Giustizia e forza tra Rousseau e Pascal

In natura sopravvive chi ha i mezzi migliori. Che si tratti di forza in senso stretto o di altre caratteristiche che possono esser considerate tali in senso più generale – come un efficace mimetismo o la secrezione di sostanze deterrenti – l’osservazione dei fenomeni naturali ha prodotto l’idea di “legge del più forte”. Questa espressione, però, se trasposta dal contesto naturale a quello sociale rischia di essere facilmente male interpretata e di legittimare atteggiamenti dispotici nei contesti più disparati: mobbing sul lavoro, bullismo nelle scuole, violenze in contesti familiari, venendo meno a quella che probabilmente è la caratteristica fondamentale della società, e cioè la tutela del più debole.

Nel Diritto del più forte (terzo capitolo del primo libro de Il contratto sociale), Rousseau si propone di mostrare l’incomprensibilità della nozione di “diritto del più forte” tracciando una netta distinzione tra la nozione di forza e quella di diritto. Se infatti ammettiamo la validità di questa idea, se accettiamo che il diritto sia un’istanza subordinata alla forza e dipendente da essa, ne deriva che il più forte è legittimato nel suo soverchiare il più debole, e che chi ha la forza di imporsi lo faccia anche a buon diritto. Tuttavia in questo caso il diritto non aggiunge nulla alla forza: il più forte non ha certamente bisogno di questa legittimità per imporsi, piuttosto egli lo fa in virtù di questa sua natura stessa; il più debole, dal canto suo, non si sottometta per dovere, bensì per necessità. Recita Rousseau: «Che un brigante mi sorprenda al limitare di un bosco: non soltanto dovrò per forza dare la borsa, ma, quando potessi sottrarla, sarei in coscienza obbligato a donarla? Perché, in fin dei conti, la sua pistola è sempre una potenza» (J.J. Rousseau, Du contrat social, 2010).
Da questo testo emergono dunque principalmente due idee. Innanzitutto la nozione di diritto e quella di forza sono nettamente distinte, e l’espressione “il diritto del più forte” equivale in fin dei conti a “la forza del più forte”, poiché il diritto non aggiunge nulla al potere d’azione della forza. La seconda, più sottile, è che il diritto non costringe materialmente, bensì obbliga, cioè agisce a livello di coscienza morale. La forza s’impone da sé, il diritto chiama.

Questa distinzione mirabilmente condotta stronca una volta per tutte i tentativi di legittimare un sopruso sulla base della forza (sono più forte, quindi è giusto che comandi io), perché la legittimazione avviene sul piano del diritto, e non di una situazione di fatto. Ciò sembra risolvere una serie di questioni spinose, ma in realtà proietta dietro sé un’ombra, di cui sicuramente Rousseau era consapevole, che era già emersa con fascino nel pensiero di Pascal in Giustizia, forza1.
In questo testo Pascal, che riflette sulla relazione tra queste nozioni, mette in luce la problematicità della distinzione di cui sopra. La giustizia necessita della forza, perché da sé non si impone: essa è ciò che legittima o meno uno stato di fatto. Alla forza, dal canto suo, serve esser giusta per legittimare il suo esercizio, per non essere tirannica. Tuttavia, se da un lato «la forza è facilmente riconoscibile», proprio in virtù della sua natura, dall’altro «la giustizia è soggetta a disputa»: di ciò sono testimoni gli innumerevoli dibattiti sulla natura della giustizia, da Platone ai giorni nostri. Di questa ambiguità ha storicamente approfittato la forza, imponendo le sue ragioni e dichiarando (con forza) d’esser giusta. «Così – conclude Pascal – non potendo fare in modo che ciò che è giusto fosse forte, si è fatto sì che ciò che è forte fosse giusto».

Benché l’analisi di Pascal abbia una conclusione piuttosto sconfortante, ci sembra di poter trarre un insegnamento importante da queste lezioni. Il rischio di un sopruso è sempre dietro l’angolo, e le ragioni emergono lampanti da questi due testi. La giustizia non può essere imposta, la sua dimensione essendo quella morale: essa agisce a livello di coscienza individuale. Una regola imposta forzosamente è necessariamente tirannica, poiché essa deve essere l’espressione del senso di giustizia di una comunità, sia essa un gruppo di colleghi di lavoro, una classe scolastica oppure uno Stato. Ognuno, nella vita di tutti i giorni, ha la responsabilità di far esistere la giustizia nel contesto in cui vive, e ciò, come si è visto, non può essere imposto da fuori, ma deve uscire da dentro. Ecco perché invece di seguire ciecamente una regola comportandoci così da sudditi, è importante, seguendo il proprio buonsenso, individuare il significato della stessa, interiorizzarlo ed agire come chi sta al mondo con la consapevolezza del senso di ciò che fa. Una società giusta non è separabile dalla responsabilità dei propri cittadini.

 

Pietro Bogo

NOTE
1. Si tratta del novantaquattresimo pensiero contenuto in Pensieri. Le brevi citazioni che seguono sono tratte da questo pensiero.

 

[Photo credit Tingey Injury Law Firm via Unsplash]

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L’impossibile scelta tra pace e giustizia

Non è mai stato facile essere pacifisti, né è mai stato immediato capire cosa fosse giusto fare, dire, pensare al momento in cui grandi avvenimenti storici arrivano a sconvolgere una quotidianità che tenta ingenuamente di considerare la propria relativa tranquillità come eterna.

Lo sapeva bene Lev Tolstoj, che fu addirittura scomunicato dalla Chiesa russa ortodossa in merito alle sue posizioni fieramente pacifiste. Non solo nei suoi romanzi, ma anche e soprattutto in altri scritti meno conosciuti, in Contro la guerra russo-giapponese, nella lettera allo zar del 1881 e in quelle al filosofo Hugo Engelhardt (1882-1883), nei saggi della maturità La mia fede e Il regno di Dio è in voi, Tolstoj insiste fermamente sulla necessità di non agire mai attraverso la violenza, attraverso le armi, attraverso la forza, fosse anche per difendersi. Il mondo nuovo, dice, potrà nascere solo da un rifiuto radicale di ogni forma di conflitto, che avrà modo di “contagiare” l’umanità come fosse un’epidemia.

Di idee radicalmente opposte era il filosofo, contemporaneo e compatriota eppure estremamente distante, Ivan Il’in. Monarchico e hegeliano, Il’in fu un fervente sostenitore dello zar, e fu costretto alla fuga quando Lenin e l’Armata Rossa presero il potere durante la Rivoluzione di Ottobre. In numerosi articoli e interventi – e soprattutto in una delle sue opere più famose, Resistenza al male con la forza (1952)  Il’in deride i fiacchi e inconcludenti appelli per la democrazia del mondo europeo verso l’Unione Sovietica e insiste che, al momento in cui il male si presenta, è dovere morale reagire a esso con la forza, col conflitto armato, con la violenza. Cercare la pace, in questo caso, sarebbe un atto di complicità col male che andrebbe invece sradicato.

Non è un caso che i due autori presi in causa siano entrambi russi. Impossibile non tentare in qualche modo di riportarne le riflessioni a un’attualità che, ormai da quasi un anno, bussa prepotentemente alle nostre porte, condizionando la nostra (ora lo sappiamo) fragile quotidianità di lavoro, famiglia, svago, in modi che non avremmo ritenuto possibili fino a poco fa.

Ma chi ha ragione? Tolstoj o Il’in? Cosa fare, dire o pensare per ritenersi “dalla parte giusta”? In un dibattito pubblico che si arrocca sempre più e sempre peggio in tifoserie da stadio, in cui ogni barlume di pensiero critico e sistema complesso è scartato come inutile sovrappiù, dove schierarsi per essere a posto con la propria coscienza? Questa guerra nel cuore dell’Europa somiglia da vicino ai test che gli studenti universitari discutono nelle ore di Filosofia Morale. Il più famoso è senza dubbio il “dilemma del carro ferroviario” di Philippa Ruth Foot, che invita l’ascoltatore a scegliere se lasciare che un treno lanciato a tutta velocità travolga cinque persone sui binari, o deviarne la corsa scegliendo di ucciderne una sul binario a fianco. Non agire e lasciare che cinque persone muoiano, o intervenire attivamente ed essere responsabili materiali e morali della morte di un innocente?

La questione è la stessa in politica estera, lo stesso aut aut che lascia poche alternative. O continuiamo a inviare armamenti sempre più sofisticati, contribuendo attivamente al prolungamento di una guerra che sta mietendo migliaia di vittime, o ci facciamo da parte, rifiutandoci di intervenire in nome della pace, lasciando così che la fiera popolazione ucraina sia travolta e fagocitata dal regime russo.
Non c’è un’alternativa che sia eticamente soddisfacente, non c’è una ricetta o una “mossa” che garantisca la propria appartenenza alle schiere dei giusti in contrapposizione a una massa di “cattivi” da poter additare a cuor leggero sui social. C’è il destino di due paesi in gioco, dell’intero pianeta se l’escalation continua, milioni e milioni di vite uniche e non rimpiazzabili sulle quali non è possibile fare secondi tentativi.

In una simile situazione, è la coscienza di ognuno che decide quale sia il “bene superiore” da perseguire, che sia il pacifismo di Tolstoj o l’interventismo di Il’in. Basta ricordarsi che il Bene, quello vero, è già da un pezzo fuori dalla rosa di scelta.

 

Giacomo Mininni

 

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Una breve riflessione sul pensiero critico

La nostra cultura contemporanea concorda pressoché unanimemente sull’importanza del pensiero critico. Ma precisamente qual è lo scopo di questa operazione intellettuale? qual è il risultato empirico-sociale che ci attendiamo? e perché ne sottolineiamo frequentemente la necessità? Al fine di non sottovalutare la rilevanza di questi quesiti scelgo qui di seguito di richiamare e commentare una particolare scena cinematografica del film Codice d’onore del 1992 (titolo originale A Few Good Men).

Mi riferisco alla deposizione al banco dei testimoni del Caporale Jeffrey Barnes (interpretato da Noah Wyle) a cui l’avvocato d’accusa, il Capitano Jack Ross (interpretato da Kevin Bacon) mostra un paio di libri per i Marines allo scopo di fargli ammettere l’inesistenza procedurale del Codice Rosso. In particolare, l’avvocato d’accusa, strutturando il suo ragionamento deduttivo sulla base della premessa che solo ciò che è presente e definito in un libro è potenzialmente applicabile, ricorre alla testimonianza di Barnes sull’assenza del Codice Rosso come argomento di testo, per persuadere la Giuria della colpevolezza dei due Marines che avrebbero così agito indipendentemente da un ordine militare.

A ciò l’avvocato difensore, il Tenente Daniel Kaffee (interpretato da Tom Cruise) interviene con successo, accogliendo sì la stessa premessa ma in un ragionamento logico finalizzato a evidenziarne la falsità: se solo ciò che è presente e definito in un libro è potenzialmente applicabile come si può spiegare la fruizione concreta del servizio mensa, di cui si accetta, concordemente, l’assenza di una sua indicazione scritta? «Allora non capisco. Come sapeva dov’è la mensa se non è scritto nel manuale?» chiede al testimone con simulato stupore il Tenente Kaffee.

A questo punto, esposto questo dettaglio cinematografico, vorrei evidenziare due aspetti della nostra razionalità per poter poi articolare una breve riflessione sul nostro pensiero critico.

Il primo aspetto riguarda la coerenza logica, che come si evince dalla scena descritta è sì necessaria alla costruzione congruente di un ragionamento razionale ma non è di per sé determinante all’esito vincente di una argomentazione nel momento in cui le premesse di base individuate risultino discutibili o persino totalmente false. Nel dibattito cinematografico il non costituirsi come argomento di testo scritto non equivale a constatare e a sancire la reale inapplicabilità del Codice Rosso.

Il secondo aspetto, delicato perché ambivalente, riguarda l’uso intenzionale della logica. Il Capitano Ross e il Tenente Kaffee mirano entrambi a ottenere il favore del verdetto della Giuria e costruiscono i loro discorsi a sostegno rispettivamente dell’accusa o della difesa degli imputati.  Se generalizziamo questa caratteristica processuale, possiamo sostenere che, se è vero che siamo vincolati dalle medesime regole della logica razionale, è altrettanto vero che, siamo proprio noi i fautori della sua progettazione e selezione argomentativa.

Ora riepilogando, se la coerenza logica è il requisito obbligato di una argomentazione ma non la garanzia di per sé della sua veridicità – e se la parzialità, come l’obiettività, sono più propositi della nostra volontà che qualità intrinseche della razionalità, tanto che l’aggettivo ‘logico’ non è automaticamente sinonimo di ‘giusto’ – possiamo renderci maggiormente conto delle implicazioni effettive del pensiero critico. Esso ci conferisce l’abilità di decostruire tutte quelle affermazioni che appaiono convincenti senza per questo essere necessariamente vere, mostrando per esempio l’erroneità dei presupposti che sono i fondamenti, potenzialmente sempre vulnerabili, dei nostri discorsi. Inoltre e soprattutto, il pensiero critico ci consente di esperire una certa autonomia di pensiero. Ogniqualvolta esso individua e comprende la probabile posizione prospettica altrui acquista di rimbalzo la consapevolezza del proprio intendimento e la facoltà del proprio intento.

Detto questo, in una realtà intricata come la nostra, l’importanza del pensiero critico eccede di gran lunga l’appagamento individuale della propria libertà di pensiero. Esso ha piuttosto un duplice valore strategico: da un lato, ci permette di non subire inconsapevolmente l’abilità persuasiva altrui e dall’altro, ci consente di strutturare più consapevolmente il nostro intento, obiettivo o parziale che sia. In questo senso lo scopo del pensiero critico è anche lo scopo dei nostri valori e delle nostre intenzioni. Il risultato empirico-sociale che attendiamo non è quindi per nulla scontato poiché è la nostra stessa libertà a contemplare la molteplicità delle possibilità. Forse, la frequenza con cui sottolineiamo la necessità del pensiero critico testimonia la nostra generale difficoltà ad argomentare in favore di una società globale migliore.

Ecco che allora riflettere sul pensiero critico significa chiedersi:

  • quanti presupposti so individuare?
  • quanta parzialità sono in grado di percepire o ipotizzare?
  • e soprattutto, quanto riesco a imprimere nella precisione logica della ragione il mio senso personale di giustizia?

 

Anna Castagna

 

[immagine tratta da Unsplash]

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L’utile del più forte. La giustizia nella Repubblica di Platone

Leggendo i dialoghi platonici, chi non ha mai sognato almeno una volta di essere Trasimaco? Sfacciato e insolente, affronta Socrate di pieno petto e non ha paura di denunciare la presunzione del metodo maieutico, che è per lui del tutto inadeguato a ricercare la verità. Perché in fin dei conti esso rappresenta solamente una pretesa con cui Socrate cerca di ricevere vani complimenti, grazie alla bravura con cui sa confutare le risposte che gli vengono proposte in successione.

Ma facciamo un passo indietro e cerchiamo di capire di chi e di che cosa stiamo parlando. Nel suo dialogo più famoso, la Repubblica, Platone si adopera per definire che cos’è il giusto e la giustizia, in modo da poter fornire un modello di armonia sia per la città sia per l’anima. Come sempre, il dialogo è incentrato sulla figura di Socrate che si ritrova a conversare su questo difficile argomento insieme a Cefalo, Glaucone, Polemarco e Trasimaco. Se i primi tre personaggi si mostrano affascinati dalla dialettica e dall’eleganza dei modi retorici di Socrate, Trasimaco non si lascia intimorire e cerca lo scontro diretto con il filosofo per mostrare la giustizia nella sua nuda e cruda verità.
E infatti lo scontro su questo tema non tarda a realizzarsi. Ma a differenza di quanto ci si aspetta, Trasimaco riesce realmente a mettere in difficoltà Socrate, che deve utilizzare un piccolo trucco per liberarsi delle sue obiezioni. Forse un po’ provocatoriamente, forse un po’ ingenuamente, Trasimaco afferma che la giustizia non è altro che ‘l’utile del più forte’, poiché ogni governante (di una tirannide o di una democrazia poco importa) emana leggi che sono vantaggiose per sé stesso. In questo modo, chi comanda determina ciò che è giusto per i cittadini assoggettati al suo potere, che saranno poi puniti se non rispetteranno le leggi decretate giuste.

Questa concezione della giustizia è in realtà composta da due parti complementari. In primo luogo, se la giustizia è l’utile del più forte ciò significa che è giusto ciò che risulta conforme alla norma sanzionata dalla legge. Questo tipo di convinzione si chiama positivismo giuridico e ritiene, appunto, che l’unico diritto sia dato dalla legge del sovrano, che determina il giusto a cui i sudditi devono obbedire. Ma, allo stesso tempo, la legge imposta da chi detiene il potere ha lo scopo conservare il potere stesso del sovrano. La norma, quindi, rappresenta l’interesse di chi detiene la forza. Così la condotta giusta dei cittadini è finalizzata all’interesse del più forte, cioè alla conservazione del potere da parte di chi già lo possiede. Questo vuol dire che oltre al positivismo giuridico, Trasimaco è portatore anche di un positivismo della forza, secondo cui è la forza a legittimare l’emanazione di una norma.

Di fronte all’irriverenza di Trasimaco e alle sue tesi realiste, Socrate si trova effettivamente in difficoltà, forse perché anche per lui il legame così intimo tra la giustizia e la forza è impossibile da rovesciare direttamente. E, infatti, non sapendo come criticare la verità esposta da Trasimaco, Socrate deciderà di limitare la portata della sua definizione. Anziché riguardare ogni forma di potere, Socrate identifica l’utile del più forte con la sola figura del tiranno, estraneo a ogni norma di legge e volto all’oppressione e allo sfruttamento di tutti.
Ma, come abbiamo già detto, il legame che Trasimaco porta alla luce tra la giustizia e la forza è molto più profondo e complesso. Esso rappresenta un rapporto che non concerne solamente quelle forme di potere totalmente ingiuste ma tutte quante, poiché sempre il potere mira alla propria conservazione.

Oggi più che mai una simile tesi di dimostra attuale, perché, dalla politica all’economia passando per l’educazione, non troviamo altro che una forza che per inerzia tenta di mantenersi in vita.
Ma cosa possiamo fare contro tutto ciò? Trovare una soluzione non sembra facile, ma la filosofia è anche questo, uno sforzo propositivo che cerca nuove soluzioni finora rimaste impensate. Contro l’ineluttabilità di questo legame, probabilmente, l’unica cosa che ci è possibile fare è creare delle condizioni sociali che rispettino il più possibile l’interesse della comunità; è produrre degli spazi fisici e metaforici in cui il bene comune si possa esprimere limitando la bramosia individuale.

 

Gaia Ferrari

 

[Photo credit Tingery Injury Law Firm via Unsplash]

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Trapianto e donazione d’organi: dialogo aperto sull’anonimato

Marco Galbiati è il papà di Riccardo, un ragazzo di 15 anni, morto per un arresto cardiaco nel gennaio 2017. Da allora questo padre, assieme a tanti altri genitori, mariti, mogli, figli, fratelli e sorelle di donatori d’organi, si batte per derogare all’obbligo di anonimato del donatore o del ricevente qualora entrambe le parti lo desiderino, nonostante il divieto delle norme in vigore nel nostro Paese.

Infatti, in Italia, la legge n. 91 dell’1 aprile 1999 (art.18, comma 2) sancisce che “il personale sanitario e amministrativo impegnato nelle attività di prelievo e di trapianto è tenuto a garantire l’anonimato dei dati relativi al donatore ed al ricevente”.

Tale norma, in linea con la deontologia medica, sancisce un divieto che fa riferimento solo al personale sanitario, ma non si esprime circa eventuali contatti tra i familiari dei donatori e i riceventi.

Chi ha ricevuto gli organi, da chi li ha ricevuti? Si tratta di una domanda legittima e comprensibile tipica sia di chi acconsente alla donazione dopo la perdita di un familiare, sia di chi grazie a quell’organo donato torna a vivere.

A questo livello la medicina, la psicologia e la bioetica, però si dividono: chi ritiene che la condivisione tra familiari del donatore e trapiantato possa essere un aiuto per le persone che lo hanno vissuto, e chi ritiene che in realtà quello che accade nella psicologia delle famiglie coinvolte sia molto più complesso e problematico.

A tal proposito, il Centro Nazionale Trapianti di fronte alle richieste di deroga dell’anonimato insiste sul fatto che quest’ultimo sia, invece, elemento necessario tanto per la tutela dei familiari del donatore, soprattutto per evitare la comparsa di proiezioni distorte nei confronti di chi ha ricevuto gli organi del proprio caro, quanto per chi ha ricevuto l’organo.

Infatti, il trapiantato è una persona che ha la possibilità di ritornare al vita e che inevitabilmente sviluppa un profondo sentimento di gratitudine nei confronti del donatore che gli psicologi chiamano vincolo di riconoscenza. Ecco perché il principio dell’anonimato si pone a tutela del ricevente, il quale potrebbe sviluppare dipendenze nei confronti di chi gli ha permesso di continuare a vivere oppure subire pressioni di diversa natura (relazionali, economiche ecc).

Di conseguenza la rete trapiantologica italiana, ad oggi, si “limita” a mettere a disposizione un’equipe di psicologi a sostegno nell’elaborazione del lutto e un servizio informativo per rendere noto ai familiari del donatore quali organi sono funzionanti e, nei casi in cui lo si richieda, le caratteristiche generali del ricevente (età e sesso).

In ogni caso, a fronte delle petizioni lanciate sul tema, il Centro Nazionale Trapianti ha ritenuto necessario analizzare la questione non solo dal punto di vista strettamente medico-psicologico, formulando un quesito al Comitato Nazionale di Bioetica circa l’opportunità di superare l’anonimato delle famiglie di chi dona e chi riceve gli organi. 

A tale riguardo, infatti, lo stesso Comitato il 27 settembre 2018 ha pubblicato un nuovo parere dedicato al tema della “Conservazione dell’anonimato del donatore e del ricevente nel trapianto di organi”. Il Comitato ritiene necessario mantenere il principio dell’anonimato nella fase precedente al trapianto degli organi al fine di conservare i requisiti di equità basati su: criteri clinici, priorità nella lista d’attesa ecc, e nell’intento di impedire eventuali ricatti, manipolazioni o coercizioni.

Nelle fasi successive alla donazione, a differenza di quanto previsto dalla legge 91/1999, il  Comitato si esprime positivamente rispetto alla possibilità di eliminare l’obbligatorietà dell’anonimato, a condizione però che entrambe le parti siano d’accordo, che sia stato firmato un consenso informato valido e che sia passato un tempo sufficiente per compiere delle scelte ponderate da parte di tutti i soggetti coinvolti.

Il Comitato individua inoltre la necessità di una struttura terza, nell’ambito del sistema sanitario, responsabile della valutazione e della gestione del contatto tra donatore e ricevente in modo tale che sia assicurato il rispetto dei principi cardine della medicina dei trapianti (privacy, gratuità, giustizia).

Successivamente e in conseguenza al parere formulato dal Comitato Nazionale di Bioetica, il Centro Nazionale Trapianti ha fornito disponibilità e supporto tecnico nell’intraprendere un eventuale iter legislativo volto alla modifica della Legge 91/1999.

Personalmente ritengo che la rimozione dell’anonimato sia una possibilità eticamente giustificata. Reputo inoltre che la conoscenza dell’identità dei donatori e dei trapiantati debba avvenire in presenza di determinate condizioni, la condizione fondamentale essendo quella relativa al riscontro di un equilibrio psicologico degli interessati tale da permettere loro di interpretare ed assimilare in maniera obiettiva il significato che il trapianto può acquisire dal punto di vista della continuità dell’identità personale.

Infatti, nel caso specifico della donazione di organi, può risultare complesso discernere in modo netto l’identità di un “tutto” (inteso come “persona” o “corpo”) da quella di una sua “parte” (nel caso specifico un “organo”). Si consideri, ad esempio, il caso in cui il cuore appartenuto a un ragazzo morto venga trapiantato in un’altra persona, salvandole la vita: è plausibile che la famiglia del donatore ritenga che una “parte” del proprio figlio continui a vivere in un’altra persona.

Allo stesso modo, la persona che ha ricevuto l’organo in dono potrebbe pensare che, in seguito al trapianto, la sua identità (biologica) sia stata “modificata”, in quanto “integrata” da una parte (organo) precedentemente appartenuta a qualcun altro.

Detto ciò, dunque, credo che debba essere possibile talvolta fare in modo che il desiderio da parte della famiglia di un donatore di incontrare la persona in cui, in qualche modo, continua a vivere una parte della propria persona cara, possa essere perseguito. Ritengo tuttavia indispensabile gestire e prevenire, all’interno della pratica clinica di sostegno psicologico, il rischio di sviluppare, dall’una o dall’altra parte, da donatori e da riceventi, aspettative e proiezioni deviate così come logiche identitarie distorte o patologiche.

 

Silvia Pennisi

 

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Elogio o biasimo della “normalità”?

La vita è colma di abitudini. Ogni giorno infrasettimanale si esce di casa più o meno alla stessa ora per raggiungere con tranquillità, tenendo presenti la viabilità, le condizioni atmosferiche e gli intoppi murphyani, il luogo di lavoro; nel weekend si è soliti trascorrere le serate con amici, probabilmente (soprattutto se non si abita esattamente in una metropoli) in un bar frequentato già in precedenza, oppure si tende a restare a casa per guardare un film avviluppati da una calda coltre, la mano immersa in una terrina colma di pop-corn. Con occasionali variazioni, sono insomma abitudini come queste a caratterizzare l’esistenza di ognuno, a dominare la quotidianità. E, in effetti, quest’ultima non esisterebbe senza azioni reiterate a scadenze regolari, prevedibili. Si può dire, anche, che la vita sarebbe molto diversa da come comunemente la si conosce se non ci fosse ciò che viene chiamata la “normalità”. Forse però è proprio questa che, mero costrutto logico elaborato per pensare la fatticità esistenziale, la realtà intera, può corrompere l’insieme di altri concetti logici mediante i quali ci si confronta appunto con la stessa fatticità esistenziale e con lo stesso reale. In tal caso, la normalità dovrebbe allora essere considerata in questo modo: come una prigione (dalle sbarre dorate, purtroppo) per il pensiero.

Ma che cos’è “normale”? È ciò che è ripetuto: ripetuto è l’andare a comprare i petti di pollo al supermercato; lo stringere a sé il partner e sussurrargli dolcezze in un orecchio; lanciare la pallina al proprio cane divertiti dall’aria attenta e concentrata dei suoi occhi. Azioni ripetibili, queste, appunto. E, proprio perché ripetute e ripetibili, anche prevedibili. Ma, poiché anche prevedibili, per ciò stesso pure normali. Ripetibilità, prevedibilità e normalità, pertanto, orbitano in un circolo virtuoso: quanto più un’azione è ripetuta, tanto più è prevedibile, quindi ancor più normale. D’altro canto, un’azione è tanto più normale quanto più è prevedibile, e prevedibile quanto più frequentemente è ripetuta.

Si impone però un quesito: davvero quel circolo è virtuoso? Non potrebbe essere vizioso, invece? Parrebbe di no. Ma che accadrebbe se, a quel circolo, si aggiungesse un quarto elemento, un elemento estraneo, ossia giusto? Il rapporto precedente tra ripetibilità, prevedibilità e normalità certamente cambierebbe: un’azione ripetuta e quindi prevedibile, pertanto normale, diverrebbe, proprio per via di questa normalità, anche per ciò stesso corretta. Ecco che allora quel quarto elemento esterno al circolo pare aprire una dimensione nuova nel circolo stesso, quasi una radura nella quale ora splende il sole dell’etica.

Il “sole dell’etica”? E se invece, al contrario, proprio giustizia gettasse una luce oscura su uno dei tre elementi del circolo, sulla normalità, e ne ne allungasse le ombre? Fuor di metafora: e se giusto schiudesse una dimensione non-etica di normale? Perché, affermando che sia corretto solo ciò che è normale, sembra che ci si incammini lungo una strada pericolosamente agevole, il cui nome è “dogmatismo”.

Sostenere, infatti, che solo ciò che è normale sia giusto vuol dire, d’altro canto, ammettere anche che quanto è non-normale (inconsueto, differente, unico) sia non-giusto. Dogmatismo di pensiero, appunto. Un vero e proprio errore della ragione, la quale, nel continuo avvitarsi fallace su di sé, può infine giungere alla violenza ideale sull’altro eticamente giustificata – per esempio, di una certa visione del mondo particolare. E alla violenza fisica, la traduzione sul piano pratico della spirale di violenza/giustificazione etica della violenza teorica che domina il pensiero, non vi è che un passo. Ecco, in ultima analisi, a che cosa conduce l’ipostatizzazione della normalità, la meta della strada denominata “dogmatismo”: l’aggressione totalitarista e totalitaria ai danni del diverso.

Certo, questi sono come due macchie di colore pece che sono riuscite ad annerire un “grigio” originario – “casi estremi”. E il grigio è il colore dell’esistenza quotidiana, della normalità di tutti i giorni, appunto. Ma esso può diventare nero, come si è visto: la normalità può condurre alla violenza – alla ridicolizzazione di un modo diverso di pensare, di credere, di vivere, alla purga di quel modo diverso di pensare, di credere, di vivere mediante l’olio di ricino. Ma il grigio può diventare anche bianco, fortunatamente. La normalità può, insomma, con l’uso retto della ragione, essere anche pensata per quel che davvero è: solo un concetto, utilizzato dall’intelletto per ordinare i fenomeni della natura che si osservano più frequentemente. Ma se la normalità è riconosciuta per essere un mero costrutto intellettuale elaborato al fine di controllare e non temere il fenomenico, allora neppure può essere brandita contro quei fenomeni che in essa non rientrano, che non si fanno “circoscrivere”. Se la ragione riconosce questo, che vi è nel reale sempre qualcosa che sfuggirà al concetto di normalità e che, per essere pensato opportunamente, richiede altre categorie, allora il grigio sarà diventato bianco-neve.

 

Riccardo Coppola

 

[Credit Mohdammed Ali via Unsplash.com]

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Iperione e la ricerca dell’armonia della natura

Vi parlerò di un viaggio, ma non un viaggio come tutti.

Si racconta della vita di un ragazzo che diviene allievo, amico, soldato che lotta per degli ideali, innamorato ed infine eremita. La bellezza al centro del mondo, dell’esistenza, viene esperita in qualsiasi forma. È così che l’eroe scopre che la prima creatura della bellezza è l’arte, così come la seconda è la religione, che è amore della bellezza. E poi la poesia comprende e accoglie tutti i suoi gradi, poiché il giovane ritrova in essa l’essere infinito, eterno e divino, che si vuole ricercare attraverso il pensiero filosofico. La natura, in cui regna sovrana la pace e la divinità, riempie di serenità la mente e l’anima del protagonista e lo consola donandogli quiete e la felicità perduta. L’ardore giovanile infuoca il cuore dell’eroe che sente di dover agire per la difesa e il bene della sua patria e affronta con coraggio battaglie in nome della libertà e della giustizia. E l’amore, l’amore lo educa nella gentilezza, nel vedere quella bellezza nascosta, intrinseca perfezione nell’apparente caos. Ed ecco che posso svelare almeno il nome di colei che è capace di riportare nella luce un eroe smarrito nelle sue guerre contro la caducità del tempo e le ingiustizie umane: Diotima. Come scrive Giovanni Amoretti, Diotima sa essere donna in casa, come sa essere la donna del suo amato nel partecipare alla vita di lui, nello spronarlo nell’azione, nell’amarlo in modo tale da modificare il suo sentire, il suo modo di vivere, il suo rapporto con la natura1. È personalmente una delle figure più interessanti del racconto che sprigiona una luce rara, di un valore inestimabile, di cui si loda l’equilibrio e lo splendore, non solo fisico, ma intellettuale.

«Che cosa è tutto quello che, nei millenni, gli uomini hanno compiuto e pensato di fronte a un solo istante d’amore?»2. Questo scopre il giovane protagonista durante la vita. E alla fine si rende conto che «la conducono tutti i gradini, sulla soglia della vita, di là veniamo e colà diveniamo»3.

Quello che sarebbe bello omettere a questo punto è che si tratta di una tragedia. In qualche modo questo sogno idilliaco si infrange in un lutto che fa cadere nella sofferenza e nel dolore il nostro eroe. Solo il ritorno in patria, l’amata Grecia e la solitudine nella natura risveglierà la volontà di vita e la speranza nei suoi occhi. Tutto torna al proprio posto e ritorna l’essere note in accordo con l’armonia della natura.

«O anima! Bellezza del mondo! Tu indistruttibile! Tu affascinante! Con la tua eterna giovinezza, tu esisti; che cosa è, pertanto, la morte e tutto il dolore degli uomini? Quante vane parole hanno inventato gli uomini strani. Tutto avviene per effetto di un desiderio e tutto termina nella pace»4.

Altro non posso raccontarvi di questa storia, ma è arrivato il tempo per svelarvi il titolo.

Iperione di Friedrich Hölderlin è tutto questo e molto di più, lasciatevi trasportare in questa esperienza poetica. Iperione o l’eremita in Grecia5 è per lettori coraggiosi, che ricercano l’entusiasmo in questa vita che in tanti momenti può essere grigia. Questo romanzo epistolare rappresenta la speranza e la bellezza stessa della forza dell’amore puro che può travolgere tutto, ed è ancora una volta essere il motore del mondo.

 

Azzurra Gianotto

NOTE
1. Nota di F. Hölderlin, Iperione, Universale Economica Feltrinelli, Milano 2009, p.74
2. Ivi, p.76
3. Ibidem
4. Ivi, p. 178
5. In lingua originale: Hyperion oder der Eremit in Griechenland

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Piccoli cuori artificiali

In un comunicato stampa del 6 dicembre 2016, l’Ospedale Pediatrico del Bambino Gesù si è incaricato di avviare, dai primi mesi del 2017, la sperimentazione clinica del minicuore artificiale Jarvik 15mm.

Fu esattamente all’interno del Dipartimento Medico Chirurgico di Cardiologia Pediatrica del Bambino Gesù che, quattro anni fa, fu impiantato, per la prima volta al mondo, un prototipo di Jarvik Heart miniaturizzato, salvando la vita a un bambino di soli sedici mesi.

Parallelamente, è stata la Food and Drug Administartion, organismo supervisore di controllo della sanità statunitense, ad aver autorizzato la sperimentazione clinica su ottantotto bambini affetti da una cardiopatia avanzata del minicuore artificiale, il dispositivo di assistenza ventricolare sinistra della Jarvik.

Lo scopo di tale ricerca sperimentale è quello di verificare l’affidabilità di due dispositivi cardiaci distinti: da un lato, il dispositivo ventricolare sinistro intracorporeo della Jarvik 15mm, alimentato da batteria esterna, e dall’altro, il Berlin Heart pediatrico, un sistema di assistenza paracorporeo che costringe il bambino, in attesa di trapianto, al ricovero ospedaliero.

Certo, il fine ultimo di queste ricerche non viene valutato unicamente in termini quantitativi, bensì in termini qualitativi. Si tratterebbe, infatti, di comprendere quale sarà la soluzione clinicamente più efficace per il benessere e la sopravvivenza dei piccoli pazienti.

L’ingegneria medica ha fatto dei grandi passi in avanti negli ultimi decenni.

Basti pensare ai LVAD (Left Ventricular Assist Device), dei dispositivi di assistenza ventricolare sinistra di nuova generazione.

Considerando la scarsità di donatori rispetto all’elevato numero di pazienti cardiopatici, questi apparecchi rappresentano una reale terapia alternativa al trapianto di cuore. Permettendo così a un bacino più ampio di pazienti di poter sopravvivere; talvolta, di sopravvivere in condizioni di salute migliori rispetto agli stessi trapiantati.

Ed è esattamente questo il punto. Senza LVAD, un paziente con scompenso cardiaco avanzato e non inserito in lista, muore. Non ha alcuna speranza di poter sopravvivere.

C’è tuttavia da sottolineare che i LVAD, se da un lato sono considerati impianti tanto invasivi quanto una qualsiasi altra operazione a cuore aperto, dall’altro lato funzionano unicamente tramite un controller a batterie ricaricabili. Non è un caso che, proprio quest’ultimo aspetto, possa sollevare alcune problematiche etiche.

Pertanto, la vita dei pazienti con impianto LVAD è appesa letteralmente ad un filo: dipendenti di questa pompa artificiale, devono costantemente fare attenzione alla durata delle batterie – di circa otto ore– che li mantengono in vita. Dimenticarsi di ricaricarle equivarrebbe a morire.

Se qualcosa andasse storto, se un meccanismo interno smettesse di funzionare, sarebbe necessario correre d’urgenza al più vicino centro VAD di riferimento.

In Italia, però, una decina di regioni sono sprovviste di tali centri. Non è un caso se la posizione geografica è diventata, nel nostro territorio, uno degli elementi imprescindibili per la selezioni dei candidati all’impianto, sollevando per altro numerosi interrogativi circa l’equo accesso a queste preziose – e costose – risorse, capaci di mantenere in vita in casi di cardiopatia grave e avanzata.

Di possibili conseguenze ed effetti collaterali, è innegabile, ce ne sono tanti. Per questo, è giusto che il paziente, accompagnato dall’équipe sanitaria, sia reso consapevole – se ancora cosciente – delle diverse alternative cliniche, così come degli effetti collaterali post impianto.

Quando si parla di bambini, però, è tutta un’altra storia. C’è una creatura che non sa e non è cosciente di ciò che potrebbe andare incontro. C’è la sua innocenza e l’ingiustizia di una vita tolta ancor prima di essere vissuta. C’è una dignità da preservare fino all’ultimo respiro. C’è il dolore di quei genitori posti di fronte alla complessità di un interrogativo che oscilla tra la “vita a tutti i costi” e il “lasciare andare” il loro bambino. Come diventa possibile fare i conti con la complessità di un’esistenza che non lascia scapo? Come decidere per il bene del piccolo paziente, allo scuro delle imprevedibili conseguenze che l’impianto potrebbe effettivamente causare? Come possiamo proteggere i nostri bambini e fare loro del bene?

Seguire il principio ippocratico di beneficienza – o beneficialità –, in linea con il detto latino primum non nocere, conduce i medici, i professionisti sanitari e i familiari ad affrontare situazioni complesse, spingendo ciascun soggetto implicato nella relazione di cura a rivalutare il valore del senso dell’esistenza. Un’esistenza talvolta già strappata e ferita e che, forse, chiede silenziosamente di essere lasciata andare.

 

Sara Roggi

[Immagine tratta da Google Immagini]

 

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Call for papers: il Festival di Filosofia di Ischia lancia il tema ‘Valori: Continuità e cambiamento’

La Filosofia, il Castello e la Torre, Festival Internazionale di Filosofia di Ischia giunto alla sua III edizione lancia la sua Call for papers: Valori continuità e cambiamento è il tema conduttore dell’edizione 2017. Bene, Bellezza, Verità, Giustizia, Uguaglianza, Libertà, Potere, Sicurezza, Dignità, Fratellanza, questi alcuni tra i concetti chiave su cui si vuole incentrare la discussione pubblica.

Chiamati ad intervenire con una relazione dalla lunghezza massima di 500 parole non sono solo i filosofi ma chiunque senta di poter contribuire allo sviluppo del tema con una riflessione appartenenti alle quattro sezioni di intervento proposte: Ti esti? Cos’è il Valore?, Teorie dei Valori, Il valore dei valori: utilità e applicazioni, Arte e Valori. 

Ischia International Festival of Philosophy 2017 riporta la Filosofia alla sua funzione fondamentale e molto più legata alla dimensione pratica: interrogarsi sui valori.

«Affrontando il vasto campo dell’agire umano, e dunque della filosofia pratica e dell’etica, occorre adesso concentrarsi sul nesso – di continuità o discontinuità – tra teoria e prassi. L’emergere di nuove dinamiche sociali, dovuto tra l’altro ai mutamenti demografici e all’alterarsi della composizione sociale, rende necessario mettere a tema la questione della convivenza tra individui e tra popoli, soprattutto alla luce dell’ideale di un’Europa libera, unita e pacifica, in cui purtroppo le differenze culturali fanno fatica a convivere.

In quest’ottica s’intende porre un interrogativo sui valori che metta congiuntamente a tema il tratto storico del loro costituirsi e il richiamo alla trascendenza che essi sembrano costitutivamente incarnare, sia che li si concepisca come universali a priori semplicemente da riconoscere, sia che li si intenda come il segno dell’irriducibilità ultima tra epoche e culture differenti. Alla luce di queste domande potrà forse essere ripensato il senso stesso del “dare valore” tanto nella sua funzione positiva che nella sua portata critica. Allora è proprio nei valori che bisogna “custodire valore”. Nell’alterità il valore si riconosce come tale, nell’alterità di un valore non conosciuto ma riconosciuto. Ogni persona, cultura, nazione rappresenta e presenta un valore di diversità con il quale rapportarsi. Considerare queste diversità e rendere degno lo spazio dell’ascolto e della coesistenza è forse l’unico gesto che ci porterà alla condivisione più armoniosa. L’appartenenza è unica, l’essere umano è unico perché abitante di un unico spazio.»

Come partecipare? Inviando la propria proposta di relazione a ischiafilosofest@gmail.com, con una breve biografia; potrete essere selezionati per intervenire direttamente durante il Festival. 

Per scaricare la Call for Papers integrale clicca qui 

Per scaricare l’approfondimento sul tema Valori, continuità e cambiamento clicca qui

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Chiamati ad intervenire sul tema sono anche i giovani pensatori tra i 16 e i 23 anni: nasce la call Young Thinkers Festival, Become a Philosopher!

Per tutti i giovani con una forte attitudine al pensiero filosofico, quest’anno il Festival di Ischia vuole lanciare delle sessioni intere di intervento ai ragazzi e ai giovanissimi filosofi. È sufficiente presentare una proposta di relazione, da soli o in gruppo, per poi discuterne con i coetanei e adulti durante le giornate del Festival. Un modo nuovo e dinamico per permette a giovani studenti di filosofia e non solo di intervenire con una propria riflessione davanti al pubblico, riportando così la Filosofia alle sue origini: in piazza. 

Per scaricare la Call Young Thinker Festival, Become a Philosopher clicca qui

Per maggiori informazioni visita il sito La Filosofia, il Castello e la Torre

Elena Casagrande

[Immagini di proprietà di Ischia International Festival of Philosophy]

Educare alla sofferenza tramite il dolore

«Gli uomini sofferenti si rendono simili tra loro mediante l’analogia della situazione, la prova del destino, oppure mediante il bisogno di comprensione e di premura, e forse soprattutto mediante il persistente interrogativo circa il senso di essa» 1.

Il dolore come passività, la pazienza, o sofferenza (da sub più fero, cioè porto su di me), parallelamente, come elaborazione positiva del dolore che gli riconosce un senso e ne fa una fonte di energia e non di depressione. Si pone, così, la “virtù della pazienza”, l’attiva assunzione del dolore come risorsa, consapevole colpo di sonda nel proprio intimo.
Il dolore è cosa diversa dalla sofferenza. Se da una parte c’è una risposta empirica ad uno stimolo nocivo, dall’altra c’è un fenomeno più complesso, la rivelazione della presenza di un qualcosa che non è controllabile.

É proprio nel modo di rispondere alla sofferenza che gli individui, singolarmente ma anche all’interno della comunità di riferimento, definiscono la propria identità, sviluppando così il proprio ethos.

Quella della sofferenza è un’esperienza unica ed intima, una sfida vissuta dalla globalità della persona, che emerge nel momento in cui le colonne del proprio foro interiore sono sotto assedio, minacciate da un qualcosa che è fuori o dentro di sé.
F. Dostoevskij, in Ricordi del sottosuolo, parla dell’essere umano come di colui il quale non rinuncerà mai alla vera e autentica sofferenza, perché è proprio lì che la fonte originaria della coscienza.
La sofferenza può così essere concepita, interpretata e dunque osservata come esperienza della contrazione del proprio, intimo, personale significato e nel riverbero della sua eco.

Parallelamente questa esperienza coinvolge l’individuo in un processo ampio e complesso il quale include la possibilità personale di confrontarsi, di affacciarsi, quasi tendendo una mano, anche al mondo interiore altrui.

Eric Cassel parla di questa nostra dimensione come di ciò che si sperimenta in risposta ad una minaccia del sé, ad un’offesa della propria identità e integrità:

«[…] Essa persiste fino a che la minaccia è superata o l’integrità è stata restituita. La sofferenza determina alcuni sintomi o fenomeni che minacciano il paziente a causa dei sentimenti di paura, dell’incertezza sul futuro e della natura stessa dei sintomi. I significati e i sentimenti di paura sono talmente personali ed individuali che pazienti che hanno gli stessi sintomi possono avere gradi e modi diversi di soffrire»2.

Il linguaggio che descrive e definisce la sofferenza del paziente è differente dal linguaggio abitualmente usato in medicina, infatti

«[…] vi è spesso una dissociazione fra il nostro modo di interpretare il caso e il modo di raccontare del paziente. Questa è una delle cause della nostra incapacità di dare sollievo alla sofferenza. […] Osservando la formazione e il modo di agire dei medici sembra che la persona, con il suo carico di opinioni […], di paure, di fantasie, di comportamenti fuorvianti, debba essere isolata dai suoi vissuti per poter meglio raggiungere l’obiettività della diagnosi»3.

Quando il medico si interessa del corpo e trascura la globalità della persona, diventa incapace di diagnosticare la sofferenza.

Il drammaturgo greco Eschilo, più di 2500 anni fa, parlava di questa dimensione come di uno strumento per educare gli uomini alla giustizia, proprio perché solo grazie alla consapevolezza di questo moto interiore, come risposta e rielaborazione di una forza esterna o interna che ha agito su di loro, saranno posti nella condizione di inclinare la testa, virare lo sguardo, magari solamente per un secondo, che così si stenderà su di loro, portandoli ad una più forte coscienza di sé.

 

Riccardo Liguori

 

NOTE:
1. Giovanni Paolo II, in un Messaggio in preparazione alla VIII giornata Mondiale del malato, 6 agosto 1999, §.13.
2. E.J. Cassell, Diagnosing suffering: A perspective, “Annals of Internal Medicie” 131 (7), 1999, pp. 529-530.
3. Ivi, pp. 531-534.

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