Charlie Gard: il bambino morto in nome della legge

La storia di Charlie Gard, purtroppo, la conosciamo tutti; il bambino di dieci mesi affetto da una malattia genetica rarissima, sindrome da deplezione del Dna mitocondriale per la quale al momento non esistono cure. L’unica prospettiva sembra essere una cura sperimentale da effettuare negli Stati Uniti. Nel marzo scorso, però, Charlie viene colpito da un’encefalopatia, facendo così mancare le condizioni scientifiche per rendre efficace la cura. Gli Stati Uniti si rendono comunque disponibili a tentare la cura in via sperimentale senza assicurare alcun successo. Tuttavia, il Great Ormond Street Hospital di Londra e l’Alta Corte inglese negano la possibilità di trasferire Charlie e dichiarano la necessità di sospendere tutti trattamenti in corso, convinti dell’inutilità della cura sperimentale richiesta dai genitori; ciò poiché è stata invece corretta la diagnosi medica che riscontra l’impossibilità per Charlie di salvarsi da un progressivo e inarrestabile aggravarsi della patologia di cui è affetto.

Nel mese di giugno i genitori del bimbo fanno l’ultimo disperato tentativo: si rivolgono alla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo sostenendo che la sentenza inglese viola la libertà di cura e che rende Charlie prigioniero dell’ospedale in cui è ricoverato. La Corte europea dispone per l’ospedale di Londra l’obbligo di continuare a curare il bambino fino a nuova delibera. Il 28 giugno, il nuovo verdetto: la Corte di Strasburgo ritiene di non avere alcuna autorità per prendere decisioni su un tema del genere, rimandando alla decisione della Corte suprema inglese e quindi imponendo di sospendere i trattamenti.

Di fatto, i giudici inglesi prima, e la Corte europea dei diritti dell’uomo poi, decidono di staccare il supporto vitale in nome del presunto “miglior interesse” del paziente e contro la volontà dei suoi genitori.

Perché deve essere un giudice a scegliere cosa è nel miglior interesse di Charlie? In nome di quale principio un ordinamento può opporsi alla volontà dei genitori, legali rappresentanti, sancendo così la morte del bambino?

La risoluzione dei giudici inglesi si fonda sulle disposizioni del diritto nazionale relativamente all’accanimento terapeutico, che decreta l’obbligo da parte dei medici di interrompere le cure qualora l’eccezionalità dei mezzi impiegati non sia funzionale allo scopo medico-terapeutico. È possibile definire come accanimento terapeutico la ventilazione artificiale, comunemente considerata un “supporto vitale”? E, soprattutto: come è possibile, in questo caso, accertare la volontà del paziente di rinunciare a tale trattamento? Nella vicenda di Charlie, infatti, non si tratta di un adulto consenziente o avente  precedentemente espresso una qualche volontà di interrompere trattamenti terapeutici o di supporto vitale in ragione ad una scelta autodeterminata. Al contrario, siamo di fronte all’imposizione, desunta dalla legge e sancita dai giudici, di sospendere la vita del paziente contro la volontà dei suoi legali rappresentanti, ovvero i genitori.

Eppure decidere o, perlomeno, indicare ciò che è meglio per Charlie non spetterebbe ai genitori? Secondo la legge, sebbene ai genitori competa la responsabilità genitoriale, il controllo prioritario è affidato al giudice che sarebbe l’unico in grado di esprimere un giudizio realmente oggettivo nel migliore interesse del bambino, ovvero quello di vivere una vita che possa essere definita degna. Riassumendo: non potendo Charlie esprimere la sua volontà, il giudice non considera, o meglio, trascura totalmente anche quella dei suoi genitori: cioè, il desiderio di tenerlo in vita. Il tutto in nome di un interesse a morire tratto da astratte regole giuridiche e da evidenze scientifiche desunte statisticamente.

Nell’epoca dell’autodeterminazione e dell’esaltazione dei diritti individuali, gli ordinamenti giuridici finiscono per dichiarare attraverso una sentenza, peraltro autocontraddicendosi, la massima restrizione della libertà altrui in nome del parametro delle “indicibili sofferenze”, in realtà impossibili da verificare oggettivamente, imponendo così criteri giuridici astratti, attraverso i quali accertare se una vita possa essere o meno degna di essere vissuta, a cominciare da un principio standard e assoluto di felicità e dignità.

Svincolati dai loro fondamenti ontologici, principi come quello della dignità umana e della liberà rischiano di diventare contenitori vuoti che la legge, o peggio un giudice, riempie per realizzare la propria idea di giustizia. Ai coniugi Gard viene sostanzialmente richiesto di “staccare la spina” e sacrificare Charlie per affermare il principio dell’infallibilità della Legge. Ed è nel nome della legge, quindi, che Charlie Gard muore il 28 luglio 2017.

Silvia Pennisi

[Immagine tratta da Google Immagini]

 

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Il futuro di una chiesa isolata

Quello rappresentato dalla “Brexit” è senza dubbio un evento epocale, le cui conseguenze a breve ed a lungo termine devono ancora palesarsi nella loro portata e interezza. Se a livello economico-finanziario i risultati sono stati immediati, e sul piano sociale e politico sono in buona misura prevedibili, rimane ancora l’incognita del destino della Chiesa anglicana.

Non è un segreto che la Chiesa inglese versi in cattive condizioni da decenni ormai: nonostante le numerose riforme apportate al proprio interno, non ultimo il sacerdozio femminile, i fedeli effettivi al suo interno sono in costante diminuzione (i registri parrocchiali parlano di 25 milioni, ma i praticanti sono meno della metà), e la sua reale influenza sulla società britannica ha subito un drastico calo. Lo stesso risultato del referendum sembra confermare la scarsa presa delle autorità ecclesiastiche sulla popolazione: l’Arcivescovo Justin Welby si era a più riprese espresso contro l’uscita del paese dall’UE, ma i suoi appelli sono caduti del tutto inascoltati, e proprio le frange più conservatrici che normalmente cercano giustificazione e legittimità nella religione hanno guidato il popolo verso posizioni opposte rispetto a quelle auspicate da Canterbury.

La Chiesa anglicana ha come mai bisogno, oggi, di quello che non ha mai avuto fin dalla sua fondazione: apertura alle altre confessioni cristiane, a partire da quelle presenti sul territorio britannico. Fino agli anni Novanta, ogni passo avanti fatto nella riconciliazione tra Chiesa anglicana e cattolica è stato bruscamente interrotto proprio dalla prima, che si è sempre ostinata a mantenere un fiero isolazionismo, diretto riflesso di quello politico della Gran Bretagna. Ora che però questa linea di condotta ha portato ad un isolamento reale che promette di essere mortalmente nocivo al Paese, la riapertura dei dialoghi non può essere ulteriormente rimandata.

La crisi economica ha portato con sé alcuni inaspettati cambiamenti anche in ambito ecclesiastico: il tracollo della Grecia ha portato la locale Chiesa ortodossa a rivedere la possibilità di un riavvicinamento al cattolicesimo, idem per quella rumena; dal Concilio Panortodosso di Creta conclusosi lo scorso 26 giugno, il primo dal 1054, sono emersi importanti documenti che incoraggiano l’unione tra le varie Chiese ortodosse autocefale (pur non avendo partecipato all’incontro alcune di queste, prima tra tutte la grande Chiesa di Mosca): un segno di unione importante in un’epoca di forti divisioni, ma anche una diretta conseguenza di una profonda crisi sociale e politica. Quello delle Chiese ortodosse dovrebbe essere per la Chiesa di Londra un esempio, sia sul piano politico che su quello eminentemente spirituale.

Con un Canale della Manica che non è mai stato così largo, bloccato su un’isola che ha espresso la propria volontà di staccarsi ulteriormente dal continente, l’evangelico “Ut unum sint” potrebbe rimanere l’unica chance di sopravvivenza per l’anglicanesimo, oltre che l’ultima occasione per poter influire in maniera positiva ed efficace sul post-Brexit. Un eventuale riavvicinamento agli episcopali di Scozia o agli autonomi d’Irlanda potrebbe contribuire notevolmente a riparare le fratture generate all’interno del Regno Unito dal risultato del referendum, riavvicinando a Inghilterra e Galles i potenziali secessionisti; in più, un’apertura nei confronti delle Chiese continentali, la cattolica come le protestanti, potrebbe fare da testa di ponte nella riscoperta (e nella ricostruzione) di una comune identità europea, almeno nel suo impianto etico e valoriale. Sarebbe, con ogni probabilità, l’equivalente di un mulino che comincia a funzionare solo quando ormai l’intera popolazione è morta di fame, ma considerata la posta in gioco vale pure un tentativo. L’unica alternativa, al momento, è la definitiva scomparsa della Chiesa d’Inghilterra.

Giacomo Mininni

Giacomo Mininni, nato a Firenze, si è laureato cum Laude in Scienze Filosofiche presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università degli Studi di Firenze nel 2013. Scrive in qualità di critico cinematografico per il settimanale La croce, collabora frequentemente con il trimestrale Prospettive, edito dalla ONLUS Opera per la Gioventù “Giorgio La Pira”, col settimanale ToscanaOggi e con altri periodici. Ha curato due capitoli del volume Pino Arpioni e La Vela. Sessant’anni di campi scuola di Claudio Turrini, edito da Edizioni Cooperative Firenze 2000 nel 2014, e l’introduzione di Le filosofie inconsapevoli. Pedagogia della non conoscenza di Fabio Fineschi, edito da Ladolfi Editore nel 2016. Sempre con Ladolfi ha pubblicato nel 2015 Verso il mare. La filosofia della storia di Giorgio La Pira. Da dieci anni si occupa di dialogo interculturale e interreligioso presso l’Opera per la Gioventù “Giorgio La Pira”.

Le maddalene, i fish and chips e la principessa Sissi

“Depongo la tazza e mi volgo al mio spirito. Tocca a lui trovare la verità…retrocedo mentalmente all’istante in cui ho preso la prima cucchiaiata di tè. Ritrovo il medesimo stato, senza alcuna nuova chiarezza. Chiedo al mio spirito uno sforzo di più…ma mi accorgo della fatica del mio spirito che non riesce; allora lo obbligo a prendersi quella distrazione che gli rifiutavo, a pensare ad altro, a rimettersi in forze prima di un supremo tentativo. Poi, per la seconda volta, fatto il vuoto davanti a lui, gli rimetto innanzi il sapore ancora recente di quella prima sorsata e sento in me il trasalimento di qualcosa che si sposta, che vorrebbe salire, che si è disormeggiato da una grande profondità; non so cosa sia, ma sale, lentamente; avverto la resistenza e odo il rumore degli spazi percorsi…All’improvviso il ricordo è davanti a me. Il gusto era quello del pezzetto di maddalena che a Combray, la domenica mattina, quando andavo a darle il buongiorno in camera sua, zia Leonia mi offriva dopo averlo inzuppato nel suo infuso di tè o di tiglio…”

La sensazione che Marcel Proust ci descrive (Dalla parte di Swann) ciascuno di noi la ha più volte provata. La cioccolata da spalmare venduta in enormi barattoli di latta, la pasta sfusa, acquistata a peso, estratta da cassetti di legno con il frontale di vetro, disposti in fila in una sorta di libreria alimentare. Si uniscono aspetti diversi: il ricordo, la genuinità, la specificità; tutti elementi che spingono a rimpiangere e difendere il piccolo mondo antico.

Una sensazione analoga deve avere provato il pensionato britannico che ha votato per la Brexit. A Lazzaro Pietrangoli, che cercava di convincerlo del contrario, ha risposto che avrebbe votato LEAVE per difendere i “pub” e i “fish and chips”.

Specificità e tradizioni sono spazzate via dalla globalizzazione. E’ un processo inarrestabile e, in molti casi, è anche un bene. Ben venga il piccolo supermercato aperto anche la domenica, a spazzare via il negozio che vende merce scadente a caro prezzo; come pure ben vengano principi universalmente riconosciuti, che bandiscono e perseguono pratiche degradanti come l’infibulazione.

Le specificità utili e le tradizioni buone si possono difendere stabilendo delle regole, e impedendo che il mercato decida ogni cosa, senza alcun limite, rispondendo unicamente ai propri “spiriti animali”. E questo nel mondo attuale, lo possono fare solo grandi entità federali, come l’Unione Europea. Per questo è necessaria un’Unione più grande e più forte.

Come ci ha spiegato Jurgen Habermas, uno dei maggiori filosofi viventi, è necessario salvaguardare una “solidarietà tra estranei tra i popoli e garantire la giustizia tra gli individui”. “In questo modo si potrà realizzare una democrazia pluralistica che includa l’altro senza assimilarlo, preservando, anzi, il suo essere diverso”.

Tornare agli stati nazionali è illusorio. I dati parlano chiaro: nel 2050 l’Europa rappresenterà solo il 7 per cento della popolazione mondiale (era il 20 per cento fino al 2050); il PIL europeo sarà il 10 per cento di quello mondiale (rispetto al 30 per cento del 1950); nessun paese di quelli attuali, neppure la Germania, farà parte del G8. “Nel concerto di potenze indiscutibilmente mondiali come USA, Cina, Russia, Brasile e India, la crisi demografica sta spingendo l’Europa delle micro-nazioni ai margini della storia mondiale, privandola di ogni residua facoltà d’intervento”.

Senza l’Europa non c’è futuro, siamo destinati a finire nella scenografia arcadica e bucolica della Principessa Sissi, con lo svantaggio di avere, oltre all’irrilevanza politica, fiumi inquinati e vegetazione devastata dalle piogge acide.

Marcello Degni

Professore a contratto presso le Università di Roma 1 (master in economia pubblica) e di Pisa (Accademia navale di Livorno), dove insegna  contabilità pubblica. Si è laureato con lode in Scienza delle finanze  all’Università La Sapienza. Collabora come esperto con il ministero della  Funzione pubblica e con la società in house del ministero dell’economia e finanze Studiaresviluppo. È assessore al bilancio del comune di Rieti. Come consigliere parlamentare del Senato ha lavorato per molti anni al servizio del bilancio. Ha partecipato all’attività della commissione tecnica della Spesa pubblica presso il ministero del Tesoro negli anni dell’ingresso nell’euro e  all’unità di valutazione finanziaria della Presidenza della Repubblica (presidenza  Ciampi). Ha diretto il centro studi di Sviluppo Lazio e collaborato con l’assessorato al bilancio della regione Lazio. Dal 1995 ha svolto una costante  attività accademica nelle Università di Napoli (Federico II), Roma e Pisa. È autore di numerose pubblicazioni di finanza pubblica.

[Immagine di Rieti Life]