divenuto qualcosa: “L’uomo non è altro che ciò che si fa”1.

Per Sartre, l’universalità dell’impegno si costruisce in quanto l’uomo impegnandosi in un determinato progetto, sceglie i valori non solo per sé, ma per l’intera umanità, ovvero crea l’umanità che desidera. Ma come fondare una morale e un impegno stabili sull’arbitrio di ogni singolo uomo? Se non vi sono valori comuni, se l’uomo non è fine in sé, poiché se ne ammette la provvisorietà e si risolve nell’insieme delle sue azioni, come può difendere la propria dignità, ciò che dovrebbe essere la base dell’impegno politico e morale?

Ridurre l’essere a creazione interamente umana significa permanere nel nichilismo e giustificare un realismo politico, che lungi dal difendere la dignità umana, la elimina, riducendo l’uomo a strumento nelle mani di un’ideologia. La dignità rappresenta un limite che l’uomo pone alla storia e a ogni azione umana, compresa la prassi politica. Proprio per questo motivo, essa preesiste all’azione e non può essere in alcun modo definita al termine di essa. Camus evidenzia come sia necessario porre alla base della propria prassi politica, sia essa rivoluzionaria o meno, una riflessione morale che stabilisca dei chiari confini, oltre il quale l’azione non può essere legittimata.

Egli rivendica per l’attività politica la riappropriazione di una morale, da intendersi non come vuoto formalismo, ma come la riaffermazione di valori quali la giustizia e la libertà presi nel loro significato concreto. L’originalità del pensiero di Camus sta qui: egli ha sentito l’esigenza, in un periodo storico culturale segnato dall’affermazione del materialismo storico e del realismo politico, di condannare una politica sempre più machiavellica e di esprimere la necessità di un ritorno a un umanesimo autentico. Il rifiuto della menzogna in nome dell’onestà e della chiarezza, anche a prezzo dell’ostracismo intellettuale, fa di Camus una delle personalità più libere del Novecento. Libero da pregiudizi e ideologie, egli intende la libertà politica come legata alla rivolta contro ogni forma di conformismo e alla necessità di spirito critico nei confronti di ogni sistema politico. Qualsiasi attività umana, anche una politica che abbia di mira l’eguaglianza sociale, non può risolversi totalmente in prassi, ma deve essere sempre accompagnata dalla riflessione e dalla contemplazione. Solo recuperando il momento della riflessione l’uomo può perdere l’aspirazione al potere assoluto, riacquistando quel potere relativo che permette la riconciliazione con il mondo circostante e la riconquista della dignità nella sua totale interezza.

Note

1- Sartre J. P., “L’esistenzialismo è un umanesimo” (1946), trad. it. Giancarla Mursia Re, Milano: Mursia, 2010.

2- Camus A., “L’uomo in rivolta” (1951), trad. it Liliana Magrini, Milano: Bompiani, 2010.

Greta Esposito

La salute, un concetto difficile da definire e comunicare

Nel contesto della nostra vita quotidiana la parola salute rappresenta uno dei vocaboli che pronunciamo e sentiamo proferire maggiormente dagli altri. Generalmente siamo convinti che tale termine significhi e designi un concetto chiaro ed estremamente facile da individuare e riconoscere. Ad esempio, basti pensare al fatto che se avvertissimo un qualunque tipo di scompenso vitale (malattia) non sosterremmo di essere in salute, viceversa se trovandoci all’interno di un perfetto equilibrio vitale che ci consente di perpetuare tutte le nostre attività quotidiane riteniamo di essere in salute. Questa semplicissima evidenza si complica quando vogliamo comunicare il nostro stato o divulgare lo stesso agli altri, infatti, chi di noi non si è mai sentito stanco, “giù di morale” e quindi, pur non riuscendo ad identificare nessun punto biologicamente determinato e localizzabile (ovvero di facile comunicazione) non si sarebbe definito in salute? Oppure chi, pur provando dei lievi malesseri che non lo fanno sentire in salute, è riuscito ad identificare e a comunicare agli altri il suo status senza per questo essere definito una persona lamentosa, non degna di essere considerata come priva di salute?

Da queste banali osservazioni possiamo capire come il concetto di salute porti con sé una difficoltà estrema ad essere sintetizzato in parole semplici e comunicabili perfettamente agli altri, non è un caso che la natura stessa della comunicazione e dunque dell’identificazione del significato di tale termine abbia da sempre, sin dall’antica Grecia, portato con sé una marea di quesiti etico-esistenziali che trovano forma ed oggetto nella filosofia. Il problema fondamentale che più ha alimentato le riflessioni attorno a questo tema è quello di determinare se il concetto di salute corrisponde unicamente all’assenza di malattia, riducendo di fatto il nostro vivere ad un puro modello meccanico nel quale esistono delle falle che bisogna continuamente riparare, oppure se esso si riferisca ad un qualcosa che prescinde dalla sola disfunzione biologica e si rifà ad un contesto storico-biologico-sociale che determina i modi stessi con i quali il soggetto sostiene di essere in salute.

Il primo modello preso a riferimento, che potremo chiamare modello meccanico, sostiene che esistano delle evidenze di funzionamento dei corpi che sono propri di ogni specie, dunque ritiene che sia definibile come sana una persona che “funziona” secondo le modalità proprie della specie umana, viceversa se un individuo non rispetta queste condizioni è definibile come malato. Un chiaro esempio può essere rappresentato dalla capacità di camminare, in quanto se è normale per un essere umano camminare, qualora tale situazione non avvenga in un soggetto, esso è malato e quindi non godo uno stato di piena salute. Potremo, dunque, sinteticamente affermare che il modello meccanico considera la salute come pura assenza di alterazioni organiche. In maniera totalmente differente il secondo modo d’intendere la salute, che potremo definire olistico, sostiene che una malattia non può essere intesa come sola alterazione organica, ma deve essere percepita come alterazione di un equilibrio esistenziale. Risulta chiaro che per tale teoria la definizione di salute prescinde dalla sola identificazione delle lesioni organiche e ha a che fare con la dimensione personale e soggettiva con la quale un individuo vive ed esperisce se stesso nel mondo. Se il modello meccanico ha avuto una grossissima diffusione nel ‘700 e nel ‘800, verso la metà del secolo scorso l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha codificato una definizione di salute, a cui tutt’ora ci riferiamo, che sposta l’accento su una definizione olistica, infatti la salute si deve intendere per l’OMS come:“uno stato completo di benessere fisico, psichico e sociale, e non come una mera assenza di malattia o infermità”.

Si può cogliere, da questa definizione, come oggi il concetto di salute non rappresenti un dato totalmente oggettivabile, ma si presti ad una serie molteplice di interpretazioni che spostano lo stesso da un universale oggettivo ad un elemento modificabile e plasmabile da chiunque riesca a comunicare in maniera efficace la propria idea di salute agli altri. Dunque, con la dissolvenza del concetto di salute quale identificazione del perfetto equilibrio biologico dell’uomo e con l’apertura all’interpretazione esistenziale di tale concetto si è imposto un modello attraverso il quale comunicare e trasmettere differenti aspetti o approcci del concetto stesso di salute diventa uno degli elementi fondamentali che costituiscono l’orizzonte concettuale e medico che stabilisce l’idea che noi ci plasmiamo di cosa voglia dire essere sani. La rubrica che proponiamo mira, già dal prossimo articolo, a individuare e a dar luce a diverse strategie comunicative che sul web, sui giornali o per voce dei professionisti che si occupano direttamente di salute o di ricerche attorno ad essa, si sono attuate e si attuano al fine di porre il concetto di salute al centro del proprio messaggio.

Francesco Codato

Malinconia?! Portami via!

Spesso parliamo di giovani pensando alla spensieratezza, alla gioia di vivere, alle aspettative che hanno del loro futuro.

Poche volte si associano sentimenti negativi ai ragazzi quali malinconia, nostalgia, paura.

Credo che l’errore sia grave perché sono convinta che questi ultimi aggettivi descrivano accuratamente la fragilità di un giovane di oggi frustrato dalle responsabilità, dalla società opprimente, dalla superficialità delle relazioni e dalla perdita di genuinità.

Il giovane di oggi è ben diverso dal giovane dei decenni passati, perché non lotta più per un ideale da condividere con la società ma combatte per se stesso contro quella stessa società, colpevole, a suo avviso, di renderlo inerme di fronte alle difficoltà.

Ecco la prima parola chiave: difficoltà, la seconda è malinconia.

Le difficoltà o rafforzano o distruggono. O aggregano o allontanano.

Il giovane d’oggi spesso soccombe alle prime difficoltà, innescando in sé un processo di allontanamento da tutto e da tutti che porta alla malinconia della solitudine.

Occhi speranzosi che si tingono di un vuoto malinconico che rischia di portare all’oblio.

Non bisogna, però, essere negativi, perché è dal fondo che si costruisce, è con la paura che si diventa forti, è con la malinconia che si tocca l’apice della passività per poi riprendersi.

È proprio il senso originario della parola malinconia a dimostrarci quanto essa sia un sentimento inconsapevole ma di aiuto per  cogliere aspetti della vita invisibili ai più audaci, infatti essa nell’antichità significava un dolce oblio che, penetrando nell’animo, lo  rendeva profondo ed orientato all’introspezione, alla ricerca in sé.

Il malinconico è consapevole di esserlo ma impotente  di reagire a causa di una spiccata sensibilità che lo riporta ad analizzare il passato per poter proseguire la strada nel presente rivolto al futuro.

La malinconia nei giovani permette loro di conoscersi, vivendo nella frustrazione e nella difficile consapevolezza dell’impossibilità di certi eventi di cui nessuno può essere responsabile; proprio per questo il giovane malinconico piuttosto che audace è sempre da non sottovalutare, perché nasconde in sé un logico mondo dove il passato che spaventa viene tenuto in considerazione per le scelte future.

Malinconia

che fugge

…tra le dita.

 

Malinconia incostante,

derisa da pensieri futili.

 

Malinconia rabbiosa,

trepidante d’attesa

di ciò che non esiste.

 

Malinconia eterea,

flebile come un alito di vento.

 

Malinconia subdola,

divoratrice di anime sospese.

 

Malinconia dolce

che culla la speranza del sogni.

Valeria Genova
[Immagine tratta da Google Immagini]