I marshmallow, il governo di sé e la filosofia

Chi non conosce le famose caramelle americane, soffici, rosa e bianche, chiamate marshmallow?
Ma forse non tutti sanno che sono associate a un test neuropsicologico, detto appunto “Marshmallow Test”, che fu somministrato a molti bambini fin dagli anni ’60 negli Stati Uniti, ideato dallo psicologo Walter Mischel1. Lo scopo era testare nei bambini la capacità di resistere a una tentazione in funzione di una gratifica maggiore, ma da ricevere in un secondo momento. Un po’ come: meglio un uovo oggi o una gallina domani? La cosa interessante è che questo test si rivelò poi essere predittivo di “successo nella vita” in chi lo superava, anche a distanza di molti anni. In poche parole, un/a bambino/a che riusciva, in un rapporto di fiducia con chi eseguiva l’esperimento, a rinunciare alla gratifica immediata di pochi marshmallow in cambio di una gratifica più cospicua ma da attendere in un secondo tempo, aveva ottime probabilità di realizzarsi con successo in età adulta. Quello che emerse dall’esperimento, replicato poi in molti modi, è che la forza di resistere a una tentazione in vista di qualcosa di più è una capacità che predice il diventare degli adulti capaci dell’autogoverno utile a fare bene molte cose importanti della vita. Che si tratti di relazioni sociali o di perfomance professionali, il superamento del test del marshmallow risulta più importante del livello del quoziente intellettivo, ai fini di capire come qualcuno deciderà la propria vita, piuttosto che subirla. Dal punto di vista delle capacità cognitive, la capacità di controllo che in età infantile si esplica procrastinando la tentazione per dei dolci, in età adolescenziale e adulta si traduce in: migliore gestione delle frustrazioni e dei conflitti, maggiore capacità di concentrazione, buona fiducia in se stessi e minor tendenza a cadere in tentazioni o dipendenze. Addirittura il successo del test correla con un buon livello economico, maggior durata delle relazioni matrimoniali e forma fisica (meno obesità). È una capacità a cui ci si può allenare fin da piccoli, dunque bisogna pensarci nei contesti educativi perché poi sarà preziosa in futuro, ma anche gli adulti, con più sforzo, possono ancora lavorarci su. 

Guarda un po’, tutto questo ha a che fare con la filosofia perché molti filosofi, nel corso dei millenni, hanno riflettuto, con parole diverse, su questa abilità del governo di sé. 

Quando Socrate diceva “conosci te stesso” intendeva  invitare a quella capacità di introspezione e conoscenza di sé che si attua quando si riesce a focalizzarsi su se stessi con sguardo critico. Oppure, quando Seneca, in linea con tutta la filosofia ellenistica, invitava a praticare la moderazione, la ricerca della giusta misura e la fuga dagli eccessi, rifletteva proprio su come queste capacità siano fondamentali a costruirsi un buon stile di vita, filosofico ma etico in primis

Oggi la nostra capacità di governare gli input che riceviamo, considerata la smisurata quantità di stimoli che ci bombardano continuamente, diventa sempre più ardua. La nostra concentrazione è continuamente minata dal richiamo del multitasking, che altro non è che un invito a disperdere l’attenzione in mille cose, per farle tutte male. La concentrazione è un bene prezioso, che va tenuto in costante allenamento. La tecnologia del mondo digitale in cui tutti siamo continuamente immersi, come ci disse Luciano Floridi in un’intervista per la Chiave di Sophia2, «comporta un rischio per l’autonomia umana, per la possibilità di essere padroni del proprio tempo». Ecco, l’essere padroni di sé, esercitare controllo, cioè governo della propria vita, è una capacità imprescindibile per la filosofia, ma per quella filosofia che vuole essere un’ispirazione di vita per tutti, non solo per i filosofi. 

Che cosa possiamo fare, allora, a parte stuzzicare i bambini con caramelle e ricompense alternative a lungo termine? Il lavoro su di sé richiede uno sforzo importante, un interesse multidisciplinare e tempo da investire, ma la filosofia può offrire molti spunti a partire dai filosofi antichi prima citati e non solo. 

In un’ottica di sguardo alla contemporaneità, invece, potremmo iniziare a scrutare quali minacce quotidiane dovremmo prendere in gestione per non disperdere le capacità che abbiamo. Trovare momenti in cui tagliare via stimoli e distrazioni per focalizzarsi su di sé, fare una cosa alla volta, silenziare la tecnologia e connettersi magari di più alla natura, darsi obiettivi di miglioramento dei propri limiti, che siano gli sprechi quotidiani o il superare ostacoli di natura relazionale. In sostanza, sfidare se stessi è sempre un ottimo esercizio per conoscersi meglio ed espandere i propri orizzonti, impratichendosi, così, nel  buon governo di sé.

 

Pamela Boldrin

 

NOTE:
1. Cfr. Il test del marshmallow. Padroneggiare l’autocontrollo, Carbonio ed., 2019.
2. Filosofo intervistato nella rivista cartacea La chiave di Sophia n. 14/2021 – Esplorare la complessità.

 

[Immagine tratta da Pexels.com]

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Grillo, Draghi e la democrazia di Giano

Nella Roma pre-imperiale, il dio Giano era considerato l’unico dio ingenerato, eterno, preposto ad ogni inizio ed ogni fine. Testimone di una natura ciclica che da sé viene e a sé ritorna, Giano era sovrano degli opposti: di vita e morte, di acqua e terra, di mito e storia. In particolare, il suo principale tempio ai piedi del Viminale lo vedeva come Bifronte (in alcune raffigurazioni le teste del dio arrivano a quattro), un volto per i tempi di guerra, durante i quali il tempio veniva aperto, e uno per i tempi di pace, che vedevano invece il santuario chiuso. Spada o vomere, battaglia o commercio, conquista o alleanza, ogni coppia di opposti veniva unificata nella figura dello stesso nume tutelare, il Padre di tutti gli dei secondo il Carmen Saliare, molteplici aspetti di una sola, dinamica e a volte contraddittoria realtà romana.

A millenni di distanza, la situazione a Roma non è cambiata poi granché, e tra contraddizioni, stravolgimenti e piccole o grandi rivoluzioni, i giorni scorsi hanno visto conciliarsi anche l’ultimo di una lunga serie di irriducibili opposti. L’incontro tra il fiero e belligerante anti-casta Beppe Grillo e l’ex Governatore della Banca di Italia e Managing Director della Goldman Sachs Mario Draghi si è risolto con una curiosa, forse inaspettata coincidenza di vedute, una alleanza tra estremi che ha inaugurato una nuova stagione della sempre movimentata politica italiana.

Al di là di ogni considerazione di merito, non è difficile vedere come e perché una alleanza tra i due, seppure di scopo, apparisse quantomeno improbabile, considerati i rispettivi curricula. Beppe Grillo, ex comico fondatore del Movimento 5 Stelle, ha fatto il proprio ingresso in politica con il Vaffa Day, una manifestazione itinerante che non risparmiava certo strali alla “casta dominante”, passando poi la stessa impronta al Movimento, la cui vocazione iniziale era proprio quella di scardinare i sistemi di potere, abbattere i partiti, cambiare il paese. Mario Draghi, tra i più esperti e capaci economisti di Europa, è proprio l’incarnazione di quei “poteri forti” avversati dal primo M5S: banchiere, ministro del tesoro, Presidente della Banca Centrale Europea diventato famoso per un salvataggio dell’Euro scandito dall’iconico “Whatever it takes“, e per una famigerata politica di “correzione” nei confronti dell’insolvente Grecia. Difficile immaginare due figure più agli antipodi.

Eppure, i due leader del momento potrebbero essere nient’altro che i nuovi, moderni volti di quel Giano che non ha mai abbandonato la città capitolina, apparentemente distanti, ma facenti capo a un solo corpo, una sola realtà, una sola natura. A voler trovare qualcosa in comune tra due approcci così palesemente opposti, è facile rilevare come entrambi siano una critica, gridata in un caso e sottesa nell’altro, alla politica tradizionale, a un sistema azzoppato da lotte intestine, incatenato da un clima di campagna elettorale permanente concimato da televisioni e social media, accecato da una spiazzante mancanza di visione, incapace di rispondere alle sfide del tempo e alle legittime istanze della popolazione.

Negli ultimi anni, movimenti popolari “dal basso” e proteste anti-casta si sono alternati con geometrica regolarità a interventi emergenziali di professionisti e tecnocrati, il tutto rigorosamente esterno ai sistemi partitici. L’immagine della politica che ne emerge è sconfortante: da un lato, i movimenti popolari e/o populisti si fanno avanti per supplire alla carenza di contatto con la popolazione, portando violentemente alla ribalta richieste, problematiche, lamentele, stanchezze e insoddisfazioni altrimenti inascoltate; dall’altra, i tecnici intervengono quando il problema contingente è “troppo serio” per essere lasciato in mano ai politici, sottolineando la mancanza di preparazione e professionalità di questi ultimi, e riducendo la politica stessa a una macchina che chiunque è capace di guidare, ma che richiede l’intervento di un meccanico al momento del guasto, una questione meccanica piuttosto che una vocazione o tantomeno un servizio.

Dalle rovine del tempio al Viminale, Giano continua a vigilare su Roma e sulla sua doppiezza, aprendo una porta o l’altra, unendo l’uno vale uno al governo tecnico, ancora una volta riunificando gli opposti nel loro essere, entrambi a loro modo, sintomi e testimoni del fallimento della democrazia rappresentativa.

 

Giacomo Mininni

 

NOTE:
Immagine di copertina appartenente all’archivio personale dell’autore

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Velia-Elea: invito a casa di Parmenide

Se pensate che la filosofia sia qualcosa di lontano e oscuro, sappiate che anche Parmenide, uno dei padri della filosofia, è per noi qualcosa di remoto e offuscato, nel tempo e nelle fonti. Eppure, se vogliamo accostare un po’ di luce a questo brillante e poliedrico uomo del passato, possiamo conoscerlo meglio cercandolo tra i resti della sua città, oggi in Campania, nell’importante ma poco conosciuto sito archeologico di Velia-Elea.

Elea era il nome che i Focei, popolo greco emigrato dalle coste della Turchia, aveva dato alla colonia da loro fondata attorno al 542 a.C., dopo aver accolto la profezia-guida della Pizia di Delfi, secondo l’usanza dei marinai-colonizzatori. Velia fu, invece, il nome scelto dai Romani, che conquistarono e abitarono questo sito successivamente.

Atene fu centro culturale anche per la Magna Grecia negli anni dello splendore della storia greca, ma le sue colonie non furono da meno per verve intellettuale, anzi, certamente ispirarono la fioritura culturale e politica della capitale. Le nostre coste, in particolare, hanno ospitato meravigliosi esempi di civiltà greca, soprattutto tra Sicilia, Campania e Calabria. Elea era tra questi e ha accolto grandi pensatori come Senofane, Parmenide e Zenone.

Parmenide, il più noto, nacque all’inizio del VI sec. a.C. e fu, presso Elea, legislatore, filosofo e governante. In quanto filosofo, si mise in atteggiamento critico verso la scuola dei pensatori ionici, cosiddetti “naturalisti” e teorizzò l’unicità dell’essere nonché la priorità della ragione come mezzo di conoscenza privilegiato per la ricerca della verità.

Nel suo celebre poema Sulla natura Parmenide ci consegna in forma poetica quanto rimane del suo grandioso pensiero, qualcosa di innovativo che ha segnato tutta la filosofia a venire. I suoi versi sono sempre stati intesi in senso allegorico, ma recenti interpretazioni identificano alcuni passaggi fortemente allusivi ad elementi del contesto urbano di Elea. Ad esempio, la via e la porta raccontante nel poema sarebbero elementi architettonici che trovano tuttora senso tra i resti di Elea. Furono Bruno Gentili e Antonio Capizzi1 a intuire che Parmenide descriveva un viaggio reale.

Con un lavoro di immaginazione, dobbiamo provare rievocare questo grande personaggio, definito come «venerando e terribile allo stesso tempo»2, intento a gettare, a sua insaputa, le basi del pensiero occidentale, parlando ai suoi concittadini nient’affatto in termini astratti, ma attraverso le metafore dell’ambiente a loro più noto: la città. Parmenide inventa un modo per invitare i suoi concittadini a camminare nella strada della ragione grazie ad argomentazioni che si ergono come strutture sopra le metafore degli elementi architettonici che li circondano. Scopriamo così in Parmenide un filosofo al governo che scrive in poesia per il suo popolo, aiutandolo a costruire simboli a partire dagli oggetti comuni della città, la polis come vero spazio pubblico, simbolicamente manipolato per educare alla corretta ricerca della verità, diffidando delle impressioni e dal dominio che spesso le sensazioni provano a imporre alla ragione.

Verrebbe un po’ da pensare che le visioni più futuristiche e avanzate dell’umanità appartengano irrimediabilmente al passato.

L’impresa elogiata nei versi parmenidei può essere interpretata come il viaggio verso la riunificazione dei quartieri di Elea, troppo fragili se isolati, suggellata dalla Dea e invitata alla resistenza contro le pressioni dei nemici Lucani da un lato e Siracusani dall’altro. La vicina Paestum cadde nel dominio dei Lucani, ma Elea sopravvisse grazie alla compattezza politica dei cittadini, guidati da leggi buone e da un leader saggio. La sapiente legislazione dettata da Parmenide instillò ai cittadini una forza in grado di contrastare gli invasori nonostante l’inferiorità numerica.

La scuola filosofica eleatica, grazie al contributo di Parmenide, crebbe e si affiancò all’altra scuola vicina, quella pitagorica (con sede a Crotone), gettando assieme ai pensatori della scuola ionica, quelle importanti e decisive speculazioni che dettarono le condizioni di tutto l’impianto filosofico e scientifico dell’Occidente.

In tutto ciò Parmenide è ancora a un passo da noi, ad Elea, tra le rovine di quella grandiosa città che seppe fare dell’unione la forza che arrestò gli invasori. Tra quei resti archeologici, grazie anche ai racconti delle guide, è possibile far rivivere il ricordo e l’esempio, sempre calzante, di un uomo che ha fatto della filosofia una pratica di vita personale, ma soprattutto, collettiva di un’intera città.

 

Pamela Boldrin

 

NOTE:
1. Come ben narra F. Castiello in Guida di Elea secondo Parmenide, Edizioni dell’Ippogrifo, 2014.
2. Così definito da Platone nel Teeteto, per bocca di Socrate.

[Photo credits Pamela Boldrin]

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Pace avrai se ad altri non togli. Nei 270 anni dalla nascita di Alfieri

Obbedirti; e tacermi.
(Filippo II, 1)

 

Benché Vittorio Alfieri sia vissuto e abbia scritto alla fine del XVIII secolo, quando ormai la lezione illuminista già andava tramontando (ma non spegnendosi), e benché lui stesso abbia ammesso (nella Vita scritta da esso) che tale temperie fu per lui di grande impatto formativo, sarebbe errato sostenere che la sua produzione abbia risentito esclusivamente della filosofia dei lumi per milleuno motivi, di cui solo in parte c’occuperemo qui, Alfieri fu molto più un precursore del romanticismo, che non un tardo illuminista.

Cosa c’è d’illuministico in Alfieri? L’antropocentrismo, il meccanicismo, il laico culto per la libertà, l’avversione per il dispotismo. Questi temi, tuttavia, non sono affrontati dall’ astigiano con l’ironico distacco tipico dei philosophes, ma con angoscia e con un (talora macabro) interesse per la sofferenza e per l’impeto tragico:

Dolor, ch’ogni dolore avanza,
ne sento in me. Conosco al vento sparsi
i sospir miei; vana ogni speme io veggo1.

Tutti sappiamo, però, che la filosofia illuministica non era d’immediata applicazione; altrettanto sotto gli occhi di tutti è che i grandi illuministi, molto spesso, criticarono il dispotismo, ma gli s’accostarono. Tutto ciò diventa impensabile.

Nella concezione alfieriana l’uomo che davvero ami la libertà, non può limitarsi a riflettere né può scendere a patti col potere, ma combatte per i suoi ideali e non accetta mediazione. L’uomo affamato di libertà, l’Eroe, inoltre, è populista: viene dal popolo, parla al popolo, lo incita all’amore di patria, lo agita e, infine, gli restituisce la sovranità depredata:

Io giuro inoltre,
di far liberi, uguali, e cittadini,
quanti son or gli abitatori in Roma;
io cittadino, e nulla piú2.

Ovviamente, per Alfieri, l’immagine incarnata dell’Eroe è Alfieri stesso, ça va sans dire.

In effetti, l’autore trova deprecabile il servilismo, non prova rispetto per il potere, gli procurano noia i protocolli, odia parlare coi grandi; dirà di Federico II di Prussia:

Fui presentato al re. Non mi sentii nel vederlo alcun moto né di meraviglia né di rispetto, ma d’indignazione […] lo osservai profondamente, ficcandogli rispettosamente gli occhi negli occhi3.

L’inquietudine caratteriale riverbera in ogni scritto, trattatistico e teatrale. Se nei trattati politici non ci sono altri principi morali rispettandi se non quello di libertà, così nelle tragedie non c’è personaggio che non sia riferibile a una categoria precisa: o si è eroi, o si è tiranni, e tra i due non vi può che essere scontro totale, fisico e verbale:

CREONTE
Scegliesti?
ANTIGONE
    Ho scelto.
CREONTE
         Emon?
ANTIGONE
Morte.
CREONTE
           L’avrai.

Si noti, en passant, la maestria emotivo-patetica creata dallo spezzettamento di un endecasillabo in cinque battute; nessun altro autore seppe, come l’Alfieri, stuprare e piegare alle sue necessità il metro per eccellenza della poesia italiana.

Insomma, la novità alfieriana rispetto al suo stesso retroterra illuminista è proprio questa: il rifiuto del compromesso4 col potere politico: qualcosa d’incomprensibile per un Voltaire.

Nello specifico, il potere assoluto, cioè la tirannide, è il più grande problema della storia: è espressione della corruzione, segno che i popoli stanno, progressivamente, dimenticando la gloria passata. Ma, in breve, cos’è la tirannide? Lo stesso Alfieri risponde con chiarezza e acutezza:

TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto all’esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle5.

Tirannide è ogni nazione in cui un dominatore esercita la propria funzione senza temere opposizione. In particolare, tirannide per antonomasia è ogni monarchia. Re e tiranno sono concetti inscindibili: la monarchia è la tirannide così come si presenta agli occhi dell’ingenuo: non è una forma di governo, è una malattia degenerativa dello Stato:

entrambi
alla temuta ira del re davanti
tosto or saremmo ricondotti… Oh cielo!
Solo in pensarvi, io fremo … 6

Alfieri, riguardo la tematica politica, ha ritenuto d’esser investito d’una funzione pedagogica. Egli, cioè, ha ritenuto che fosse suo compito rieducare i popoli alla libertà.

Dire cosa sia, però, la libertà, è complesso.

Dal punto di vista umano, la libertà è eroismo, cioè desiderio di realizzazione totale del Sé, ma sul piano squisitamente politico, alla luce delle considerazioni fatte, la libertà si manifesta nella repubblica: il governo del popolo, dal popolo, per il popolo. Essa è il bene:

È Repubblica il suolo, ove divine
Leggi son base a umane leggi e scudo;
Ove null’uomo impunemente crudo
All’uom può farsi, e ognuno ha il suo confine7.

Alla luce della sua teoria politica, Alfieri legge anche i cambiamenti politici che, a partire dalla Francia, interessano tutta l’Europa del tardo XVIII secolo. Tali stravolgimenti, egli nota, non sono frutto della diplomazia o dell’opera persuasiva dei pensatori, ma si è nata dal popolo su incitamento degli ἂριστοι τοῦ λαού che, stanchi dell’oppressione, imbracciano cappa e spada spronando alla rivolta.

Non la ratio guiderà la riscossa di coloro che hanno fame e sete di libertà, ma la stanchezza e la disperazione: insomma, il sentimento. Nulla di più lontano dall’ideale philosophique (che vedeva nel popolo nulla un ammasso di pecore superstiziose e ignoranti) – un ideale talmente luminoso da rendere cieco chi lo guarda – e molto più prossimo ai pianti e alle parole ricche di pathos dei personaggi popolari di Manzoni o d’Azeglio. Voci, in fondo, non così diverse da quelle dei protagonisti delle gloriose Giornate di Milano e Venezia.

 

David Casagrande

 

NOTE
1. V. Alfieri, Rosmunda III,3.
2. V. Alfieri, Bruto I, 1.
3. V. Alfieri, Vita Scritta da Esso, Epoca III, Cap. VIII, a cura di G. Cattaneo, Garzanti, 2006.
4. M. Fubini, (1963) Ritratto dell’Alfieri e altri studi alfieriani,seconda edizione, Firenze, la nuova Italia.
5. V. Alfieri, Della Tirannide, Libro I,Cap 2.
6. V. Alfieri, Saul V,1.
7. V. Alfieri, Misogallo

 

[immagine tratta da Google immagini]

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Tra assolutismo e dispotismo: si può vivere bene sotto il governo di un unico Sovrano?

Tra assolutismo e dispotismo esiste uno iato sottile, rivolgendosi al passato, che può trarre in inganno. Ripercorrendo infatti una storia di popoli, epoche e rivoluzioni, le forme di governo con la loro terminologia differenziata si moltiplicarono a dismisura, che ora potremmo riassumere in un “dizionarietto”: una specie di bibbia del politico.
Con assolutismo si intendono gli Stati – monarchici o oligarchico-repubblicani – dove tutto si risolve presso un’autorità centrale, che riesce a dominare incontrastata e nella quale il potere legislativo, esecutivo e giudiziario si uniformano nel Sovrano. Unica persona, unico destino.
Nel dispotismo invece lo stesso Sovrano può ed esercita l’arte politica di governo in modo arbitrario, tramutando la propria essenza in Despota.
Mentre il Sovrano dunque può essere considerato un padre, un difensore e un protettore dei propri sudditi, il Despota è semplicemente il padrone dello Stato.

Già Thomas Hobbes cercò, come precursore, di fare chiarezza. Da una parte provò a legittimare intellettualmente l’assolutismo come unico antidoto alla guerra e come base della sicurezza e della libertà; dall’altra invece distrusse le varie argomentazioni a difesa di un modello sociale dispotico e patriarcale.
Un compito nient’altro che semplice considerando i tempi. Ci troviamo infatti a metà del Seicento e alla fine delle guerre di religione sancita con la pace di Vestfalia del 1648, quando gli Stati europei non rappresentavano più solo mere monarchie con poteri feudali ma iniziavano a munirsi di articolati apparati amministrativi e giuridici. Una società nuova, dopo la rivoluzione scientifica e la corsa al colonialismo, con un movimento sia interno che esterno al corpo sociale sempre più attivo.

Hobbes, nel groviglio socio-politico nel quale viveva, cercò di far leva sulle recenti innovazioni, unificando e ripudiando più correnti di pensiero fino a costituire la svolta: il modello contrattualista, tagliando il cordone ombelicale con la tradizione antica rappresentata da Aristotele.
È ora che nacque la modernità: il vecchio contro il nuovo.
Ripudiò l’idea della politica come intrinseco bene nel corpo sociale o come sistema naturalmente gerarchizzato nel quale taluni sono predisposti a governare e altri ad essere governati; rifiutò la politeia antica come unione di anime differenti dello Stato; il nesso tra religione e arte di governo; la funzione della virtù rinascimentale e la giustizia come articolazione dell’essere e oggettivo specchio del mondo naturale.

L’effetto fu una spaccatura del mondo tra natura e artificio. Non esiste più solo l’uomo in rapporto esterno con la realtà, ma un uomo introspettivo capace di proiettarsi con l’arte, intesa come tecnica, in una nuova dimensione.
Cartesio per la conoscenza, Hobbes per la politica. Un logos diverso ma con un unico obiettivo: l’essere umano come creatore e non più solo come imitatore di ciò che lo circonda.

Il modello contrattualista hobbesiano parte dalla constatazione di un individuo che è originariamente immerso nello stato di natura – un ambiente pre-politico e pre-sociale – impegnato per l’autoconservazione rispetto ai suoi simili. È una persona libera ed eguale come le altre; tanto eguale all’altro che tra di essi non può che sussistere una condizione di guerra – bellum omnium contra omnes – per l’accrescimento dei propri poteri necessari alla sopravvivenza. Il risultato è un mondo pieno di insicurezze dove non c’è industria, né tempo, né felicità. Come lo stesso autore scrisse nel Leviatano:

«In una tale condizione non c’è possibilità di alcuna attività di carattere industriale poiché il frutto di essa rimarrebbe incerto e di conseguenza non c’è coltivazione della terra, non c’è navigazione, non c’è uso di beni che possono essere importati attraverso il mare, non ci sono costruzioni confortevoli, non si fanno strumenti per spingere e trasportare cose che richiederebbero molta forza, non si fa computo del tempo, non ci sono arti, né letteratura, non esiste una società, e quella che è la cosa peggiore fra tutte è il continuo timore, e il pericolo di una morte violenta; e la vita dell’uomo è solitaria, povera, misera, brutale e breve»1.

Questo significa che non esistono la giustizia o valori morali innati perché sono artifici dell’uomo utili a lui e modificabili grazie il linguaggio. Ancora dal Leviatano:

«Vero e falso sono attributi del discorso, non delle cose. E laddove non c’è discorso non c’è nemmeno verità o falsità»2.

In questa condizione rimane solo una cosa da fare, per garantirsi la sopravvivenza senza alienare la libertà: proiettarsi verso qualcosa di nuovo, di prima non esistente, un artificio che andrà a costituire lo Stato come massima espressione della socialità e del potere politico.
Il passaggio tra le due realtà avviene tramite il patto fra cittadini, l’uno con l’altro, capaci di alienare i propri diritti verso un Sovrano che come parte terza possa rappresentare l’anima artificiale della comunità. Un potere che si scopre assoluto perché autonomo da ogni condizione e alla cui base sta l’oggetto del bisogno.
Tutto viene tolto al suddito per la garanzia della propria vita e avviene per suo stesso volere.
Rousseau ad esempio risponderà negativamente a tutto ciò, considerando il passaggio da uno stato all’altro come iniquo, ingiusto e altrettanto insicuro.

Cosa rimane dunque all’individuo, in articolazione alla vita nel disegno hobbesiano? La libertà, ad esempio, il diritto di ribellione, la felicità, dove risiedono?
Tutto risiede nell’interesse e nel timore, come princìpi della società e che portano gli uomini ad accettare l’obbligazione verso un unico sovrano. Gli uomini infatti hanno interesse alla sicurezza per poter perseguire i propri possedimenti seppur nel silenzio della legge. Dove c’è vita c’è libertà, a patto di rispettare le condizioni dagli stessi volute, abbandonando le opinioni private per il bene collettivo. Pena il ritorno alla guerra incondizionata.

Il paradosso sta nell’affermare che dove c’è libertà incondizionata non è possibile esprimerla e dove c’è libertà negativa al di sotto di una autorità centrale unica, ma non arbitraria come può essere nel dispotismo patriarcale, è possibile possederla a pieno titolo e nessuno la può negare. Se ci provasse lo stesso Sovrano, il patto si annullerebbe.

Bisognerà però avere la fortuna di aver scelto il Sovrano giusto.

 

Simone Pederzolli

 

NOTE
1. Hobbes, Leviatano, a cura di G. Micheli, Milano,BUR, 2011, pag 130.

2. Ivi, p. 133.

[Photo credit William Krause]

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Lo spazio della filosofia nella cultura di massa: intervista a Simone Regazzoni

Esattamente un mese fa eravamo presi dagli ultimi dettagli per il nostro evento Pop Filosofia. Una serata con Socrate & Co. e stavamo aspettando l’arrivo dei nostri due relatori d’eccezione, Tommaso Ariemma e Simone Regazzoni. Al primo avevamo già dedicato una lunga intervista firmata da Giacomo Dall’Ava mentre abbiamo atteso l’inizio dell’evento sorseggiando uno spritz e ponendo qualche domanda questa volta a Simone, chiedendogli qualcosa di più sui suoi studi. In cantiere ha ben tre libri (ma non ci sentiamo autorizzati ad anticiparvi nulla!) mentre in passato si è occupato di temi interessanti e sempre attuali come la pornografia, ma anche di serie televisive, cosa che l’accomuna al collega Tommaso. Infine, da veri Potterheads (quasi tutta la redazione lo è!) abbiamo parlato di quel mondo incredibile creato da J.K. Rowling e di tutto quello che la saga di Harry Potter è stata in grado di insegnare.

Simone Regazzoni è docente di Estetica all’Università di Pavia ed è direttore editoriale della casa editrice genovese “Il melangolo”. Ecco finalmente per voi i passaggi principali della nostra lunga e piacevole chiacchierata.

 

La sessualità è un tema che è stato fatto proprio dai pensatori occidentali dall’antichità fino alla contemporaneità, si pensi per esempio alla mitologia di Platone, alle scoperte in ambito psicoanalitico di Freud, o alle speculazioni filosofiche di Foucault. Si può dunque ricongiungere la “pornosofia” a questa tradizione, come tassello ultimo di una lunga serie di interrogativi e indagini attorno al tema della sessualità? Come può l’erotismo avere una valenza d’indagine filosofica, secondo un’ottica pop-filosofica?

Il tema della sessualità è da sempre al contempo presente e tuttavia rimosso all’interno della filosofia; dico presente e rimosso perché la modalità della sua presenza è diversificata: è un tema che sì viene affrontato, ma non nel suo lato più reale e perturbante. È evidente che in Platone abbiamo la dimensione dell’eros, ma quando egli distingue tra un eros pandemos e un eros uranios sta definendo due livelli: uno dove eros ha una dimensione filosofica intellettuale, di elevazione, e un altro meramente corporeo che la filosofia lascia cadere fuori dal proprio discorso. Pensiamo al cuore del Simposio, dove tutti i discorsi costruiti perfettamente sull’eros vengono messi in scacco dall’ingresso dell’amante che è ubriaco ed eccitato: troviamo infatti Alcibiade che fa una dichiarazione d’amore sconveniente a Socrate. Penso anche ad un grande filosofo, che è stato anche mio maestro, Jacques Derrida, che diceva che se Heidegger fosse stato ancora vivo gli avrebbe chiesto che cosa ne fosse della sua vita sessuale; questo perché i filosofi non parlano della loro vita sessuale, possono solo speculare sulla sessualità. Derrida per esempio è un filosofo che ha dichiarato (ed è uno dei pochi) di aver parlato e descritto in maniera dettagliata il proprio pene all’interno di testi filosofici. Heidegger invece ha avuto una storia d’amore con una sua studentessa, Hannah Arendt; questo, che può essere declinato come una sorta di pettegolezzo filosofico, in realtà ha avuto un’importanza essenziale per Heidegger perché in quegli anni scriveva Essere e Tempo; forse non l’avrebbe scritto senza quella relazione amorosa/sessuale/erotica con Hannah Arendt.

La pornografia in tutto questo come entra? Secondo me essa è interessante per due elementi. Il primo è che è uno dei fenomeni più diffusi dal punto di vista della massa − solo il calcio compete con la pornografia. Per questo motivo incide sul livello di immaginario, di educazione sentimentale, di costruzione della soggettività e quindi è un fenomeno sociale rilevantissimo. Dall’altro punto di vista (quindi non solo sociologico ma anche filosofico) è interessante perché è l’unico spazio dove la carnalità dei corpi viene messa in scena; se dobbiamo cercare un corrispettivo pittorico dobbiamo pensare a Francis Bacon o a Egon Schiele. Dunque c’è questo doppio interesse: uno filosofico sul tema della carne (sul quale lavoro), ma anche un interesse in quanto fenomeno pop di massa che può permettere di intercettare le menti dell’immaginario; il mio libro infatti è un libro di filosofia ma anche di filosofia pop.

Un filone su cui insisto molto in questo libro è un lavoro di analisi del rapporto tra corpo e carne, poiché mentre l’erotismo è la dimensione del corpo nella massima potenza, la pornografia disgrega il corpo; pensiamo al dettaglio anatomico che è il focus centrale del film pornografico, il momento del godimento che deve essere captato… siamo al di là del corpo. Quindi il tema della carne, che per esempio la fenomenologia ha indagato, qui lo troviamo messo in scena anche nella sua forma più cruda. Evidentemente non si tratta di nobilitare la pornografia, ma di osservarla in quanto rappresentazione filmica della carnalità: questo è lo spazio della pornografia; che poi la sua valenza di fruizione sia di tipo masturbatorio è pressoché inevitabile, ma questo non significa che non abbia interesse. Sempre più poi quello spazio cinematografico limite che è la pornografia è penetrato in altre forme cinematografiche: Lars Von Trier prende degli spunti pornografici e li inserisce nei suoi film, così come Scorsese; anche il cinema cosiddetto “alto” quando deve lavorare su certi temi inserisce stilemi al limite. Quando gerarchizziamo i film lo facciamo secondo il tipo di effetto che hanno sul corpo: tanto più il film è intellettuale e tanto meno si inseriscono elementi corporei, mentre tanto più un film fa ridere, piangere o godere e più vengono inseriti elementi corporei, facendo abbassare la scala. La pornografia è considerata al limite della cinematografia perché non c’è alcuna possibilità di fruizione puramente intellettuale.

 

Che cosa significa pornosofia? Come afferma nel suo libro, essa ha come oggetto il tema di “fiction”: in quanto riflesso della società contemporanea, può la pornosofia diventare dunque la chiave di lettura del nostro presente? Che cos’è quindi il pop porno, in cui gli attori, come lei stesso afferma, «fingono di fare ciò che in realtà fanno»?

L’altro tema a mio avviso importante nella pornografia è la creazione di uno spazio di indistinzione tra realtà e fiction, perché la pornografia è insieme recitazione e performance corporea; tanto più la pornografia è di qualità, e cioè prevede degli attori, tanto più questa performance è ipercodificata e regolata. Al contempo però non può non avere un momento di realtà, che è quello del godimento − ovviamente si tratta di del godimento maschile perché sulla realtà del godimento femminile, anche sulla realtà vera, nessuno può mettere la mano sul fuoco, quindi ci potrebbe sempre essere un momento di finzione. Su quello che viene chiamato cumshot della pornografia ed appartiene all’atto maschile, quello è il momento indispensabile perché ci sia il porno; nel caso invece ad esempio dei film solo lesbo c’è tutta la “mitografia” della eiaculazione femminile che deve dare un corrispettivo. Tutto questo per dire che in ogni caso è necessario che vi sia un elemento di reale, e dunque è una delle poche rappresentazioni di fiction che prevede un momento di reale che debba in qualche modo lasciare il suo segno sullo schermo. Questo dato ci dice delle cose molto interessanti, soprattutto rispetto all’interazione che abbiamo sempre di più tra realtà e fiction: abbiamo sempre più bisogno di una finzione che abbia elementi di reale, al contempo la realtà è sempre più costruita, infatti non c’è elemento di cronaca o politico che non abbia una dimensione di storytelling e di narrazione. Quindi la pornografia ha in qualche modo anticipato l’intersezione tra questi due spazi.

Il secondo elemento è che la pornografia può darci a leggere la società e sicuramente i fenomeni interessanti di tale società. Pensiamo al fatto che non c’è uomo politico che non abbia una retronarrazione sessual-porongrafica e che grandi eventi politici del Novecento hanno avuto questa connotazione − cito per esempio Bill clinton che deve confessare se ha avuto o no un rapporto sessuale con Monica Lewinsky e deve andare a parlare di fronte agli Stati Uniti interi di questo dato. La dimensione di erotizzazione del corpo politico oggi è evidentemente qualcosa di ineliminabile: non c’è leader politico dove dietro non vi sia uno storytelling che prevede una erotizzazione del suo corpo. Quindi gli elementi che noi abbiamo trovato in questo tipo di fiction rientrano altrove − caso esemplare in Italia è quello di Silvio Berlusconi: non c’è stata una rappresentazione del suo corpo che non abbia avuto un sovraccarico di immaginario assolutamente pornografico, per quanto possa essere stato creato ecc. Quindi questo è sicuramente uno degli elementi che circolano oggi nello spazio pubblico e politico.

Concludo non a caso il libro sul rapporto tra democrazia e pornografia, perché poi l’altro elemento essenziale è: è possibile pensare uno spazio democratico che vieti la pornografia? Oggi non è possibile pensarlo. Quindi paradossalmente questa cosa di livello bassissimo, assolutamente volgare, le cui qualità estetiche non sono quasi mai eccelse (perché poi nella maggior parte dei casi la qualità della produzione è bassa), è certamente uno degli elementi che contraddistinguono uno spazio democratico, cioè il diritto di mostrare il godimento; in modo speculare invece non c’è spazio totalitario che non preveda la rimozione della pornografia. Quindi che rapporto c’è? Un filosofo come Alain Badiou dice che la democrazia (ma lui la critica in questo) è lo spazio dei corpi e del loro godimento; in questo riprende Platone e la critica platonica alla democrazia, ma in questo senso noi possiamo pensare che c’è un intimo legame tra spazio democratico e circolazione di un immaginario di tipo pornografico, inteso nel senso di ostentazione dei corpi e del loro godimento.

 

Addentriamoci ora in un altro tema, per noi molto interessante. Nel suo libro La filosofia di Harry Potter lei dà molta importanza al contrasto tra il mondo magico e quello dei cosiddetti babbani. Questa dicotomia favorisce il discorso riguardante l’alterità, ciò che è altro da noi e il relativo incontro che esperiamo. Che cosa può insegnarci il mondo di Harry Potter riguardo al concetto socialmente condiviso di normalità e del suo rapporto con la stranezza?

L’interesse per una saga come quella di Harry Potter può essere molteplice. Uno degli elementi è quello collegato alla domanda e cioè il fatto che la natura del romanzo di Harry Potter lo rende sui generis, tenta di mostrare il contrasto con una supposta “normalità” per codificare come spazio quello dettato da alcune regole, comportamenti morali e politici, in opposizione ad uno spazio altro che invece viene a mostrare il limite del precedente, quello della “normalità”, e lo rivalorizza. Il mondo dei Babbani è un mondo che si vorrebbe presentare come l’unico possibile ma questa normalità in realtà viene vissuta come una sorta di prigione; ecco che la scoperta del mondo magico è la scoperta di un’altra via per un altro mondo possibile. Si realizza in questo senso il passaggio tra i vari mondi, passaggi che permettono ai soggetti di trovare un mondo in cui possano aumentare le proprie potenzialità dell’esistenza. Dall’altro lato è interessante il fatto che lo spazio del mondo sia una sorta di multiverso che mette in discussione non solo il paradigma della normalità ma anche il paradigma della razionalità come l’unica chiave per interpretare il mondo; è ovvio che se il mondo è uno ed è retto da quelle leggi sarà uno strumento privilegiato, ma nel momento in cui si mostra che quel mondo è solo una nicchia accanto ad altre, ebbene allora dovremmo utilizzare altri strumenti.

Questa saga è anche molto interessante perché non arriva a rigerarchizzare i mondi, il mondo magico e quello vero e razionale. A questo punto non ci interessa più farlo, sono mondi che si compenetrano l’uno con l’altro e non l’uno affianco all’altro, sono pieni di passaggi all’interno e sono ripiegati l’uno nell’altro. Ci sono persone che sanno muoversi in entrambi utilizzando risorse differenti, per esempio Hermione Granger è una giovane maga molto razionale ma che deve anche sapere utilizzare la stranezza più assoluta, ma penso anche a Luna Lovegood che come personaggio è considerata una pazza ma in realtà ha semplicemente un altro modello di lettura della realtà e in certi contesti la lettura stramba, sfocata, fuori fase, permette addirittura di vedere pezzi di realtà che altri non vedono, ed è il caso delle creature “invisibili” ma che in realtà ci sono (i Thestral, ndR). Tutto questo è un tentativo di rompere con la chiusura della normalità per contrapporre quello che oggi la filosofia e la sociologia chiamano un sistema ad alta complessità: il mondo Hogwarts  è davvero un mondo ad alta complessità e il divenire soggetti di questi maghi è il dedicarsi ad attraversare la complessità con strumenti differenti, perché è vero che loro usano la magia (che è fatta di atti linguistici), ma usano anche la tecnica (e il padre di Ron Weasley ne è un esempio).

Cito inoltre Foucault nel testo per mettere in discussione il paradigma della normalità. Nello spazio normale dei Babbani per esempio ci sono le figure degli zii, che sono figure di aurea mediocrità per i quali qualsiasi persona che si allontana dal paradigma di normalità è un pericolo, una minaccia − lo zio di Harry è una minaccia, Harry stesso è una minaccia e così via. Tutto questo ci fa rivedere la dimensione della soggettività e ci fa riscoprire un altro tipo di etica. È inoltre in questo spazio accettato nella sua molteplicità che la relazione con l’altro non è semplicemente quella “l’altro è un nemico”, ma nemmeno quella finta buonista per cui “l’altro è una ricchezza” che anche nella sua diversità ci farà sempre bene. Pensiamo alla figura di Dobby, l’elfo domestico e dunque brutto esteticamente, distante dalla sensibilità di Harry, tuttavia il loro rapporto d’amicizia non si concretizza subito perché è una ricchezza, anzi, Dobby causa subito dei danni a Harry perché la distanza è molta. Ora il problema è che il rapporto con l’alterità ha un suo reale disturbante, ovvero l’elfo è disturbante, ma proprio a partire da questo si deve tessere un rapporto vero di riconoscimento e di amicizia, che non si costruisce sul fatto che l’altro mi dà ricchezza e quindi lo accetto, sarebbe troppo facile! Sarebbe la facile tolleranza per cui io tollero l’altro anche se è diverso esteticamente ma mi arricchisce e non mi crea problemi. L’altro è invece quello che io non riuscirò mai fino in fondo a comprendere, che ha delle regole davvero molto distanti da me e con cui tuttavia devo trovare il metro con cui misurare la giusta distanza. Su questo per esempio si fonda anche l’amicizia dei tre protagonisti con Hagrid, un mezzogigante che ama creature pericolose: è un’amicizia rimane solida non perché in qualche modo viene addomesticata ma perché loro si assumono la responsabilità di un certo rischio, la possibilità di essere feriti dall’altro, e quindi in questo senso vi è davvero un altissimo livello di riflessione sull’alterità in Harry Potter.

 

Abbiamo trovato molto interessante il capitolo in cui parla dell’atto etico e della figura pedagogica di Silente, il preside di Hogwarts. Crediamo che abbia colto una delle emergenze educative odierne quale l’abbattimento di un autoritarismo ancora vigente. Il consiglio e l’accompagnamento spesso si trasformano in coercizione ritornando dunque ad una visione di normalità anche nelle aspettative evolutive. Crescere secondo certe norme sociali condivise per sentirsi adeguati e giusti mentre la vera tendenza dovrebbe assumere dei caratteri libertari. Che cosa ne pensa e che cosa potrebbe suggerirci il vecchio Albus?

Il vecchio Albus secondo me non suggerendoci quasi niente ci ha detto tutto. È un tipo di impostazione pedagogica quella di Hogwarts in cui il soggetto deve allenarsi a diventare di più, dove l’allenamento, nel senso di ripetizione, errore, confronto con i pericoli, non ha mai eliminato nessun pericolo a questi ragazzi, infatti non sono protetti da nessuno, anzi paradossalmente Silente si occulta nel momento di maggior pericolo. In una narrazione di quel tipo poteva essere che il mago più potente fosse presente a risolvere i problemi, invece fin dall’inizio della saga i momenti di pericolo sono affrontati da questi ragazzi, che paradossalmente si misurano con questo pericolo e crescono ed imparano proprio in questo modo. Molto spesso poi si trovano ad affrontare un pericolo per infrazione di una regola: “non dovete andare in quella parte di Hogwarts”, “non dovete fare questo”, eppure poi non c’è nessuno lì ad impedirglielo. Non è un’educazione banale perché in questo modo sta al soggetto capire come rapportarsi a delle regole; un soggetto etico è qualcuno che valuta l’esistenza di contesti in cui l’etica non è semplicemente l’adeguarsi ad una norma, ma si deve saperla trasgredire, cioè reinterpretare nel modo giusto per rispondere in maniera adeguata a ciò che accade; altrimenti si rischia di trovarsi nella situazione di chi dice “io l’ho fatto perché le regole erano quelle”, che poi era la risposta data da Eichmann al processo di Gerusalemme. Le regole esistono inevitabilmente, il soggetto etico è quello che le valuta, capisce quali può applicare e sceglie che altre le deve trasgredire, prendendosene le responsabilità. Ad Hogwarts un’autorità come Silente non è qualcosa che compromette ed è soffocante, ma qualcosa a cui potranno comunque rivolgersi, e non è un caso che loro certe esperienze gliele raccontino. A questi racconti poi Silente risponde con poche parole, il che significa: io non ti dico niente però tu sai che io ci sono, prova la tua strada, sbaglia, rischia, trova il tuo modo giusto per farlo, confrontati con la tua solitudine. Per questo Silente è stato per loro un grande maestro, anche quando Harry soffriva per il suo silenzio. A questo proposito cito solo una delle sue frasi più importanti sull’etica: “quando e se vi troverete a scegliere tra ciò che è giusto e ciò che è facile, ricordatevi del vostro amico Cedric Diggory”. Etica non è tra ciò che è bene e ciò che è male: è tra ciò che è giusto e ciò che che è facile, ovvero fare la cosa giusta è fare la cosa non facile; in questo senso la via delle regole potrebbe essere anche la via più semplice.

Albus Silente è questo personaggio. Aggiungo che c’è un altro elemento interessante, poiché lui dovrebbe essere la figura positiva per eccellenza della saga ma in realtà nell’ultimo libro viene fuori, tramite una biografia, la sua fascinazione in età giovanile per il lato oscuro. Questo significa che non era un uomo perfetto, ma perché non ci sono uomini perfetti: non lo era il padre di Harry e nemmeno lo era Silente. Dopo un iniziale rifiuto, Harry giunge ad una conclusione: “io so questo”, e finalmente non c’è una visione idealizzata del maestro, è un uomo che gli ha saputo insegnare molte cose, con cui si è confrontato con le sue debolezze e paure, senza contare il fatto che Silente muore, dunque non è il grande mago infallibile. La grande innovazione di J. K. Rowling è questo personaggio luminoso ma con il suo lato oscuro, perché ciascuno ha le proprie problematiche; incarna una pedagogia che non è anarchia ma costruzione ed esperienza della libertà.

 

Dal mondo magico a quello politico. Lei di politica ha avuto modo di occuparsi sia attraverso i suoi scritti (ricordiamo La decostruzione del politico. Undici tesi su Derrida del 2006 e Derrida. Biopolitica e democrazia del 2012), che in prima persona, avendo militato nel Partito Democratico. Cosa ne pensa di un governo retto dai filosofi, come immaginato negli scritti di Aristotele?

L’idea di un governo retto dai filosofi la trovo pericolosa perché in realtà si tratta di una idea di intellettualizzazione della politica che deve essere subordinata ad una forma di sapere. Non è in linea con la concezione dello spazio democratico a cui sono affezionato, poiché nello spazio democratico non c’è una teoria delle élites per la quale sono solo le élites stesse a poter governare. La democrazia è invece lo spazio del governo del popolo attraverso la rappresentanza, quindi qualsiasi elemento che dica che c’è uno spazio di intellettualizzazione della politica è un rischio per la democrazia. È evidente che la degenerazione della democrazia può essere dietro l’angolo e tuttavia la degenerazione di questi anni è dovuta all’illusione che i tecnici possano salvare lo spazio politico nei momenti di crisi. In realtà abbiamo visto che il momento in cui i tecnici vanno al governo sa essere rischioso, questo non perché i tecnici siano peggiori ma perché ai tecnici manca quel tipo di legittimazione democratica. Preferisco un governo che faccia i suoi errori ma che sia stato eletto democraticamente. Questo perché anche la supposta “scienza” che dovrebbe conoscere le cose, ovvero la scienza di tipo economico, oggi dobbiamo considerarla oggettiva; eppure la scienza economica non ha previsto la grande crisi dal 2001 in poi, anche perché questo è un paradigma di lettura, pensare che se mettiamo in atto quella siamo salvi è un’ingenuità assoluta. Quindi diffiderei di un governo di filosofi, ma se piuttosto c’è un governo in cui ci sono anche filosofi mi sta bene. Io ormai ho una certa età ma a me un filosofo come Cacciari sarebbe piaciuto vederlo in un governo di centro-sinistra. Io penso che i filosofi possano dare un contributo, ma un governo di soli filosofi non lo considererei né lo sognerei.

 

Concludiamo, come sempre succede nelle nostre interviste, con la domanda un po’ banale e un po’ difficile: che cos’è per lei filosofia?

Utilizzerò una formula: per me filosofia è non rinunciare a niente nello spazio o nel tempo. Dico questo perché ci sono altre forme di sapere di cultura ecc, ma secondo me la filosofia non ha a che fare con la cultura né con il sapere. La formula socratica del “sapere di non sapere” non è da banalizzare, è importante restare in un orizzonte di non sapere, perché devo avere una libertà radicale di pensiero. Il pensiero della filosofia, per me, è l’unico pensiero che non rinuncia a niente perché non ha una forma di espressione privilegiata: le ha sondate tutte, dalla poesia, all’autobiografia, dalla lettera al saggio universitario e al diario, ecc. Non ha un oggetto privilegiato di interrogazione, può interrogare qualsiasi cosa e anche il nulla, la si può fare su oggetti inanimati, come quando Sartre scopre la fenomenologia e dice “ah, quindi si può fare filosofia anche su un cocktail”… quindi non c’è nulla a priori su cui non possa interrogarsi. Non ha inoltre un metalinguaggio già definito, perché ciascun filosofo ha il suo linguaggio anche tecnico ma non c’è il metalinguaggio della filosofia. In questo senso davvero non rinuncia a niente, compresi i rischi del pensiero, non ha un pensiero edificante, non rinunciare a niente vuol dire anche se vogliamo non rinunciare al lato oscuro, per esempio Heidegger, che è uno straordinario filosofo, è stato nazista? Sì, non si può ridurre questo a “no ma per due mesi per sbaglio, un anno, mezzo anno, ma lui capiva un altra cosa”… no, lui ha avuto (a suo modo) un rapporto con il nazismo che entra anche nei testi filosofici, e ora che sono pubblicati i quaderni neri lo vediamo ancora di più. Scopriamo tutto questo e allora Heidegger non è più un grande filosofo? Non credo, Heidegger resta un grande filosofo, che la filosofia si arrangi; in questo senso la filosofia non rinuncia a niente, non rinuncia neanche a prendersi i rischi estremi, e non c’è nulla quindi di meno rassicurante di un filosofo.

 

La Redazione

 

[Immagine tratta da repubblica.it]

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Platone ed “Ergo Proxy”, o: i filosofi alla guida dello Stato

Si scrive “Ergo Proxy”, si legge “Platone”. No, non è una frase semiseria, questa. È, al contrario, un tentativo serio di lettura trasversale. Sì, può sembrare alquanto ironico da parte chi scrive sottolineare che tale tentativo di analisi incrociata sia tra un anime giapponese, quale appunto Ergo Proxy, ed uno dei padri del pensiero filosofico occidentale, Platone, un confronto che avviene sul terreno – questa è l’interpretazione di chi scrive – politico, in merito al concetto di Stato e di governante perfetti.

«Abbiamo convenuto che doti peculiari di questa natura sono prontezza d’apprendere, memoria, coraggio e magnanimità»1: così dichiara Socrate nella Repubblica in merito alle virtù dell’uomo di Stato perfetto. Quest’ultimo è, poi, anche sincero, ama oltre ogni dire la verità, ossia le idee immutabili2. Uomini siffatti, continua Platone, i quali contemplano razionalmente il mondo delle idee, si può dire forse che non cerchino costantemente di migliorare le proprie esistenze rendendosi all’altezza del contemplato3? Ovviamente. E se dovessero trovarsi alla testa di uno Stato, persone simili tenteranno magari di corrompere la “cosa pubblica” con iniquità varie4? È impossibile, per il pensatore greco. No: il filosofo che si trovi alla guida della polis compirà ogni sforzo per scrivere una costituzione ispirata da ciò che è assolutamente buono, giusto e bello5. Pertanto: i filosofi devono poter governare perché solo in tal modo può nascere uno Stato perfetto.

Davvero, però, l’azione di governo dei reggitori potrebbe essere continuamente priva di criticità qualsivoglia? È un’utopia. Precisamente: proprio quest’ultima è rappresentata nell’anime Ergo Proxy. Ma si tratta di un’utopia “irreale”, per così dire. Perché il mondo che è raccontato dall’opera audio-visiva è devastato, sconquassato da una catastrofe apocalittica che ha spazzato via gran parte dell’umanità, e l’intera vita vegetale ed animale. I sopravvissuti allo sfacelo generale si sono rifugiati in grandi città-stato autonome (chiamate dome) difese da enormi cupole isolanti, entro le quali hanno ricostruito la loro civiltà. Ed è proprio in una di queste poleis, chiamata Romdo, che vi è il governo dei filosofi. Essi amministrano la città-stato in vece del Proxy, una creatura immortale che dovrebbe essere l’artefice della rinascita del mondo, la quale è però scomparsa. In altre parole, i reggitori guidano l’entità statuale affermando di conoscere la volontà di questo ente superiore celato – le idee, nel lessico platonico.

Tutte le leggi in vigore a Romdo mirano alla salvaguardia del sistema, ossia all’equilibrio socio-politico della polis. Esse prescrivono un rigido codice comportamentale per gli abitanti e, qualora essi non vi si conformino, vengono espulsi. Ma quelle regole sanciscono l’assoluto controllo di ogni emozione; solo, in altre parole, sacrificando del tutto la propria emotività, abbracciando la pura razionalità delle leggi “sistemiche” dei filosofi, gli esseri umani della città-stato possono sopravvivere nel mondo post-apocalittico. Un’esistenza all’apice della civiltà in cambio di una mutilazione della propria umanità: ecco il sacrificio che gli abitanti di Romdo devono essere pronti a compiere, sacrificio che, essendo imposto dalle leggi dei filosofi, è anche eticamente motivato. Male oggettivo che indossa la maschera di bene oggettivo, che cela la sua vera fisionomia di oggettiva violenza giustificata: come non si può cogliere qui la degenerazione platonica dello Stato perfetto, causata dalla reggenza di filosof traviati?

«Saranno avari delle loro ricchezze, […] la brama che li domina li renderà prodighi di quelle altrui; coglieranno in segreto i loro piaceri […] educati dalla violenza, perché hanno trascurato la Musa vera che accompagna la dialettica alla filosofia, e apprezzato più la ginnastica della musica»6: così Socrate definisce il carattere di un filosofo corrotto, di un uomo timocratico che abbia trascurato la contemplazione delle idee per dedicarsi all’acquisto avido di ricchezze, onori e all’invidia di quelli altrui; per dedicarsi all’intemperanza nei piaceri; per dedicarsi, infine, al guerreggiare7. E, infatti, la guerra è ciò a cui i reggitori degenerati trascinano lo Stato del quale siano i governanti, riconosce Platone: «dissomiglianza e anomalia […]: quando e dove queste si producano, sempre danno luogo a guerra e inimicizia»8. Quando, in altre parole, una polis sia retta da timocrati, là è il conflitto, tanto con le altre città-stato, quanto entro i suoi confini. Proprio come accade anche a Romdo, in Ergo Proxy, quando gli abitanti si ribellano alle leggi dei filosofi e, durante una lotta armata, ne abbattono infine il regno – ennesimo parallelo con La Repubblica platonica che permette di affermare, come è stato sottolineato esplicitamente ed è emerso implicitamente, che sia davvero possibile una lettura unitaria e trasversale delle due opere.

 

Riccardo Coppola

NOTE
1. Platone, La Repubblica, a cura di F. Sartori, Laterza, Roma-Bari 1994, p. 208.
2. Cfr. ivi, pp. 197-198.
3. Cfr. ivi, pp. 214-215.
4. Cfr. ivi, p. 204.
5. Cfr. ivi, pp. 198; 214-215.
6. Ivi, p. 265.
7. Cfr. ibidem.
8. Ivi, p. 264.

 

[Immagine tratta da Google Immagini]

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Confusione e Anarchia: due nazioni difficili da governare

<p>immagine tratta da google</p>

Dicevano di vederle sempre assieme: «Si accompagnavano non meno di tre lune fa, lo posso giurare», proprio così dicevano; «Sono amanti nascoste, abitano nella stessa casa – affermava la vecchia acquaiola – certe cose le so per esperienza!». E così il fabbro del borgo, il mastro birraio, la lavandaia, il perdigiorno di professione, persino il cieco ed il frate irriverente; anche le pecore se il buon Dio avesse dato loro la parola avrebbero cantilenato: «Non una volta, nemmeno per errore, che abbiano imboccato due diverse direzioni, ci possiamo giocare all’azzardo tutta la nostra lana».
Così erano Confusione e Anarchia, amiche, sorelle, parenti alla lontana… nessuno in cuor suo lo sapeva con certezza. Se fossero state gemelle forse un’impercettibile differenza nell’ultima ciglia dell’occhio sinistro, un passo breve come tra un carminio e un pompeiano. Il re di tanto in tanto diceva ai suoi uomini migliori: «Sarebbero nazioni dai confini indefiniti, un disastro doverle governare!».
Pochi, pochissimi sapevano andare oltre le semplici apparenze ed erano anche gli unici a non cadere nel tranello delle banalità: è vero, abitavano nella stessa casa, ma ognuna aveva le proprie stanze, ed un muro spesso un braccio tracciava confini ben definiti tagliando persino l’aria; non sempre andavano d’accordo, forse una sottile cortesia di circostanza tra un “buongiorno” e un “buonasera”, ma mai un più dolce “buonanotte”.
E le origini? Anche quelle erano diverse. Confusione nacque da Caos e Disordine, mentre Anarchia era figlia di uomini che un giorno si alzarono in piedi e decisero di non avere padroni o capi a cui rendere per obbligo parte del frutto del loro lavoro, uomini capaci di vivere assieme ad altri uomini in un tacito rispetto di confini molto più netti di quel che si possa immaginare.
È gente che sogna quella che ama Anarchia… un amore di vetro, facile da incrinare se degenerasse in oblio; ecco allora che subitamente si vedrebbe Confusione, regina senza re, bella e di facili costumi.
Ed ecco servito il rovello più cocente, quello che nessuno è riuscito a districare: vivrebbero Anarchia e Confusione l’una senza l’altra? Nel mondo degli astratti, dove tutto è fine a se stesso probabilmente ognuna basterebbe a se stessa… ma noi abitiamo solo il mondo dei normali, dove hanno ragione un po’ tutti e dove tutto è tessuto pazientemente all’insegna di un’infinita ballata di imperfezioni.

Alessandro Basso

Articolo scritto in occasione del secondo incontro ‘Confusione/anarchia’ della rassegna ‘Tra realtà e illusione’ promosso dall’Associazione Zona Franca

Il diabete infantile: intervista a Giovanni Fusco -Associazione Diabete Junior

Il diabete è una malattia silenziosa di cui spesso si sente parlare ma che in pochissimi conoscono davvero.
Specialmente il diabete junior, che colpisce i bambini piccoli, anche di 2 o 3 anni, è diffuso eppure non si conosce o non si vuole approfondire.
La civiltà di un Paese si dovrebbe misurare sulla capacità di consentire a tutti i suoi abitanti di avere una vita normale, dignitosa che rispecchi i diritti che a tutti sono concessi; eppure il progresso tecnologico e scientifico non va di pari passo con l’evoluzione della mente umana, così succede che le scuole accettino, storcendo il naso, bambini diabetici, per il solo motivo che sono ‘complicati’ da gestire: insulina, glucosio, ipoglicemia…tutte cose che spaventano, ma quando è che si ha paura di qualcosa? Quando non la si conosce.

Ecco che allora con questa intervista a Giovanni Fusco, membro dell’Associazione Diabete Junior Campania nonché padre di una bambina diabetica, vogliamo dirvi di cosa si tratta, quali sono i sintomi da non sottovalutare, come gestire la malattia ma soprattutto il proprio stato d’animo.

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Egr. Dottoressa, in nome dell’Associazione Diabetici Junior Campania Le porgo un caloroso e sentito Grazie per la disponibilità e sensibilità che ci sta mostrando rispetto al tema della tutela del diritto alla salute, alla cura, all’istruzione e alla migliore qualità della vita dei bambini e giovani diabetici.

Grazie a lei, oggi cercheremo di compiere un ulteriore passo avanti nella conoscenza, sensibilizzazione e prevenzione del Diabete Mellito di Tipo 1.

Si sente spesso parlare di diabete nei giovani e nei bambini ma poche volte qualcuno spiega esattamente cosa sia questa malattia, quali sono i sintomi con i quali si manifesta. Ce lo può spiegare?

In merito alla sua prima domanda, Le dico subito che il Diabete che interessa l’età evolutiva è, nella quasi totalità dei casi, un Diabete Mellito di tipo 1 (DM1), caratterizzato dalla distruzione, su base autoimmune, delle beta cellule pancreatiche con conseguente deficit d’insulina.

Il Diabete Mellito di tipo 1 è una delle più frequenti malattie croniche dell’infanzia, purtroppo, la sua incidenza è in aumento. Tale tipo di Diabete (DM1) non deve essere assolutamente confuso con il Diabete di Tipo 2 che generalmente insorge dopo i 40 anni di età ed è causato da un deficit parziale di secrezione insulinica, che in genere progredisce nel tempo ma non porta mai a una carenza assoluta di ormone e che si instaura spesso su una condizione, più o meno severa, di insulino-resistenza su base multifunzionale. Il Diabete Mellito di Tipo 1 rientra nella categoria delle malattie autoimmuni perché è causata dalla produzione di autoanticorpi (anticorpi che distruggono tessuti ed organi propri non riconoscendoli come appartenenti al corpo ma come organi esterni) che attaccano le cellule Beta che all’interno del pancreas sono deputate alla produzione di insulina.

Come conseguenza, si riduce, fino ad azzerarsi completamente, la produzione di questo ormone il cui compito è quello di regolare l’utilizzo del glucosio da parte delle cellule. Si verifica, pertanto, una situazione di eccesso di glucosio nel sangue identificata con il nome di iperglicemia. La mancanza o la scarsità d’insulina, quindi, non consente al corpo di utilizzare gli zuccheri introdotti attraverso l’alimentazione che vengono così eliminati con le urine. In questa situazione l’organismo è costretto a produrre energia in altri modi, principalmente attraverso il metabolismo dei grassi, il che comporta la produzione dei cosiddetti corpi chetonici. L’accumulo di corpi chetonici nell’organismo, se non si interviene per tempo, può portare a conseguenze molto pericolose fino al coma.

I principali sintomi clinici del diabete di tipo 1 sono:

-aumento del volume urinario;

-aumento della sensazione di sete;

-dimagrimento improvviso non dovuto a variazioni nella dieta;

-alito “fruttato”, ecc.

Le cause del diabete di tipo 1 non sono ancora state individuate con certezza. Di sicuro ci sono dei fattori che contribuiscono alla sua comparsa:

–fattori genetici

–fattori immunitari (legati ad una particolare difesa del nostro organismo contro le infezioni)

–fattori ambientali (dipendono dall’azione contro il nostro organismo di batteri, virus, sostanze chimiche, etc.)

Una volta, scoperto, quali sono le tappe da seguire per poter avere una vita normale?

A seguito dell’insorgenza del diabete di tipo 1, le tappe da seguire sono innanzitutto un buon controllo glicemico seguito da una adeguata terapia insulinica il tutto accompagnato da una corretta alimentazione e da tanta attività fisica.

-Il controllo della glicemia è una pratica fondamentale per raggiungere un buon equilibrio glicometabolico, esso consente di regolare la dose di insulina e di prevenire o trattare adeguatamente eventuali diminuzioni o aumenti eccessivi della glicemia.

Il tradizionale metodo effettuato per il controllo della glicemia avviene mediante una piccolissima goccia di sangue, ottenuta abitualmente da un polpastrello, tramite un apposito pungidito.

La piccola goccia di sangue viene analizzata da un glucometro che in 5 secondi fornisce il risultato.

La frequenza del controllo glicemico dovrà essere riportato nel piano individuale di trattamento, solitamente deve essere effettuato prima e dopo i pasti e l’attività sportiva. Verrà inoltre effettuato tutte le volte che il bambino, adolescente e giovane presenterà sintomi riferibili ad ipoglicemia (rapido abbassamento al di sotto dei valori normali del livello di zucchero nel sangue) o iperglicemia (eccesso di glucosio nel sangue).

È evidente che il controllo glicemico è uno strumento che permette di prevenire le ipoglicemie gravi così come le iperglicemie.

-La terapia insulinica prevede la somministrazione di insulina tramite l’iniezione fatta nel sottocutaneo mediante dispositivi preriempiti d’insulina detti anche penne, perché ne ricordano la forma, con degli aghi piccolissimi lunghi da 4 a 6 mm all’estremità.

Le dosi d’insulina da praticare sono indicate nel piano individuale di trattamento e aggiornate periodicamente in base alle esigenze.

In ogni caso, un bambino/adolescente/giovane diabetico dovrà necessariamente praticare un minimo di 4/5  punture al giorno d’insulina al fine di coprire i pasti, più una puntura di insulina ,detta basale, che in genere controlla la glicemia fuori dai pasti, senza considerare poi i casi di iperglicemia in cui si richiede una ulteriore puntura di insulina.

Un altro modo di somministrare l’insulina è quello che utilizza il microinfusore, in questo caso non sarà necessario praticare alcuna puntura perché l’insulina viene iniettata attraverso una cannula che connette il microinfusore al sottocutaneo, per cui basterà spingere un pulsante per erogare insulina.

-L’alimentazione.

Le indicazioni nutrizionali di un bambino, adolescente e giovane con diabete sono le stesse di quelle di qualsiasi altro soggetto di pari età e fabbisogni che non abbia il diabete e si alimenti in modo corretto.

L’alimentazione del diabetico così come del non diabetico deve essere sana ed equilibrata.

Ovviamente per il diabetico va tenuto in considerazione il rapporto carboidrati/insulina al fine di avere un buon bilanciamento tra i due fattori.

L’attività fisica.

L’attività fisica è di fondamentale importanza per la vita del bambino, adolescente e giovane con diabete in quanto brucia gli zuccheri ed automaticamente abbassa la glicemia.

Il Diabete non impedisce ad un bambino diabetico di praticare attività sportive né individuali né di squadra.

Si dice che il diabete sia una malattia che va monitorata 24 ore su 24: per un bambino che deve frequentare la scuola, come i suoi coetanei, cosa succede? Le scuole hanno le attrezzature ma soprattutto la formazione adatta per la supervisione dei bambini affetti da diabete?

In merito al rapporto bambino, adolescente e giovane con Diabete(DM1) con la scuola.

Ebbene, la scuola gioca un ruolo fondamentale nel permettere al bambino con diabete di raggiungere il benessere psicofisico e il completo sviluppo delle sue potenzialità e peculiarità.

La scuola è il contesto in cui il bambino confronta e costruisce se stesso al di fuori dell’ambiente protetto della famiglia; è il contesto in cui verifica se i messaggi rassicuranti che il team curante gli ha dato, rispetto alla gestione e al vivere con il diabete, corrispondono a verità.

La modalità con cui il bambino, adolescente e giovane si rassicura sul suo essere adeguato è legata alla risposta che riceve dall’ambiente, anche e soprattutto rispetto alla sua condizione di malattia.

Lo stato psicologico e la qualità di vita del bambino con diabete non sono estranee al controllo metabolico, anzi lo condizionano in modo importate.

Detto ciò, purtroppo, bisogna affrontare la triste realtà in cui viviamo, dove la scuola, sempre più in difficoltà negli ultimi anni per i tagli alle risorse ed il continuo cambiamento, si trova di fronte all’inserimento di un bambino che vive una condizione di vita spesso sconosciuta alla società e confusa con il Diabete di tipo 2, ben diverso dal Diabete di tipo 1 nelle cause e nella terapia medica: l’insegnante, priva di qualsiasi formazione e strumento, si trova spesso di fronte all’ignoto, e l’ignoto per sua natura fa paura, al pari di quella provocata dalle responsabilità a cui si trova di fronte, da affrontare in un contesto fatto nella maggior parte dei casi di classi sempre più numerose e/o con meno insegnanti ed in cui ogni bambino può essere a proprio modo portatore di una problematica specifica, sia essa di tipo medico o psicologico.

Per tali motivi, molte volte le strutture scolastiche utilizzano metodi devastanti nei confronti dei bambini/giovani con il Diabete, ricorrendo a comportamenti discriminatori e di totale emarginazione.

Sa quante volte è capitato che genitori di bambini diabetici si son trovati ad implorare la collaborazione degli insegnanti per poter stare, non dico sereni, ma almeno un tantino tranquilli mentre i loro figli si trovavano a scuola, ma che non sempre-purtroppo- trovavano la collaborazione che si aspettavano da un educatore.

In realtà è difficile integrare chi ha una diversità che non è immediatamente visibile, ma noi non dobbiamo elemosinare una disponibilità che dovrebbe essere scontata.

Detto ciò, è evidente la necessità di diffondere e consolidare la condivisione istituzionale delle politiche sanitarie e scolastiche su temi che riguardano la garanzia della frequentazione educativa, scolastica e formativa dei bambini e ragazzi con diabete.

La sofferenza di questa malattia è spesso avvertita più dai genitori che dai bambini; una volta scoperta la malattia quali sentimenti si accavallano nel proprio animo e come si riesce a tenerli sotto controllo?

La sofferenza della malattia avvertita dai genitori? Come si controlla?

Sono un papà di una bimba con diabete, la stessa che ha avuto l’esordio alla tenera età di anni due e mezzo e che da due anni viene costantemente seguita durante la sua quotidianità, diurna e notturna.

Posso dirle che il diabete anche se non colpisce in prima persona i genitori, quando il diabete entra in casa, di diabete si ammala tutta la famiglia e i genitori lo vivono quasi quanto i figli.

Dopo l’esordio del diabete si vive una condizione di completa disperazione, di abbandono, di paura mista ad ansia per il futuro del proprio figlio/a, di dolore nel cercare di accettare la cronicità di una malattia come il diabete.

Non riesco ad esprimere i sentimenti che provo quando mi trovo a misurare la glicemia, pungendo il ditino della mia piccola,  anche più di 10/11 volte al giorno, alle notti in bianco al fine di controllare la glicemia per la paura di una ipoglicemia notturna, alle crisi di pianto che spesso accompagnano le mie giornate, perché in fondo quello che penso è che mia figlia può assolutamente fare le cose che fanno gli altri ma con una “normalità” diversa……la sua normalità.

Con il diabete si può convivere, si deve “convivere” si possono raggiungere obiettivi ambiziosi ed importanti, magari persino più “importanti” di quelli che molti non diabetici raggiungano, ma a costo di un impegno, di una dedizione, di un’attenzione che è “per sempre”, come il diabete.

Per cui posso dire che i sentimenti ai quali facevo riferimento non si controllano, impari a convivere con loro, con la speranza di un futuro migliore, che la scienza possa un giorno bussare alla tua porta per ridare al tuo cucciolo ciò che in qualche modo la vita gli ha tolto.

Ma di una cosa sono sicuro, che il bambino, giovane e adolescente con diabete è un essere speciale, non perché ha il diabete, ma perché grazie al diabete vive più consapevolmente e sa cosa vuol dire non arrendersi mai.

Come si spiega ad un bambino piccolo la propria malattia e il fatto che questa non deve prendere il sopravvento su di lui ma deve al contrario essere il suo punto di forza?

Giustamente bisognerà pur dirlo al bambino che è diabetico, compito arduo del genitore,  ma basterà pensare che un bambino diabetico necessita di tutto quello di cui  ha bisogno un bambino, quindi soprattutto di amore, fiducia, speranza nel futuro.

Un ambiente familiare sereno, tranquillo e ricco di valori è fondamentale perché impari a gestire il proprio diabete in autonomia, relazionandosi in modo sano con la malattia, ovvero controllando la glicemia regolarmente senza esserne ossessionato, rispettando la dieta e gli orari dei pasti, adottandoli come uno stile di vita salutare, senza viverli come una punizione o una costrizione. Il dialogo non può mancare, anche per affrontare insieme quelle domande senza risposta che sono il principale serbatoio della rabbia e delle altre emozioni negative.

Adottare uno stile educativo equilibrato è una vera sfida: la tendenza ad essere iperprotettivi è quasi naturale, perché gestire la propria ansia può essere più difficile che gestire la glicemia. E’ difficile, ma importante, trovare il giusto compromesso tra educare alla responsabilità e “vigilare” senza essere percepiti come oppressivi, allora bisognerà giocare con lui, mostrargli la malattia da una prospettiva più accettabile…

Per i bambini più piccoli, può essere utile affrontare il percorso verso la gestione autonoma della malattia come un gioco, con allegria. Esistono molti libri che cercano di spiegare il diabete ai bambini e ai loro coetanei, utilizzando favole e fumetti, come la storia dell’orsetto Lino, un orsacchiotto protagonista di un libro. La storia di Lino è in realtà quella di un bambino che scopre di avere il diabete, racconta l’impatto di questo cambiamento nella sua vita, impara a conoscerlo e ad affrontarlo con coraggio e serenità con l’aiuto di chi sta intorno, genitori, medici ed amici.
Tramite il gioco, i bambini acquisiscono una prospettiva di malattia più facile da accettare e riescono ad attivare in tempi più rapidi i comportamenti quotidiani necessari per l’autogestione. Non si può pretendere tutto subito, la gestione del diabete non fa parte del repertorio comportamentale dell’essere umano.

C’è appena stata la giornata mondiale del diabete e l’Associazione Diabete Junior Campania ha partecipato organizzando nel centro di Napoli una serie di attività per sensibilizzare l’opinione pubblica; quali sono i compiti di questa associazione e come si riesce ad ‘educare’ il popolo?

L’ Associazione Diabete Junior Campania che da anni opera sul territorio si batte costantemente al fine di dare voce e tutela ai bambini e giovani con Diabete di Tipo 1, mediante l’informazione, l’educazione e la propaganda.

Le giornate mondali del Diabete rappresentano per noi dei momenti di fondamentale importanta al fine di istruire il popolo alla prevenzione, all’importanza della diagnosi precoce.

Perchè in fondo noi non possiamo arrenderci, noi ci dobbiamo essere, per tutti, soprattutto per gli ultimi della fila. Dovremmo esserci, dobbiamo esserci, ci saremo.

Il Diabete non ci toglierà il sorriso!!!!!

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Vorrei sentitamente ringraziare Giovanni per le informazioni che ci ha dato e per avere condiviso la sua esperienza, sottolineando la missione dell’Associazione Diabete Junior: fare prevenzione, perché solo una diagnosi precoce può salvare i nostri bambini e questo può essere fatto solo attraverso la conoscenza della malattia e dei suoi rischi.

 

Riferimenti:
-Documento strategico AGDI
-www.diabete.com

Valeria Genova

Può esistere un buon governo? Sviluppi dall’assolutismo Hobbesiano

Sarebbe bello se questo sovrano conoscesse veramente ciò che è giusto per la sua comunità, sarebbe bello se egli operasse esclusivamente per il bene di quest’ultima. Sarebbe bello se non ci fosse bisogno di porre nessun tipo di rimedio alle sue decisioni. Sarebbe bello se tutto funzionasse a regola d’arte, in politica, in società, nei rapporti umani. Sarebbe bello se non vi fossero conflitti, contrasti, logiche di interesse!

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