Adolescenti e giovani in cerca di senso

Adolescenti e giovani del tempo presente veleggiano nell’incertezza come “navi in gran tempesta”, avendo perso la direzione della loro esistenza. La fatica che attanaglia le nuove generazioni è caratterizzata, molto più che da una frustrazione sessuale o da una frustrazione sociale, da una frustrazione esistenziale. La crisi economica del nostro tempo è senz’altro un indicatore che non può essere omesso nel tentativo di spiegare le esistenze stanche e lacerate di moltissimi adolescenti e giovani. Ma la spiegazione più sottile e profonda è da ricercarsi in una crisi esistenziale che attraversa come una lama affilata mente e cuore di ragazzi e ragazze in cerca del proprio posto nel mondo.

La società ipermoderna ha cercato in tutti i modi di affermare il principio di piacere e la volontà di potenza e prestigio, ma ha dimenticato di riconoscere il motore principale della vita dell’uomo: la volontà di significato. Dare un senso alla propria esistenza precede, e non segue, il principio di piacere o la volontà di potenza. L’uomo infatti ha bisogno di uno scopo che dia direzione alla propria vita, ha bisogno di un perché per poter vivere.

La frustrazione delle giovani generazioni è dunque e primariamente esistenziale. Una fatica nella ricerca del senso della propria vita che spesso finisce per essere rinuncia, resa, abbandono, cedimento sul proprio desiderio. In merito, si rileva troppo superficialmente come la psico-apatia, la noia e la depressione siano i moventi di gesti estremi. Mentre, con maggior coraggio e profondità, si dovrebbe sottolineare che queste manifestazioni dell’esistenza sono originate da un abissale vuoto di senso, che si erge di fronte alla comunità degli adulti come un grido che invoca ascolto. Se esso non viene riconosciuto, se non si presuppone che, anche in un giovane delinquente, in un annoiato, in un depresso, in un tossicodipendente, in un suicida, scorre profonda come una corrente carsica, la volontà di strappare un senso alla vita, allora renderemo giovani uomini e giovani donne eternamente frustrati e apatici. Comprendere nella nostra antropologia anche la volontà di significato implica edificare una filosofia, un’etica, una psicologia e una pedagogia che puntano alla pienezza e alla bellezza dell’esistenza dell’uomo. Fu proprio il poeta Goethe ad affermare:

«Se tratti una persona per come è, resterà quello che è, ma se la tratti per ciò che potrebbe essere diverrà ciò che dovrebbe e potrebbe essere».

In linea con questa “antropologia dell’altezza” lo psichiatra viennese Viktor Frankl riteneva opportuno superare ogni tipo di riduzionismo umano in favore di una visione comprensiva e integrativa di tre fondamentali dimensioni: corporea, psichica e noetica. Quest’ultima, è la dimensione attraverso la quale è possibile scoprire quotidianamente il senso della propria esistenza. Essa riguarda il nostro intelletto e il nostro spirito. La personale capacità di deciderci sempre ciò che vogliamo essere, per quale motivo siamo disposti a vivere, soffrire e morire. È questa la dimensione specificatamente umana attraverso la quale anche corpo e psiche possono trovare equilibrio, per questo è fondamentale riconoscerla, alimentarla e non frustrarla. La tensione verso il significato, per quanto impegnativa, è decisiva e indispensabile per la salute e il benessere olistico di ciascuno. Scrive infatti Frankl: «Non c’è nulla al mondo, oserei dire, che può aiutare qualcuno a sopravvivere così efficacemente anche nelle condizioni più diverse come sapere che c’è un significato nella propria vita»1.

Ascoltiamo il disperato grido dei giovani alla ricerca di un perché. Solo avendo un perché potranno sopportare quasi ogni come. Aiutiamoli a scoprire di ora in ora il senso della propria esistenza. Sfidiamoli a realizzare il potenziale significato della loro vita, incentiviamoli a ravvivare il fuoco di questa sana tensione, affinché si muovano da ciò che hanno compiuto verso ciò che ancora attende di essere da loro realizzato nel futuro. È proprio questo desiderio di attuare un valore nel futuro che, secondo Frankl, ha tenuto in vita lui stesso e molti altri internati nel secondo conflitto mondiale.  Egli scrive: «quando fui portato al campo di concentramento di Auschwitz, mi fu confiscato un manoscritto pronto per la pubblicazione. Di certo, il mio profondo desiderio di riscriverlo ex novo mi aiutò a sopravvivere alle difficoltà dei campi dove mi trovavo»2.

Il vuoto interiore delle giovani generazioni non va dunque sottovalutato. È un segnale. È il richiamo ultimo ad affiancarli nella fatica, non per imporre loro il significato, ma per mostrargli che esso si presenta come un appello unico e irripetibile che la vita pone nell’esigenza dell’ora. «Ogni uomo viene interrogato dalla vita; alla vita lui può solo rispondere in modo responsabile»3 afferma Frankl. Scoprendo verso chi o che cosa si sente responsabile, un’altra persona, un alto ideale, la propria coscienza, oppure Dio, l’uomo può inondare di senso la propria esistenza. Il significato è peculiare per ogni uomo, invero «il compito di ciascuno di noi è tanto unico quanto unica è la nostra capacità di raggiungerlo»4.

I giovani, seppure spesso in modo inconsapevole, comunicano questa profonda crisi e reclamano ascolto attivo e partecipe alla loro angoscia esistenziale. Gridano, talvolta con pensieri e comportamenti (solo) in apparenza incomprensibili, per sottolineare agli adulti che il vuoto, non va riempito con oggetti, protezione soffocante, libertà di godimento senza limiti, illusioni a buon mercato, ma con un’attenzione rivolta alla speranza di una vita ricca di significato, nonostante le ombre (o proprio  grazie a esse) che la contraddistinguono. Adolescenti e giovani invocano cura per le loro fragilità e chiedono che si vada alla radice del vuoto che sentono. Solo un ascolto paziente e uno sguardo profondo permettono di riconoscere e raggiungere questa radice, questa fragilità alla quale è sotteso il desiderio ancestrale di una vita piena di senso. Solo se si sentiranno ascoltati e se vedranno riconosciuto e valorizzato il loro primario bisogno di dare significato alla propria esistenza, i giovani potranno ritrovare la rotta della loro “nave in gran tempesta”.

 

Alessandro Tonon

 

NOTE:
1. V. E. Frankl, L’uomo in cerca di senso. Uno psicologo nei lager e altri scritti inediti, tr. it di N. S. Sipos e M. Franco, Franco Angeli, Milano, 2017, p.119.
2. Ivi, p. 119.
3. Ivi, p. 123.
4. Ibidem.

[Photo credits: Jessica Ruscello via Unsplash]

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Lo Sguardo

<p>Lo Sguardo</p>

Taluni dicono che le persone cambiano, altri che non cambiano mai, si dice anche che non si può conoscere a fondo una persona… e sono tutte verità grossolane. La verità, quella stretta stretta1, è che tutti gli aspetti e le caratteristiche di una persona, ritornano. Una persona che abbiamo conosciuto diversi anni fa, cambia e non cambia, rimane celata seppur in bella mostra. Ciò che abbiamo conosciuto non è altro che una porzione del suo tempo irrimediabilmente passata. Questo suo passato, nel suo agire pratico e mentale, non è altro che una tendenza al futuro, una fuga dal presente verso il futuro. In questa fuga, una persona è tutto ciò che è stata e tutto ciò che pensa di essere in futuro: entro il corpo di questa fantomatica persona ci sono tutti i propositi e gli auspici del suo essere al passato. Nel mezzo ci stanno tutti i sotterfugi per fuggire dagli Altri, dal loro sguardo che ci rende ciò che siamo stati a noi stessi e che pregiudica ciò che saremo; nel mezzo ci sta una nudità scomoda dalla quale fuggire. Le persone sono sostanzialmente nostalgia di ciò che sono stati e di ciò che ancora non sono.

Lo sguardo nasconde gli occhi, sembra mettersi davanti a essi2. È il testimonio della presenza della Libertà degli Altri; la prova tangibile che la Libertà è de facto un concetto che limita il soggetto mettendo a nudo la sua indecifrabilità. Ogni uomo libero ha un solo limite e lo si ha nel momento in cui il suo sguardo incrocia quello dell’Altro. In questo scambio di sguardi si è utopia per sé stessi e per l’Altro. Lo sguardo plasma le nostre pratiche e condiziona il nostro pensare; la libertà condensata in quello sguardo limita e ingabbia il mio cuore in una maschera di continenza3. Vengono a mancare le emozioni che danno misura, frenano l’analisi, legittimano l’arbitrio e creano il dinamismo. Per compiacere lo Sguardo sacrifichiamo tutte le abilità del mestiere4.

Lo sguardo è un legame senza distanza5; un atto di trascendenza, ed al contempo è l’atto che smaschera questa trascendenza: lo sguardo degli altri ci rende ciò che siamo ai nostri occhi. Essere visti ci fa esistere agli occhi degli altri ma, cosa più importante, ci fa essere ai nostri occhi; ci permette di percepirci, ci fa sentire esistere. Ci limita. Per questo agli uomini che vivono ed impersonano i contrasti del loro tempo e del loro essere si deve più di quanto si immagini: essi, più d’altri, sono l’allegoria più riuscita ed universale della vita umana6.

Tutti i nostri cattivi pensieri vogliono diventare santi e giusti7 agli occhi dell’Altro e così si falsano. Il pensiero si libera dalla custodia che le cinge la bocca, spalanca la porta della continenza e si riversa8 mondo esterno, si trasvaluta, si maschera davanti allo sguardo. Tutto ciò che appare non è, mentre tutto ciò che è non appare. Quindi Io come concetto irrisolvibile ma al contempo indissolubile; formato da cumuli di segni, gesti ed espressioni in tecnica mista in continua e perenne riformulazione, o meglio come una sorta di ‘Impossibile a divenire’. Innervato in ogni pennellata, come nel sangue che gocciola, nella forma, nel sole, luce, colore. Tuttavia in accordo, i modelli, i colori ed il mio Io9. Sentiamo il pensiero nascere in bocca10 e la potenza dalle mani e dall’intelletto e gli occhi sono al contempo limite ed infinito. Io come estensione e contrasto di natura e caos, sempre al di là della mia esistenza, al di là dei moventi e dei motivi del mio atto; sono libero11.

Salvatore Musumarra

Riferimenti e citazioni:
1. Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Canto della Notte.
2. Jean-Paul Sartre, Essere e Nulla, Lo Sguardo.
3. S. Agostino da Ippona, La Continenza, La bocca interiore del cuore.
4. Umberto Boccioni.
5. Jean-Paul Sartre, Essere e Nulla, Lo Sguardo.
6. Johann Wolfgang von Goethe, La teoria dei colori.
7. Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Dell’Uomo superiore
8. Libro Dei Salmi, Salmo 140, 3.
9. Paul Cézanne.
10. Tristan Tzara, Manifesto del Dadaismo.
11. Jean-Paul Sartre, L’esistenzialismo è un umanismo.

“Solo per pazzi” -essere uomo, essere lupo

Fosse profonda saggezza o schietta ingenuità, chi sapeva vivere così nell’attimo fuggevole, chi abbracciava così il presente e sapeva apprezzare ogni piccolo fiore sul margine della via, ogni piccolo valore dell’istante che fugge, doveva certo dominare la vita.

Leggere un libro talvolta aiuta a vedere le cose della vita da un’altra prospettiva e permette di entrare in contatto con se stessi attraverso la riflessione che le parole, via via susseguendosi, scatenano.

Alcuni libri possono cambiare la vita perché scavano nel profondo Io, arrivando a toccare la coscienza, risvegliando antichi sentimenti, sensazioni sopite, nascoste, dimenticate, dando voce alle immagini della nostra fantasia.

Il lupo della steppa di Hermann Hesse è uno di quei testi che entrano dentro, scivolano nell’anima e diventano un tutt’uno con essa.

Soltanto per pazzi’, ci dice Hesse prima che iniziamo a leggere il suo libro. Una dedica insolita che mi ha subito fatto pensare che lo scrittore avesse scelto il suo pubblico, sapendo già che solo dei “pazzi” avrebbero potuto calarsi nei panni del protagonista Harry.

Ma come non immedesimarsi in questo personaggio così attuale?

Un uomo bloccato e condizionato da un senso di impotenza che non gli permette di essere felice, caratterizzato da un profondo dissidio interiore tra la razionalità umana (ordine, cultura, spirito) e l’istintività del lupo (caos, passione).

Un contrasto che porta all’isolamento totale perché si vede l’impossibilità di riconoscersi nella società e di essere riconosciuti dalla stessa, in quanto essa limiterebbe la libertà di spirito dell’uomo e del suo essere una molteplicità di Io diversi.

Da quando lo scrittore “ci dà in mano” il manoscritto del protagonista “Memorie di Harry Haller” e il personaggio inizia a parlarci in prima persona di come un giorno qualunque, avesse sentito il

desiderio selvaggio di sentimenti forti,

per uscire dalla solita routine, non possiamo fare a meno di entrare in piena empatia con lui.

Il lettore, infatti, da questo momento inizia il viaggio attraverso la sua coscienza, alla ricerca del lupo che interiormente gli appartiene, cercando di capire chi esso sia.

Nel lupo della steppa avveniva questo: che nel suo sentimento faceva ora la vita del lupo, ora quella dell’uomo, come accade negli esseri misti, ma quando era lupo, l’uomo in lui stava a guardare, sempre in agguato per giudicare e condannare… e quando era uomo il lupo faceva altrettanto […] Specialmente molti artisti appartengono a questa categoria. Costoro hanno in sé due anime, due nature, hanno un lato divino e uno diabolico, e le loro capacità di godere e di soffrire sono così intrecciate, ostili e confuse tra loro come in Harry il lupo e l’uomo.

Un contrasto che vive anche l’uomo moderno, tra la rigidità delle condizioni imposte o scelte attraverso un gioco di morali condizionanti, e la necessità di essere animale, di vivere l’istinto, di seguire l’odore, la sensazione…l’indipendenza.

Eppure, è un circolo vizioso: quando il lupo raggiunge questa autonomia (o libertà), si rende conto che essa stessa è per lui una condanna, in quanto innaturale e questo lo porta all’isolamento perché nessuno, se non un pazzo, ha la capacità di condividere la sua vita siffatta.

Trovare un compromesso tra le due parti? Certo, sarebbe la soluzione per vivere nella coerenza con se stessi e con gli altri, ma l’uomo non può farlo perché è un essere in continuo divenire

è un tentativo, una transizione, un ponte stretto e pericoloso fra la natura e lo spirito, tra l’uomo e il lupo

L’uomo si trova, dunque, condannato a vivere nella società, immerso negli stereotipi del perbenismo che spesso sfociano nel qualunquismo, cercando la via di mezzo tra gli opposti che lo contraddistinguono.

Eppure nella vita arriva sempre il momento in cui ci si ritrova a fare i conti con se stessi e ad uscire, volenti o nolenti, dagli schemi, a liberare il lupo che è ingabbiato dentro di noi, come per il protagonista Harry che da un momento all’altro, grazie all’incontro fortuito con Hermine, si ritrova a vivere di istinto, di sensazione, di emozioni semplici ma forti: mangia, beve, balla, ride come non faceva da moltissimo tempo e solo grazie a lei.

Hermine è una donna non colta ma molto astuta che vive di passione e istinto ed è in grado di capire Harry dal primo sguardo e di scorgerne i suoi desideri più nascosti.

Questa Hermine l’ho avvertita come un grandissimo occhio che mi ha osservato mentre la leggevo, mentre cercavo di catturarla con l’immaginazione senza però riuscirci; è un personaggio che ci fa vedere, nelle lacerazioni di Harry, i nostri conflitti interiori che, anche se non lo vogliamo ammettere, ci appartengono.

Nonostante questa scoperta, o meglio, il riconoscere il nostro oscuro dualismo, riusciamo alla fine a trovare la via della salvezza proprio seguendo passo passo tutte le contorsioni positive e negative della vita di Harry: egli stesso comincia a capire che la soluzione risiede solo nella forza dell’umorismo, nel prendere la vita per quello che è, un gioco.

Lei deve imparare a ridere, questo è richiesto. Deve comprendere l’umorismo della vita, l’allegria degli impiccati. Deve imparare ad ascoltare questa maledetta musica della radio della vita e ridere di questo strimpellio.

E proprio alla fine di questo viaggio, il lettore, insieme ad Harry, si ritrova pronto per la vita, per affrontarla al meglio perché conosce ormai le regole del gioco e le sue contraddizioni; infatti, dopo l’excursus nel magico teatro solo per pazzi, Harry si rende conto che solo l’umorismo è la chiave di svolta per soprassedere la rigidità delle convenzioni e delle regole, perché

Vivere nel mondo come se non fosse il mondo, rispettare la legge standone al di sopra, possedere come se non si possedesse, rinunciare come se non ci fosse rinuncia: tutte queste esigenze si possono realizzare unicamente con l’umorismo.

Essendoci questa via d’uscita positiva dal mondo della ‘steppa’, Hesse ci tiene a precisare che il libro non tratta la storia di un uomo disperato, ma della guarigione dalla disperazione di un uomo che ha saputo credere nel potere della casualità e si è fatto trasportare dalla passione, riuscendo a capire in extremis che la felicità non può essere data dal rinnegare il proprio dualismo ma dall’assecondarlo.

L’insegnamento forte da trarre da questo capolavoro è che di fronte alla complessità della vita, nelle sue infinite contraddizioni, tra gioie e disgrazie, non bisogna mai prendersi troppo sul serio, perché l’uomo stesso è contraddittorio, caratterizzato da infiniti Io, infinite personalità diverse ed opposte tra loro e solo se si è consapevoli di questa condizione si riuscirà a vivere serenamente.

A colui che abbia visto la scissione del proprio io facciamo vedere che può ricomporre i pezzi in qualunque momento e nell’ordine che più gli aggrada, raggiungendo in tal modo una varietà infinita nel gioco della vita. Come il poeta con un pugno di personaggi crea un dramma così noi con le figure del nostro io sezionato costruiamo gruppi sempre nuovi con nuovi giochi, nuove tensioni, nuove situazioni. (…) La figura che oggi diventa insopportabile, domani sarà secondaria e innocua. La cara figurina che per un po’ le è parsa condannata alla disdetta, nel gioco successivo la farà principessa. Buon divertimento!

Valeria Genova

[citazioni dal testo Il lupo della steppa di Hermann Hesse]

Uno, molti, Goethe

Di Goethe si sono scritte montagne di libri, di conseguenza il mio articolo non vuole soddisfare lo studioso quanto pungolare il curioso. Per fare ciò mi occuperò di un tratto particolare di una delle innumerevoli tematiche possibili, ossia la dialettica fra unità e molteplicità, vale a dire tra arte e vita, nel poeta e nella poesia. Si avverte infatti una tensione forte che attraversa non solo il contenuto degli scritti ma anche la forma, non solo il gusto del poeta ma anche le scelte. Lo stile, in ogni opera consolidato e guidato da mano esperta, varia; si alternano la prosa, ponderata dal ritmo audace e insieme sobrio, e la poesia, dalla vocazione universale, grandiosa ed eternante. Questa è la chiave della grandezza di Goethe, grandezza che investe in tutto l’uomo e le sue mille forme.

 
Goethe miscela con studiata sapienza elementi provenienti da molteplici tradizioni spingendo le sue radici più a fondo. Dapprima, come si narra nel romanzo di formazione ”Gli anni di pellegrinaggio di Wilhem Meister”, viene l’interesse per il dramma e il teatro, per Shakespeare, per la classicità greca e latina accompagnato da una storicamente precoce sensibilità a leggende e miti tedeschi ed europei, fino ad approdare in oriente. Questa eterogeneità di modelli può risultare di difficile utilizzo persino da colui che se ne serve, esponendolo sempre al pericolo dell’eccesso, ossia del kitsch. Ad esempio, un orecchio mediamente allenato può notare l’intrinseca disorganicità del Faust eppure deve ammettere che l’insieme è di felice riuscita come poche opere dello spirito umano. L’opera, che nasce come parodia di un certo ambiente accademico, subisce nei sessant’anni di gestazione l’influsso delle mille forme assunte dal poeta, venendo a rassomigliare al frutto di un popolo più che di un solo uomo, di un’esplosione di forze più che di accumulo. Di contro abbiamo i dolori del giovane Werther, opera giovanile, scritta di getto in uno sforzo quasi estatico di sole quattro settimane: ferita d’amore ancora brutalmente aperta. E ancora le liriche, i trattati di estetica, scienze naturali e architettura. Chi mai si aspetterebbe che il grande poeta stimasse tanto Pacioli da definire la sua scoperta, la partita doppia, un massimo risultato dell’umanità [1].

 
Se finora si sono mostrati gli elementi di molteplicità mostriamo ora la tendenza accentratrice: Goethe fu al contempo colui che tuonò “non devono prevalere” in riferimento alle nascenti tendenze romantiche: come un Giove respingeva e vinceva l assalto dei giovani titani portandoli al silenzio. Poiché l’arte è ciò che si erge solida sul tempo, essa non può permettere di essere superata. La maledizione contro i romantici, esula il diretto obiettivo e minaccia la possibilità estetica del nuovo. Desertificando l’arte contende a sé il mondo, e la forza del poeta diviene sommo pericolo. Questa tendenza totalitaria è in lui accompagnata talvolta da una tolleranza che sa poco di umanesimo e rassomiglia più al silenzio dell`icona del dio invocato nella preghiera; ai molti giovani adoranti che gli si presentavano, egli non volle dar la soddisfazione del consenso e al più si limitava con un certo imbarazzo ad esortare ad uno studio frequente e solerto.

 
Goethe, l’uomo preso da questa tensione, dovette sforzarsi all’armonia e all’equilibrio, fu abbastanza savio da scindere il Werther da sè, ossia l’arte dalla vita, si servi dell’ironia per autodifesa. Il poeta uscirà vincente: sprezzante potrà invitare l’umanità a seguirlo senza rompersi il collo.

Francesco Fanti Rovetta

[immagine tratta da Google Immagin]

 

NOTE

[1]Fra Luca Benedetto da Pacioli (1445-1517), si occupò di teologia, matematica e teoria economica. In quest’ultimo campo fu inventore della partita doppia, tecnica che agevola il conto di entrate ed uscite, adottata oggi in tutto il mondo.

Friedrich Hölderlin: ritratto di una vita

Pochi poeti sanno sacrificare la vita sull’altare della poesia, pochi si affidano ad essa, la sanno ascoltare e ce la indicano aprendo spazi tra il silenzio e il rumore.

Tra questi brilla Friedrich Hölderlin, nato in provincia sveva, egli cresce nel chiuso ambiente pietistico, soffrendo la perdita di due padri prima del decimo compleanno: il giovane verrà adottato dalla natura, che il poeta non cesserà di cantare. Essa viene vissuta come il luogo dell’assenza di nomi -che è assenza di forme- di quei nomi che gli uomini si danno come fosse in loro potere di nominare, nella viva voce del poeta:

 

certo allora non vi chiamai

coi vostri nomi, come voi

non mi chiamaste mai

col nome che gli uomini si danno

quasi si conoscessero:

 

ma conobbi voi meglio

di quanto mai conobbi gli uomini:

io capii il silenzio del Cielo,

io non ho mai capito la parola umana[1]

La sua vita fu condotta in continuo dissidio con l’amata madre che per lui aveva già deciso il ruolo di pastore protestante. Contro questa rivendica sommessamente la volontà di svolgere la “professione più innocente”: il poeta, il giocoliere della parola.
Finiti gli studi entrò nel grandioso ambiente dell’idealismo di Jena. Compagno di studi e stretto amico di Hegel e Schelling. Intrattenne poi uno stretto rapporto con Schiller, il quale gli presentò Goethe. Questi, chiamato a giudicare alcune poesie di Hölderlin, le accolse con indifferenza rifiutandogli il ruolo di gesprächspartner ossia di (degno) “interlocutore”.
Le prime delusioni, il mancato riconoscimento dei pari, l`ombra minacciosa della madre con il suo strascico di pretese, l’ insuccesso dell’ Iperione che Hölderlin considerava come il romanzo del riscatto, il fallimento del progetto di una rivista che avrebbe dovuto raccogliere i massimi poeti tedeschi dell’epoca, portarono il poeta in un vortice che culminò con la morte di Susette Gontard,chiamata nelle liriche e nell’ Iperione Diotima, nome non casuale che mostra quanto l`influsso platonico abbia pesato nella maturazione della concezione estetico hölderliniana fino a dichiarare:

“Santo Platone, perdona! Molto si è peccato contro di te! ” [2]

A questi episodi seguirono i primi eccessi di follia, gli amici più stretti, forse sottovalutando lo stato di malattia, se ne disinteressarono, abbandonandolo in una struttura psichiatrica. Verrà prelevato nel 1807 da un certo Zimmer, un falegname mosso a riconoscenza a seguito della lettura dell’Iperione.

L’umanità di questo sconosciuto stupisce non meno dell’opera più riuscita di Schiller, o di una lezione di Hegel e ci rivela l’humus segreto su cui è potuta fiorire una delle più grandi generazioni di uomini che la terra abbia conosciuto.

Hölderlin si spegnerà dopo 36 anni di ritiro nella casa del falegname, senza essersi rimesso dalla follia, avendo continuato a scrivere poesie firmate con nomi fittizi (il più frequente fu Scardanelli, ma anche Salvator Rosa e altri) e datate in secoli precedenti.

Chiunque voglia narrare sommariamente la vita del poeta incontra almeno due principali problemi da affrontare: il primo è dovuto alla necessaria operazione di smitizzazione e repulisti di tutti quegli autori caduti in letture violentemente ideologiche, come nel caso di Nietzsche – autore che col nostro ha più di qualche sporadica somiglianza – il secondo è invece di natura più ostica e consiste nel rintracciare quelle vicende e traumi che Hölderlin sfrutterà come altissima fonte della sua poetica.

Lo sforzo è di eliminare nella vita la prosa dalla poesia e le contingenze dalle necessità artistiche, dove per quest’ ultime si intendono quelle vicende a cui il poeta dona senso cantandole, riscrivendole in un destino, sottraendole al caso.

Hölderlin, intingendo la penna nel proprio sangue prima di scrivere, trae la sua forza poetica, in un’alternanza di armonie e dissonanze, rimanendo fedele al sacro en kai pan [3].

Alla costante ricerca di trovare la propria tonalità originaria, il proprio segno poetico, il poeta si muove tra ambienti arcadici e abissali anticipazioni dal sapore novecentesco, come nella poesia Mnemosyne i cui primi versi recitano:

 

“Noi siamo un segno non significante,

indolore, quasi abbiamo perduto

nell’esilio il linguaggio” [4]

.

Francesco Fanti Rovetta

 

NOTE

[1] F. HÖLDERLIN, Quando ero ragazzo, Liriche, traduzione di E. Mandruzzato, 1993

[2] F. HÖLDERLIN, Iperone, prefazione alla seconda stesura. Il modo in cui viene connotato Platone in poco meno di una riga è massimamente espressiva del clima entro cui avviene la ricezione hölderliniana dei temi platonici: da un lato derivante la cristianizzazione del filosofo greco, dall’altro attraverso la lettura e traduzione rinascimentale di Marsilio Ficino.

[3] Dal greco, letteralmente: “uno e tutto”, classica formula panteistica.

[4] F. HÖLDERLIN, Mnemosyne, Liriche, traduzione di E. Mandruzzato, 1993

 

Variazioni sul ciclo di vita di una farfalla

La storia che andrete a leggere, proprio come le precedenti, è di pura invenzione. Questa volta ho scelto però di usare un racconto in prima persona perché è forte nel permetterci di entrare nella storia e nel poterci immedesimare nel personaggio. È difficile credere all’anoressia mentale. Spesso chi la osserva da fuori non riesce a capire il disagio e l’avversione provati verso il cibo. Entrare nel cuore del problema può permetterci di cogliere delle sfumature prima ignorate e di leggere poi la spiegazione più scientifica secondo un’altra ottica.

 Oggi e Venerdì 15 Agosto leggerete i due capitoli della storia. Read more

William Turner (Londra, 23 aprile 1775 – Chelsea, 19 dicembre 1851)

Sublime, dal latino Sublimis, è la manifestazione del bello e del grande, nel loro più alto grado.

Il Sublime trascina gli ascoltatori non alla persuasione, ma all’estasi: perché ciò che è meraviglioso s’accompagna sempre a un senso di smarrimento, e prevale su ciò che è solo convincente o grazioso, dato che la persuasione in genere è alla nostra portata, mentre esso, conferendo al discorso un potere e una forza invincibile, sovrasta qualunque ascoltatore.

Pseudo Longino, Trattato del sublime

 

Bello e sublime sono entrambi oggetti di un giudizio estetico e quindi hanno alcuni aspetti in comune; ma, più che questi aspetti, saltano agli occhi le differenze considerevoli: il bello è legato alla forma e alla qualità, il sublime alla mancanza di forma e quantità.

Immanuel Kant, Critica del giudizio

L’artista che più rappresenta l’estetica del Sublime è William Turner.

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